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Discutere senza capirsi2019-10-06T08:14:58+02:00

Discutere senza capirsi – Dibattito con Livia Turco

Ottobre 2019

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DISCUTERE SENZA CAPIRSI

Il primo di ottobre 2019 è comparso su Quotidiano sanità un articolo di Livia Turco che riporto integralmente.

Fine vita e diritto all’amorevolezza

L’amorevolezza si basa sulla relazione di cura, dell’ascolto, del rispetto, della presa in carico della persona, una relazione che trasmette anzitutto calore umano. Beni preziosi che fanno la differenza e contribuiscono in modo rilevante a definire la qualità della vita delle persone

 

01 OTT – Ogni volta che si affrontano le questioni etiche relative al  “fine vita”  il dibattito pubblico si polarizza tra i sostenitori della sacralità della vita e i sostenitori della libertà di scelta e l’autodeterminazione delle persone.

 

E’ accaduto anche di fronte alla recente sentenza della Corte Costituzionale, a mio avviso molto equilibrata e saggia, in merito al suicidio assistito.

Per promuovere concretamente la dignità della vita umana e rendere veramente libero l’esercizio della scelta bisogna praticare ed esplicitamente nominare un terzo diritto, il ”diritto all’ amorevolezza”.

 

Che deve essere un dovere per le famiglie, le istituzioni, la comunità, la comunità della cura.

L’amorevolezza rende concreto l’amore per la persona e crea le condizioni per  l’esercizio della libertà di scelta.

 

Perché l’amorevolezza si basa sulla relazione di cura, dell’ascolto, del rispetto, della presa in carico della persona, una relazione che trasmette anzitutto calore umano. Beni preziosi che fanno la differenza e contribuiscono in modo rilevante a definire la qualità della vita delle persone.

Siamo sicuri che questo bene fondamentale, la relazione di cura, sia alla base degli interventi sanitari, sociali, della attenzione delle famiglie e delle istituzioni?

Siamo sicuri che sia una opportunità per ciascuna persona malata?

Io ne dubito.

 

Resta avvolto in un cono d’ombra, nel dibattito pubblico, la condizione della lunga convivenza con la malattia che costituisce uno dei più rilevanti bisogni di salute.

La lunga convivenza con la malattia coinvolge situazioni e patologie diverse e andrebbe indagata nella condizione umana che la contraddistingue. Essa pone l’esigenza di un approccio olistico alla persona in cui la relazione umana, l’attivazione delle sue competenze, la lotta contro il dolore sono ingredienti universali e fondamentali.

 

Creare le condizioni affinché la lunga convivenza con la malattia, nelle multiformi situazioni e gradi di dipendenza in cui si manifesta, sia una condizione pienamente umana, è un nuovo diritto alla salute che bisogna elaborare e costruire.

Il diritto /dovere all’amorevolezza contrasta con la cultura dello “scarto” e con l’economicismo che determinano tante situazioni di abbandono, di solitudine, di enorme fatica per le famiglie. Fenomeni molto diffusi anche se silenziosi che inducono una sorta di “dovere di morire” il più rapidamente possibile che si abbatte maggiormente sui soggetti più poveri e privi di affetti famigliari.

 

Affermare il diritto alla amorevolezza e il dovere della amorevolezza illumina la concreta condizione della malattia, della sofferenza, della dipendenza. Illumina il silenzioso” dovere di morire” cui sono indotte persone povere, sole e fragili.

Mette al centro le cure mediche, le pratiche umane e sociali che possono alleviare la sofferenza e rendere umana la convivenza con la malattia. Facendo di queste politiche, interventi fondamentali e cruciali nei percorsi di assistenza e cura sanitari e sociali.

 

Oggi questo non c’è. Lo conferma ad esempio la situazione delle cure palliative e delle terapie  contro il dolore.

Previste come diritto della persona e come livello essenziale di assistenza da una legge che compie  dieci anni, la legge 38/2010, considerata tra le più  avanzate d’Europa essa resta poco applicata.

 

In essa la palliazione e la terapia del dolore sono collocate all’interno del percorso di cura dei pazienti e non limitatamente alla parte terminale della loro vita. La medicina delle cure palliative è e rimane un servizio alla salute. Non dunque una medicina per il morente e per aiutare a morire ma una medicina per la persona che rimane una persona vivente fino alla morte.

Le terapie contro il dolore considerano il dolore non come un male da sopportare ma una malattia che deve essere presa in carico, combattuta e alleviata. So bene che la disponibilità di cure palliative e di terapie contro il dolore non è in grado di alleviare stati acuti di malattia e condizioni umane non  più sopportabili. 

Tuttavia se esse fossero considerate una priorità assoluta per le politiche di sanità, se esse fossero più presenti nel dibattito pubblico tante persone vivrebbero meglio e in condizioni più umane la convivenza con la malattia. Sarebbero un esempio di quella amorevolezza verso la persona che ciascuno di noi deve essere stimolato ad apprendere e praticare.

Livia Turco

Ex ministro della Salute

01 ottobre 2019

© Riproduzione riservata

Il due di ottobre lo stesso Quotidiano ha riportato la mia analisi, certamente non favorevole, del suddetto articolo. Eccola:

Considerazioni sulla “ amorevolezza “.

So che l’uomo si affida alla ragione per la propria sopravvivenza e alla metafisica per la propria consolazione, ma che si affidi anche alla retorica, questo no, proprio non lo sapevo. Ma prima di parlare di questa “amorevolezza” ( ma che brutta parola!) lasciatemi dire qualcosa sul dolore

Il primo problema di cui voglio parlare riguarda il diritto di morire, di rinunciare ad esistere quando proprio non ce la facciamo più, quando il dolore ha sopraffatto ogni nostra capacità di resistere, fino ad indurci a porre termine alla nostra esistenza, ammesso di non avere contratto debiti con la società. Ma esiste il diritto di chiedere a un medico, a un amico, di aiutarci a compiere quel passo? E dopo che abbiamo abbandonato il nostro corpo, quando non lo abitiamo più e la vita in lui non ha altro scopo se non quello di far crescere la barba e di stimolare la contrazione dell’intestino, abbiamo ancora il diritto, noi per l’averlo lasciato scritto da qualche parte, le persone che ci hanno voluto bene per rispettare i nostri ultimi desideri, di imporre ai medici di smetterla di torturare inutilmente quel povero guscio vuoto e di lasciare che si spenga in lui anche l’ultima, inutile scintilla di vita biologica? Personalmente ritengo di essere padrone della mia esistenza, ma rispetto coloro che la pensano diversamente da me e ritengono che l’esistenza non ci appartenga ma ci sia stata data con uno strano dono che esige una restituzione. Chiederei,  penso di averne il diritto, altrettanto rispetto.

La seconda cosa della quale voglio parlare è il dolore, un discorso difficile perché esistono tante varietà di sofferenza, tanti sinonimi, tanti sentimenti e tante esperienze che le sono apparentate da costruire un labirinto nel quale è facile perdersi. Come medico ho frequentato soprattutto il dolore fisico, quello del corpo, ma non mi è ignota la sofferenza morale, il dolore dell’anima. Maurizio Mori li considera insieme e li descrive soprattutto per lo spettro altrettanto variegato quanto quello dei colori che li contraddistingue, così che molti di essi possono essere ricondotti a esperienze uniche. La medicina non è capace di sottigliezze e tende a semplificare i concetti. Se trova una sofferenza, la considera e la cura come una malattia, ma la sua capacità di riconoscere il tipo di sofferenza al quale si trova di fronte è molto limitata.

È vero comunque che esistono molti tipi di dolore,  dolori così diversi che alcuni di essi sono tra loro irriducibili. In realtà, per semplicità e per chiarezza, mi limiterei a definirne due: quello che potrebbe anche terminare, dal quale potremmo guarire, nei confronti del quale possiamo nutrire speranze; quello che certamente non guarirà mai, lo troveremo ogni mattina ad attenderci sapendo che ogni giorno ci dirà qualcosa di più cattivo di quanto ci abbia raccontato il giorno precedente. Questo è di gran lunga il dolore peggiore, perché è anche angustia, angoscia, affanno, solitudine, lutto. Questo è il dolore che può aggredire quella parte della nostra umanità che maggiormente ci preme perché può essere incompatibile con la nostra dignità e pertanto con la nostra capacità di accettare la permanenza in vita.

Questo dolore non può in alcun caso avere un valore sacrifico, non lascia altri spazi se non quelli che possono essere riempiti dalla sofferenza.

 

Posso dire, per esperienza personale, che vivere nel dolore ci consente consentito di capire fino in fondo che cosa intendiamo per dignità: è la cenestesi dello spirito, il ricordo di me che vorrei lasciare alle persone che mi hanno voluto bene, la consapevolezza di meritare il rispetto affettuoso e sincero da parte delle persone che sono riuscito ad aiutare.

Vivere nel dolore, consapevoli del fatto che non ti abbandonerà mai, fa nascere dentro di te, a un certo punto della tua esistenza, il desiderio di abbandonarla. E la scelta del momento di questo abbandono dipende molto di più dal tuo amore per gli altri che dall’amore degli altri per te. Questa “  amorevolezza” (ripeto, ma che brutta parola!) fa parte di quei “ debiti sociali” che mantengono in vita anche coloro che patiscono di sofferenze inenarrabili. Questo però non potrà durare in eterno: verrà il momento in cui nelle persone che amo prevarrà il sentimento di dolore legato al fatto di dover assistere quotidianamente alle mie crescenti sofferenze sapendo di non poterle lenire in alcun modo; in quel momento capirò anche che è iniziata una rinuncia alla mia dignità e che sono sul punto di lasciare di me un ricordo orribile, quello di una persona che sta morendo lentamente affogata dal proprio vomito, abbrutita dai propri lamenti. In quel momento sceglierò di andarmene e chiederò alle persone che mi vogliono bene di aiutarmi, cercando di non coinvolgerle troppo, ma non lasciandole completamente fuori dalle mie ultime scelte.

Ho molto rispetto per i cattolici e per le loro personali scelte, anche quando coinvolgono cose nelle quali non credo. Chiederei altrettanto rispetto.

Capisco che la Chiesa cattolica si opponga, sulla base dei suoi dogmi personali e privati e delle sue verità, a una cura moderna della sterilità, all’impiego di farmaci che impediscono la gravidanza indesiderata, all’eutanasia, persino a quella compiuta nelle condizioni più disperate e in assenza di ogni speranza. Ma da non credente vorrei che di fronte ai problemi della sofferenza si cessasse di utilizzare lo spadone a due tagli della “ verità religiosa”, di qualsiasi divinità si ritenga testimone. La “ verità religiosa “ è una verità come le altre, certamente non illuminata dalla luce delle certezze se non per i suoi fedeli. Mi piacerebbe confrontarmi con religioni che basano il loro intervento sull’uomo non più su questa imperfetta “ verità “, ma sulla compassione. Compassione, non pietà: perché la pietà discende, la compassione è orizzontale, ci vede tutti uguali, tutti fratelli disposti a soffrire con gli altri fratelli.

 

Questa lettera che ho letto sulla “ amorevolezza” è un insulto al mio buon senso e alla mia dignità. Non basta essere un ex ministro della salute per scrivere queste cose.

Carlo Flamigni

Inevitabilmente la signora Turco si è difesa e sul Quotiano Salute, il tre di ottobre è comparso questo breve articolo:

04 OTT – Gentile Direttore,

vorrei rispondere a quanto scritto dal professor Carlo Flamigni in merito al mio articolo sul diritto all’amorevolezza. La mia riflessione nasce dalla mia esperienza di cittadina laica che si  è misurata e si misura  con le condizioni di lunga convivenza con la malattia.

Come donna politica che nella vita si è sempre battuta per la libertà di scelta, mi sono impegnata in Parlamento per la legge sul testamento biologico e sono stata autrice della legge 38/2010 sulle cure palliative e la lotta contro il dolore e come Ministra ho promosso provvedimenti concreti come le risorse per gli hospice, i loro standard, la professionalità degli operatori, le cure palliative pediatriche, i comunicatori per i malati di Sla, l’aggiornamento dei Lea.

Mi sento ora impegnata  da cittadina a portare avanti queste battaglie perché leggi importanti siano applicate.

E’ proprio questa esperienza umana sul campo che mi fa vedere quanto siano diffuse  le situazioni  di dolore da lei egregiamente descritte, quante eccellenze vi siano di presa in carico delle persone colpite da tale dolore da  parte del nostro sistema sanitario ma quanto siano diffuse le situazioni in cui il servizio sanitario e sociale non arriva o non arriva in modo adeguato.

E di quanto siano diffusi i fenomeni di abbandono e di solitudine. Che colpiscono in particolare i più poveri. Sono una donna di sinistra ed ho a cuore la giustizia sociale. Mi indigna profondamente constatare che la più tragica delle diseguaglianze è anche quella più nascosta e taciuta ed è  la diseguaglianza nella fragilità, nella non autosufficienza e nel fine vita.

 

Se non hai una famiglia con risorse adeguate, se non hai le informazioni adeguate, se sei solo,  vivi la tua fragilità e la fase finale della vita in stato di abbandono Questo non lo accetto! Mi indigna! Mi indigna che chi opera nella sanità e nel sociale faccia finta di non vedere o non abbia testa e cuore per vedere queste situazioni di abbandono. 

Questa è la questione che ho inteso sollevare. L’ho fatto con il cuore.

Anche perché la parola Amorevolezza che per il professor Flamigni sembra sia una stupidaggine mi è scaturita dalla relazione umana con persone in carne ed ossa che chiedevano  uno sguardo amichevole ed un po’ di calore umano.

Livia Turco

Vorrei concludere

Gentile signora Turco,

come Lei certamente può capire, la mia prima intenzione è stata quella di mettere in seria discussione la sua dichiarazione di laicità, ma poi  mi è venuto in mente che nei dizionari “laico” è definito anche colui che non fa parte del clero e non ha ricevuto gli ordini sacerdotali. Quindi, salvo sorprese che non mi attendo, Lei è laica. Evviva!

Mi chiederà a questo punto perché sto riportando la nostra discussione sul mio sito. Fondamentalmente è perchè così, almeno quelli che ogni tanto curiosano intorno ai miei scritti, si renderanno conto che Lei non ha capito quello che avevo cercato di spiegarle. Colpa mia? Francamente non so.

In linea di principio, comunque, fossi in lei, mi asterrei dal dichiararmi preventivamente laica, intendendo la laicità correttamente, ovvero in senso diverso dal non indossare abiti talari, prima di esprimere un parere su qualsiasi cosa, perchè le dichiarazioni non richieste si sa, si prestano ad equivoci. Mi piacerebbe vivere in un paese in cui la professione di laicità non viene richiesta perchè è sottintesa ad ogni dichiarazione pubblica, casomai sarà la mia professione di fede a dover essere dichiarata. Cordialmente

Carlo Flamigni