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La triste storia di Alfie narrata alle persone di buonsenso2018-12-15T11:30:27+02:00

La triste storia di Alfie narrata alle persone di buonsenso

Maggio 2018

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La buona morte e il lasciar morire

Gli argomenti dei quali tratterò, anche senza citarli direttamente in ogni occasione, riguardano la malattia, la sofferenza priva di speranza che precede la morte ( quella della quale Maurizio Mori ha dato una definizione molto bella. chiamandola la condizione infernale) e la morte stessa , che evidentemente non è “il peggior di tutti i mali” visto che c’è chi la cerca e la invoca per sottrarsi al dolore. E’ possibile parlarne insieme perché si tratta pur sempre di rappresentazioni tragiche che si svolgono prevalentemente sullo stesso palcoscenico, quello dell’Ospedale. Meglio ancora, è possibile parlarne insieme perché riguardano il modo col quale ci confrontiamo con la morte, la malattia e la sofferenza, noi, i nostri curanti, coloro che ci amano. E ciò perché le regole che governano il corso delle malattie, l’attenzione alla sofferenza e le modalità del morire sono profondamente mutate nel giro di pochi decenni.

Scrive Philippe Ariès che dagli anni 60 del XX secolo la morte è stata come cancellata e rimossa e la sua semplice menzione sembra quasi sconveniente. In realtà i bambini dell’era vittoriana sapevano tutto di come si muore e nulla o quasi di come si nasce laddove i nostri figli sanno molto del sesso e della generazione e quasi nulla della morte e del trapasso. C’è oggi, per dirla con Geoffrey Gorer, una sorta di pornografia della morte, teoricamente vietata agli innocenti. Nello stesso modo è cambiato il nostro rapporto con la malattia, la maggior parte di noi vuol sapere tutto sul morbo che l’affligge perché vuole poter essere messa nelle condizioni di prendere le decisioni più opportune. E ovunque, nelle tavole rotonde e nei congressi politici, in televisione e nelle aule dei tribunali, a teatro e nei circoli culturali, si discute di eutanasia, di accanimento terapeutico, di suicidio assistito, di diritto alle cure palliative, di dignità, di qualità e di sacralità della vita, mentre si parla in modo sempre più critico di vitalismo medico e del cosiddetto “dolorismo”, la dottrina per la quale anche il dolore terminale sarebbe buono perché indicherebbe una intrinseca e virtuosa forza d’animo, una delle tante forme di sadismo teologico dottrinale delle quali si infiora il cattolicesimo. E’ evidente che la malattia, la sofferenza e la morte non sono più fatti privati, tragedie da consumare tra le mura domestiche, ma si svolgono prevalentemente alla presenza di caratteristi e di comparse, personaggi minori, spettatori più o meno interessati, una partecipazione variegata e complessa, ma nella quale un elemento comune pure esiste, ciascuno sembra portatore molto più di interessi privati che di pubblica compassione.

Dunque le rappresentazioni che si svolgono negli ospedali sono particolarmente difficili da decifrare; e i personaggi, anche i più odiosi, sono difficili da giudicare e altrettanto spesso difficili da assolvere e da perdonare. Il medico nasconde il malato alla morte e lo mantiene in vita anche quando per lui, intendo naturalmente il malato, il sipario è ormai definitivamente calato: partecipare a quel gioco di rimpiattino con la morte significa solo brancolare nel buio della sofferenza, senza alcuna speranza, è il dolore che ci risveglia dal farmaco, unica speranza è quella di non svegliarci più, ma il medico non vuole, orgoglioso della sua crudeltà e della sua fede o, a voler essere generosi, orgoglioso della sua fede e ignaro della crudeltà che ne discende.

Si muore dunque sempre più spesso a sipario sollevato, senza più alcun brandello di dignità, senza nemmeno poter chiedere di scegliere i caratteristi destinati ad accompagnarci, cosa di non poco conto perché saranno loro a scrivere le ultime pagine del diario della nostra vita. E’ difficile, e molte persone si stanno adoperando per renderlo impossibile, che ci venga concessa una qualsiasi possibilità di scelta.

Pierangela Floris, ordinario di diritto canonico nell’Università di Cagliari, in un articolo comparso nel febbraio del 2010 su ” Stato, Chiesa e pluralismo confessionale” scrive, a proposito dell’assistenza spirituale nelle strutture sanitarie: ” E’ un settore abbastanza esplorato, che richiamo perché ci offre gli esempi più significativi – direi ormai classici – di accordi locali gonfiati rispetto alle discipline di vertice, sia unilaterali che fittizie. Mi riferisco in specie ai piccoli accordi locali ( sperimentati ad esempio in Puglia, Umbria, Lazio) che hanno gonfiato i compiti dell’organico incaricato del servizio di assistenza religiosa cattolica”. E ciò è stato fatto sia estendendo l’area dei destinatari di tale servizio sia aumentando il numero di persone che ne debbono essere l’oggetto, un numero nel quale è stato ricompreso, tra l’altro, ” il contributo in materia di etica e di umanizzazione del personale in attività di servizio e l’eventuale presenza nei comitati etici”. Sempre secondo la professoressa Floris, queste aggiunte possono risultare “inadeguate a rispondere a esigenze di assistenza sempre più plurali dal punto di vista religioso e culturale”.

Sappiamo che queste scelte, malgrado le recenti contestazioni che hanno avuto per protagonisti un certo numero di dirigenti dell’UAAR, continuano imperterrite. Leggo infatti sui giornali che la Regione Veneto ha stipulato nel 2009 un protocollo d’intesa con la conferenza episcopale locale che impone alle ASL e ai nosocomi, pubblici e privati, di regolarizzare la posizione dei cappellani cattolici, presumibilmente sulla base della legge 823/1978 che chiede alle Regioni di perfezionare accordi con le diocesi per l’assunzione in carico di uno o più assistenti religiosi. Immagino che a provocare la reazione indignata di molti laici sia stata l’entità complessiva dei costi, due milioni di euro per il solo Veneto. Leggo in un articolo di Mario Accorti, dell’UAAR di Firenze, che l’assistenza spirituale prestata dai cappellani cattolici negli ospedali toscani costa già ai cittadini più di 2.000.000 di euro all’anno. Un’assistenza spirituale oltretutto assai poco efficiente, visto l’impressionante numero di suicidi nelle forze armate, nella pubblica sicurezza e nei carceri. Perché, nei fatti,la situazione attuale è più o meno questa: possiamo chiedere conforto e consolazione per le nostre angosce a centinaia di cappellani, tutti disponibili a staccarci un biglietto di viaggio per stazioni ultraterrene; troveremo straordinariamente difficile trovare uno straccio di psicologo che ci aiuti concretamente a restare attaccati a questa valle di lacrime nella quale, in fondo in fondo, vorremmo continuare a piangere. Riporto dati di Accorti: solo per fare un esempio: nell’Esercito si contano 211 cappellani militari, mentre ci sono solo 20 psicologi di ruolo nei 205 penitenziari, nei quali si verifica un impressionante numero di suicidi, che si svolgono oltretutto in assenza di un decente ascolto e dialogo offerto dalle istituzioni e in particolare del Servizio Sanitario Nazionale cui spetta la responsabilità della tutela della salute delle persone in stato di detenzione.

La lettura dei giornali cattolici, che hanno scritto molto su questi temi, è come sempre fuorviante, la scelta del Vaticano è da tempo quella di lamentarsi vittima di indebite aggressioni, povere pecorelle candide e innocenti accerchiate da branchi di lupi famelici, assetati di sangue cristiano,ma che importa a loro se questo sangue appartiene a brave persone misericordiose, dedicate al sostegno e al sollievo dei sofferenti, preoccupate solo di tenere per mano coloro che si accingono all’ultimo, definitivo passo. Mi viene in mente che gli scorpioni, accerchiati dalle fiamme, si suicidano, ma temo che sia una delle tante favole alle quali ci piace credere

Vediamo dunque quanto diverse possono essere le posizioni morali – e di qui le scelte concrete, che possono influenzare il comportamento dei sanitari e del personale infermieristico con il quale è possibile venire in rapporto nell’assistenza a un morente o, come si usa dire oggi, a un malato terminale. Poniamoci intanto qualche domanda. Esiste il diritto di morire, di rinunciare a esistere, quando proprio non ce la facciamo più e ammesso di non aver contratto debiti con la società? Esiste il diritto di chiedere a un medico, o a un amico, di aiutarci a compiere quel passo? E dopo che abbiamo abbandonato il nostro corpo, quando non lo abitiamo più, e la vita in lui non ha altro scopo di quello di far crescere la barba e stimolare la contrazione dell’intestino, -abbiamo ancora il diritto – noi per averlo lasciato scritto da qualche parte, le persone che ci hanno voluto bene per rispettare i nostri ultimi desideri – di imporre ai medici di smetterla di torturare inutilmente quel povero guscio vuoto e di lasciare che si spenga in lui anche l’ultima, inutile scintilla di vita biologica? Come tutti sapete c’è, su questi temi, una discussione acida e sgradevole; come sapete, questa discussione avviene tra chi sventola la bandiera dei diritti e chi agita lo stendardo degli interessi politici e appoggia le posizioni della religione di stato non per convinzione ma per mero calcolo. Ignobile, ma vero.

L’eutanasia ha origini molto lontane ed è stata utilizzata soprattutto per sottrarre moribondi incurabili alla sofferenza fisica, che in tempi lontani non poteva trovare sollievo. Gli eserciti dei tempi antichi avevano, tra il personale addetto alla cura dei soldati, esperti che dopo le battaglie vagavano per i campi alla ricerca di soldati gravemente feriti, per i quali non era immaginabile altra soluzione se non quella della morte. Questi esperti erano armati di un cuneo e di un martelletto, che serviva per somministrare la buona morte; tra i soldati godevano di grande rispetto, ai loro occhi interpretavano molto più la compassione della morte. Del resto, sia i greci che i romani avevano ben chiaro il concetto di “qualità della vita” , e la vita se la toglievano ( o se la facevano spegnere da un amico o da uno schiavo) non solo quando aveva perso qualità, ma anche quando non era più garante di una sufficiente dignità. Il suicidio – pensate a quello di Catone di Utica, che preferì morire piuttosto che vivere in un mondo privo di libertà – era spesso un nobile e coraggioso atto di affermazione dei propri principi ideali, l’estremo rifiuto di una vita indegna, cosa piuttosto difficile da capire per gente come noi, che ha perso di vista persino la via maestra della protesta indispensabile, quella della indignazione.

Bacone scriveva che i medici avrebbero dovuto imparare l’arte di aiutare gli agonizzanti a uscire da questo mondo con maggiore dolcezza e serenità, e nei secoli molti filosofi hanno giudicato criticamente il giuramento di Ippocrate. Eppure, un tempo la morte arrivava rapidamente, sia perché sopraggiungevano complicazioni delle malattie che i medici non sapevano trattare, sia perché nessuno, in realtà, la contrastava. Il vitalismo medico era certamente velleitario, nella maggioranza dei casi il malato decedeva a casa sua, non sempre dolcemente e quietamente, certo, ma di solito molto rapidamente.
Nel 1928 Giuseppe Del Vecchio pubblicò un libro intitolato “Morte benefica” nel quale si schierava in favore della liceità degli interventi di eutanasia, ma nella prefazione Tullio Murri si chiedeva se valesse effettivamente la pena introdurre nell’ordinamento giuridico una norma tanto discutibile e controversa per evitare ai moribondi una sofferenza di poche ore o di pochissimi giorni. E’ però vero che nel 1903 moltissimi medici americani, riuniti in un congresso di oncologia, avevano chiesto l’eutanasia attiva per i malati di cancro terminali. L’etica medica si è formata in un’epoca nella quale il medico poteva far ben poco per i suoi pazienti, ma sapeva che quel poco andava fatto, a tutti i costi. Molte delle resistenze dei medici nei confronti delle varie forme di eutanasia si rifanno al vitalismo medico, che aveva assunto una importante valenza morale a partire dal 700. La medicina galenica aveva incorporato le teorie di Aristotele e concepiva la vita come una delle potenze o facoltà dell’anima. La filosofia e la medicina medievali conservarono l’identificazione tra anima e vita, ma la complicarono aggiungendo astruserie astrologiche e magiche soprattutto ad opera di Paracelso, di G.B. van Helmont e di R. Fludd.; la separazione tra processi vitali e quelli psichici e la possibilità di ridurre i primi a fenomeni fisico-meccanici fu più tardi sostenuta da R. Descartes, autore di una teoria alternativa al vitalismo, il meccanicismo. Seguirono alcuni tentativi di riproporre lo psicovitalismo aristotelico soprattutto ad opera di di R. Cudworth e G.E. Stahl e tra la prima e la seconda metà del 18° secolo ci fu una vera e propria rinascita del vitalismo, che prese però un indirizzo antimetafisico. P.-J. Barthez, considerato il fondatore di questa specifica teoria immaginò , per spiegare i fenomeni vitali, l’esistenza di un «principio vitale» diverso dall’anima e di natura molto simile a quella del principio di attrazione, mentre T. de Bordeu, M. de Chambaud, L. Fouquet e L. Lacaze considerarono la proprietà della sensibilità scoperta da A. von Haller fosse specifica di una particolare ‘materia vivente’ responsabile dei fenomeni vitali e posero le basi del vitalismo materialistico che escludeva la teleologia e attribuiva la dinamica del vivente all’azione di una materia specifica caratterizzata da una proprietà non-cartesiana (la sensibilità o irritabilità). Un’ultima e espressione di questa è rappresentata dal vitalismo meccanico enunciato da R. Virchow , una ipotesi che fu immediatamente bocciata come arbitraria e non ebbe sostenitori. Nella metà del secolo scorso il vitalismo era divenuto il paradigma guida di gran parte dei medici italiani, impegnati nella conservazione del flusso vitale, della vita che attraversa il paziente. L’acerrima nemica era dunque la morte, la vita era considerata in senso astratto, indipendentemente dalla peculiarità delle sue manifestazioni. Il vitalismo non aveva in cura le persone, ma la vita in sé. Questa filosofia non ha più giustificazioni, la medicina non è più impotente, eppure qualcosa dell’antico vitalismo medico si respira ancora nell’aria degli ospedali. E’ molto probabile che l’inconsapevole tendenza ad accanirsi con cure inutili sui propri pazienti che si manifesta ancora in un gran numero di medici debba essere considerata un reliquato di questo vitalismo.

Nel 1595, Un teologo di nome Domingo Bañez introdusse una distinzione tra mezzi di cura ordinari e mezzi di cura straordinari, distinzione basata sulla sofferenza: la gangrena di un arto doveva essere trattata con l’amputazione, eseguita in assenza di anestesia e di antidolorifici e con minime probabilità di sopravvivenza, un trattamento certamente straordinario che il buon senso induceva a evitare. Questa distinzione è stata sostituita da quella più moderna tra mezzi proporzionati e mezzi sproporzionati, recepita nel 1980 nella dichiarazione sull’eutanasia della Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede. Ciò non ha però cancellato l’accanimento terapeutico, ed esistono, come vedremo, teorie morali che sostengono che trattamenti come l’alimentazione e l’idratazione artificiale sono sempre dovuti e quindi obbligatori. La Dichiarazione li definisce “cure normali” anche se poi nella Carta per operatori sanitari (che è del 1994) si aggiunge “quando non divengano gravosi per il malato. E a questo proposito ill catechismo della Chiesa cattolica recita:

« L’interruzione di procedure mediche onerose, pericolose, straordinarie o sproporzionate

rispetto ai risultati attesi può essere legittima. In tal caso si ha la rinuncia all’ «accanimento

terapeutico». Non si vuole così procurare la morte: si accetta di non poterla impedire.

Le decisioni devono essere prese dal paziente, se ne ha la competenza e la capacità,

o, altrimenti, da coloro che ne hanno legalmente il diritto, rispettando sempre

la ragionevole volontà e gli interessi legittimi del paziente. »

Questo, il problema delle cure somministrate senza uno scopo comprensibile e spesso rifiutate da chi è costretto a subirle, è oggi uno dei nodi fondamentali del conflitto tra laici e cattolici in materia di assistenza medica. Personalmente, sono del tutto d’accordo con quanto afferma Carlo Alberto Defanti, secondo il quale il cosiddetto “accanimento terapeutico” – formula efficace sul piano della comunicazione – è molto difficile da comprendere sul piano dei contenuti, cosa che consente a tutti, laici e cattolici, adoratori della sacralità della vita e sostenitori dell’importanza della sua qualità, di dichiararsi contrari. In realtà è sempre necessario chiederci preliminarmente qual è il fine reale delle cure e dei trattamenti: se il fine è il prolungamento della vita ad ogni costo, non esistono accanimenti terapeutici, ogni cura è adeguata. E’ chiaro che se siamo in grado di intendere e di volere , l’articolo 32 della Costituzione ci consente di rifiutare qualsiasi tipo di trattamento sanitario, indipendentemente dalla sua utilità. Se, prima di entrare in una condizione di coma, abbiamo lasciato detto, anche in modo estremamente chiaro, di non voler essere sottoposti ad alcuna cura, siamo invece esposti al rischio di interventi del legislatore che potrebbero modificare l’opinione corrente, pur approvata dagli esperti, su cosa è cura e cosa invece cura non è.

Oggi, nei paesi occidentali, oltre l’80% delle morti si verifica in Ospedale e le condizioni del morire sono cambiate in modo straordinario rispetto al passato. Essendo in grado di sostituire le funzioni di organi essenziali per la sopravvivenza del corpo- per quella della persona il problema è diverso – la medicina moderna si è messa in grado di controllare tempi e circostanze del morire. Le cose sono dunque cambiate. In meglio?

Certamente oggi possiamo fare molto per prolungare la vita di una persona, anche si tratta di una vita che non promette più niente e che, secondo quella specifica persona, non vale la pena di essere vissuta. La medicina deve affrontare, però, nuovi problemi, alcuni dei quali sono persino difficili da definire. Ci si chiede soprattutto: è possibile governare l’enorme potere che la medicina certamente possiede e che si manifesta nei suoi interventi sul processo del morire al solo scopo di evitare che questo potere privi il paziente del suo diritto di morire con dignità?

Le risposte sono molte, non tutte in grado di raccogliere consensi. C’è chi ritiene che sia arrivato il momento di rinunciare alla tecnologia, che è poi all’origine del problema. C’è chi si limita a chiedere regole per fermarla là dove cessa la possibilità di assicurare al paziente una condizione di vita decorosa e compatibile con lo stato della malattia, cioè nel momento in cui sta per trasformarsi in un inutile accanimento sul corpo e sulla persona del paziente. Ma se poniamo dei limiti è necessario stabilire regole che impediscano di superarli. Quali? Tutti concordano nel considerare invalicabile il limite dell’accanimento terapeutico, ma, come abbiamo visto, i criteri per definirlo non sono condivisi, e questo sarà il tema dominante nella prossima discussione parlamentare sul testamento biologico.

I giuristi pongono naturalmente molta attenzione al tipo di eutanasia al quale si fa ricorso, altro è parlare di una eutanasia attiva, altro è ragionare di una eutanasia passiva, cioè della sospensione di un trattamento che mantiene in vita un malato: in questo ultimo caso si tratta di un atto omissivo, la causa della morte di quel soggetto sarà la malattia, non la condotta del medico o dell’amico. Ma anche nel caso di eutanasia passiva bisogna saper distinguere gli eventi nei quali è stato comunque necessario un intervento – staccare una spina, togliere una fleboclisi – da quelli nei quali si è più semplicemente deciso di interrompere le cure prestate fino a quel momento, e bisogna distinguere tra i casi in cui la decisione è stata tutta del medico e quelli in cui è il paziente a richiedere la sospensione del trattamento. Non c’è bisogno che ricordi che nel nostro Paese l’eutanasia è vietata e configura il reato di omicidio, ma che alla faccia di tutte le leggi moltissimi medici sono disponibili a eseguire interventi di eutanasia indiretta, somministrando quantità di farmaci – usualmente antidolorifici – così elevate da avere come effetto secondario quello di anticipare la morte.

Esiste su questi temi un conflitto aperto e i valori che si confrontano sono sin troppo evidentemente inconciliabili: il valore della vita umana, nell’accezione nella quale essa risulta indisponibile anche al suo titolare, e il valore dell’autonomia della persona, cui sono legati la libertà di poter autonomamente disporre del proprio corpo e il diritto di governarsi da sé nella sfera delle scelte personali. Entrambi i valori sono stati eretti a principi morali definiti, in questo contesto, come ” criteri di giustificazione delle credenze morali” . Ogni principio consiste in una affermazione generale su ciò che ha valore e su ciò che si deve fare e può scaturire da una teoria morale di riferimento, nel senso di rappresentare i cardini in base ai quali una certa teoria morale viene costruita, oppure riassumere una gamma di principi o di preoccupazioni morali, oppure ancora indicare radici differenti per la giustificazione delle preoccupazioni morali nel campo dell’assistenza sanitaria.

Secondo il principio della inviolabilità della vita, il valore della vita umana è assoluto e speciale in sé, indipendentemente dalla sua qualità e dalla possibilità di poterla apprezzare e senza dare alcun peso ai desideri delle persone viventi. La versione religiosa di questo principio pone la questione in termini di sacralità della vita, dal concepimento alla sua fine naturale (e qui cosa significhi naturale alla luce dei progressi della medicina è tutto da stabilire). La vita dell’uomo è sacra in quanto egli è stato fatto a immagine e somiglianza di Dio, quindi possiede una propria irriducibile dignità, che conferisce un senso intrinseco alla vita e le dona una specifica sacralità. Questa dignità diventa un carico da portare per sempre, un fardello da sommare alle piaghe da decubito, al vomito e alla diarrea indotti dalla chemioterapia, alla paralisi di un corpo ridotto a brandelli e di una mente devastata dal dolore, ai clisteri, ai sondini, ai cateteri, mi sembra che al confronto impallidisca l’immagine delle celle nelle quali i tedeschi torturavano i patrioti. Comunque alla percezione soggettiva che ognuno ha della sua dignità personale non viene dato alcun peso.

Per il Magistero cattolico la vita umana è inviolabile, Dio ne è l’unico signore, l’uomo non può disporne e tutto ciò è legato al principio dell’assoluto – i valori assoluti, i principi assoluti, i divieti assoluti – che non ammette eccezioni. In realtà se questi principi si svincolano dalla dimensione religiosa e vengono considerati solo nella loro dimensione razionale diventano molto incerti e, diciamolo, poco credibili. Solo i dogmi fideistici rendono accettabile questa visione del mondo: verrebbe da dire, ascoltando il buon senso, che la sacralità della vita dovrebbe essere interpretata come protezione della vita in senso biografico e non come tutela della sopravvivenza biologica. Per molti di noi, essere vivi ha importanza solo se costituisce la possibilità di avere una vita, in assenza di una vita cosciente è indifferente vivere o morire.

Al polo opposto, il principio morale di riferimento è quello di autonomia o di autodeterminazione del paziente, la capacità di scegliere razionalmente la propria condotta, di imporre un certo corso alle proprie azioni e ai propri desideri, dei propri sentimenti e delle proprie inclinazioni, attraverso un volere capace di indirizzarli alla luce di una visione ideale di sé, alla ricerca di quella particolare identità che ognuno di noi desidera realizzare.

Nel Manifesto di bioetica laica, alla cui stesura ho collaborato più di dieci anni or sono insieme a Massarenti, Mori e Petroni, si può leggere: ” ogni individuo ha pari dignità e non debbono esistere autorità superiori che possano arrogarsi il diritto di scegliere per lui nelle questioni che riguardano la sua salute e la sua vita” . Dunque l’autonomia è il punto centrale della riflessione bioetica sull’uomo, il principio che ispira e legittima il consenso informato: è da questo principio che nasce la richiesta ai medici di considerare sempre prioritarie le richieste dei loro malati, è questo principio che deve essere considerato guida e cardine della riflessione bioetica sull’uomo, anche perché è quello che ispira e legittima il consenso informato

Ha scritto Giovanni Boniolo che è necessario distinguere vita da esistenza e inizio e fine della vita da inizio e fine dell’esistenza. Cambiano evidentemente i livelli di analisi: descrittivo quello che riguarda la vita, assiologico quello che concerne l’esistenza.

Il quesito fondamentale, la domanda che prima o poi tutti gli uomini si pongono, è a chi appartiene la vita e a chi appartiene l’esistenza. Se si tiene conto del diverso significato dei due termini, la vita non è di nessuno: stabilire a chi appartenga l’esistenza dipende dal punto di vista da cui le si attribuisce valore. Ci sono vite cui non attribuiamo il valore di esistenza e non ci interessa il loro destino. Ci sono vite alle quali attribuiamo valore ed è a seconda della quantità di questo valore che ci preoccupiamo del loro destino..

Personalmente, da uomo laico, sono soprattutto interessato alla possibilità di essere libero di esistere, perché da questa discendono altre libertà, come quella di scegliere la mia morte, cioè la fine della mia esistenza, cioè ancora la fine della mia vita. Certamente questo non può essere casuale: il problema fondamentale nella vita di un uomo laico è comunque e sempre la libertà: in fondo la laicità rappresenta l’atteggiamento intellettuale di chi considera primaria la libertà di coscienza, intesa come libertà di credenza, conoscenza, critica e autocritica.

Dunque, il quesito fondamentale resta sempre lo stesso: a chi appartiene la nostra esistenza, domanda certamente non oziosa, che chiama subito in causa il problema della religione, un problema destinato inevitabilmente a dividerci. Se l’esistenza è nostra, se è nostra la nostra vita, abbiamo il diritto di farne ciò che vogliamo, indipendentemente da quanto pensano gli altri e nei limiti che ci sono imposti dal fatto di vivere in una comunità e di aver potuto contrarre debiti con gli altri . Se non siamo nelle condizioni di decidere, possiamo immaginare che esistano persone che possono parlare in nostro nome e comunque, al di sopra di tutto, esistono le leggi che ci siamo dati che hanno il diritto e il dovere di intervenire per far si che le decisioni vengano prese in accordo con quanto ha stabilito la maggioranza dei cittadini. Se l’esistenza non è nostra, se ci è stata donata, se dobbiamo comunque risponderne a qualcuno, allora le regole alle quali siamo tenuti ad attenerci sono evidentemente diverse. Siamo di nuovo di fronte a definizioni differenti: la morte è la fine della vita o è invece in modo più complesso un passaggio? Da questo primo quesito ne discende immediatamente un secondo: quale è la cosa più importante della nostra esistenza, quella alla quale attribuiamo il maggior valore? E’ la vita in sé, perché sacra e inviolabile e dobbiamo perciò rispettarla e accettarla comunque sia, qualsiasi cosa ci faccia, senza neppure poterla ritenere responsabile delle nostre sofferenze? O possiamo apprezzarla diversamente, valutandola e giudicandola proprio in rapporto a quanto ci concede? E cosa ci aspettiamo da lei per poterle assegnare un valore? Dignità? Qualità? E’ una scelta difficile, che in alcune circostanze può divenire drammatica. La vita di un bambino nato con una malattia che altro non gli concede e altro non gli concederà se non sofferenza , vale la pena di essere vissuta? Nelle stesse condizioni, la mia vita, alla quale la malattia può aver tolto tutta la dignità di cui disponeva, vale la pena di essere continuata? E questo merita una doppia precisazione: la prima che la misura della dignità compatibile con l’esistenza è assolutamente soggettiva; la seconda che è molto più difficile intervenire sulla perdita di dignità che su quella del benessere fisico.

Vorrei anzitutto ricordare a tutti che il concetto di dignità, quello che ognuno di noi intende per dignità, è assolutamente personale, non ci può essere insegnato dagli altri.

L’origine della parola è oscura, ricalca tra l’altro la parola greca “assioma”, che aveva un duplice significato. In modo molto generico indica una condizione di nobiltà morale nella quale l’uomo si trova soprattutto in ragione della sua stessa natura umana e insieme fa riferimento al rispetto che per tale condizione gli è dovuto dagli altri e che egli deve a se stesso. Ma si può pensare alla dignità anche come una sorta di cenestesi dello spirito, ci rendiamo conto di averne una e riusciamo finalmente a valutarne l’importanza nel momento in cui viene ferita o minacciata. Che cosa poi ciascuno di noi intenda per dignità del morire dipende grandemente da come abbiamo interpretato e realizzato la dignità della nostra esistenza. Immaginate un uomo che per tutta la sua vita si è adoperato perché ai suoi cari giungesse una certa immagine di sé, e che questa immagine abbia cercato di rivestirla sempre e soprattutto di dignità. Il pensiero di vedersela strappare di dosso, questa veste misericordiosa, nel momento della sua morte, l’idea di lasciare ai figli e alla moglie come ultima immagine quella di un uomo privo di un qualsiasi controllo sul proprio corpo, completamente affidato agli altri, soffocato dal proprio vomito, sepolto dalle proprie feci, annegato dalle proprie urine, può essere intollerabile proprio perché incompatibile con il suo senso della dignità. Voi, nel nome di un dio al quale probabilmente lui ha smesso di credere o nel quale non ha mai creduto, potrete proibirgli di andarsene in un modo più decoroso e rapido, ma non potrete impedirgli di maledirvi.

Una particolare attenzione deve poi essere riservata alle persone nelle quali la luce della intelligenza si è spenta completamente, o non c’è mai stata né ci sarà mai. Certamente c’è vita nei loro corpi: c’è vita nei loro polmoni, che respirano regolarmente, nel loro cuore che batte, nel loro intestino che provvede alle naturali funzioni dell’organismo. Ma se guardate bene, si tratta di un corpo disabitato, che non contiene più (o non ha mai contenuto né mai conterrà) neppure un barlume di capacità razionale, non un ricordo, non un pensiero, non un sentimento. C’è vita, ma non c’è una esistenza e così quel corpo è privo di valore, o se volete ha lo stesso valore di una fotografia o di una statua, simboli, stimoli per ricordare.

Provate a dare una vostra definizione di morte: con molte probabilità finirete col riferirvi alla vita e alla sua fine, una definizione, tutto sommato, in negativo. Avrete così seguito la strada percorsa da quasi tutti gli estensori della definizione di morte, nei vari dizionari e in molti documenti più o meno ufficiali : “cessazione delle funzioni vitali e in particolare di quelle respiratoria, circolatoria e nervosa” (Enciclopedia della Medicina edita da De Agostini); “cessazione delle funzioni vitali nell’uomo, negli animali e in ogni altro organismo vivente, o elemento costitutivo di esso” (Il vocabolario Treccani); “fine della vita” (Oxford Dictionary); “cessazione della vita” (Zingarelli); “perdita totale e irreversibile della capacità dell’organismo di mantenere autonomamente la propria unità funzionale” (Comitato Nazionale per la Bioetica). Come tutti, avrete anche voi cercato di evitare un problema (definire la morte) chiamandone in causa un secondo ancor più complesso (definire la vita). E, sempre come tutti, avrete accuratamente evitato di affrontare il problema che più di ogni altro preoccupa gli uomini: esiste un momento in cui la morte e la vita sono contemporaneamente presenti nello stesso individuo? Magari in una delle tante fasi nelle quali viene (forse arbitrariamente) suddiviso il coma?

In realtà la vita è un processo biologico straordinariamente diffuso, che riguarda miliardi di esseri ai quali generalmente non attribuiamo ( spesso a torto) la minima importanza: ciò che dovremmo invece considerare con grande attenzione è la nostra esistenza, la nostra breve esistenza di esseri umani e di persone.

Ahimè, un altro intoppo. Il concetto di persona, che ha origini teatrali e giuridiche, si è profondamene modificato nel tempo fino ad assumere il significato di “individuo appartenente alla specie umana”. Poiché alla persona è attribuita la responsabilità delle azioni che commette, essa dovrebbe costituire una unità profondamente integrata di pensiero e di azione, di capacità di scelta e di concreta attuazione. In realtà, non è proprio così: se questa definizione venisse accettata, non so cosa potrebbe accadere a tutti gli irresponsabili che ci circondano, privati dello statuto di persona, qualcosa di molto simile a una ecatombe. Esiste comunque una concezione classica di persona, che la definisce come sostanza, e una concezione moderna, che la ritiene definita da proprietà e da funzioni, come la capacità di riflessione e di autocoscienza: in questo ultimo caso un individuo decerebrato e un feto anencefalo non sarebbero più – o non sarebbero mai stati – persone. La questione è ancor più complicata, ma sarebbe troppo lungo affrontarla qui. affrontarla qui.

Non è a caso che insisto a parlare di definizioni, perché tutto il dibattito sulla natura della morte e sul modo di comprenderla e registrarla si è svolto a suon di definizioni. Aristotele diceva che la morte equivale alla perdita definitiva delle capacità di nutrirsi e di riprodursi, definizione molto discutibile che mette in crisi, solo per fare un esempio, gli individui sterili. Sono state in seguito proposte, criticate e molte volte modificate espressioni come:

– il signor Rossi muore alle 8 del mattino se alle 8 del mattino cessa di vivere;

– il signor Rossi muore alle otto del mattino se alle 8 del mattino cessa permanentemente di vivere;

– il signor Rossi muore alle 8 del mattino: se cessa di vivere a quell’ora o prima di quell’ora e se dopo le 8 del mattino è impossibile farlo rivivere;

– il signor Rossi muore alle 8 del mattino se in quel momento cessa permanentemente di vivere senza andare incontro a una situazione di animazione sospesa.

Come potete ben capire, le continue modificazioni riguardanti la definizione dell’ “evento morte” sono dovute alla inadeguatezza della medicina e ai suoi troppo lenti progressi. In ogni caso, nelle intenzioni dei medici ci sono sempre state due cose da considerare: l’irreversibilità del processo; la perdita delle funzioni cerebrali. Anche quando si ricorreva a valutazioni relative all’arresto delle funzione cardiaca, in effetti, è al cervello che si pensava, sapendo che poco dopo l’arresto del cuore, il cervello perde in modo irreversibile le sue funzioni.

Si possono dunque individuare differenti livelli del “fenomeno morte”: quello cellulare ( definito come necrosi e apoptosi); quello degli organi; quello dell’organismo. Ma il nostro problema, quello che in un modo o nell’altro ci tormenta tutti, è il livello della morte dell’uomo, della morte della persona. Tutta la discussione attuale verte su questo punto: definire in modo più specifico il concetto di morte dell’uomo e stabilire se il concetto di morte cerebrale – elaborato e proposto solo per noi – sia attualmente difendibile.

Quando analizziamo la parola “cervello” è molto difficile che ci vengano in mente i molti miliardi di sinapsi, o le complesse e straordinariamente sofisticate correlazioni tra gli elementi nervosi. Ci vengono invece in mente il pensiero, la riflessione, la costruzione delle idee, la coscienza, la memoria. Ritengo che sia sentire comune che tutte queste cose – queste attività, queste capacità – ci rappresentino più di ogni altra cosa, al punto di renderci consapevoli che senza di loro non esisteremmo. Pensiero, coscienza, memoria, capacità di riflessione, fanno di un certo individuo, nel bene e nel male, il signor Rossi. Se queste capacità e queste funzioni vanno definitivamente e irreversibilmente perdute, con loro se ne va anche il signor Rossi. Se il signor Rossi si ammala gravemente e poi entra in coma, dovrete accertare non solo se il suo corpo è ancora vivo, ma anche se in quel corpo c’è ancora il signor Rossi. Ebbene, anche se avrete appurato che quel corpo è ancora vivo, se scoprirete che in quel corpo il signor Rossi non c’è più, dovrete accettare il fatto che quel corpo è ormai inutile e vuoto, che è sopraggiunta la morte: insomma, potete staccare la spina. E tutto quello che ho scritto a proposito di persone che hanno avuto una esistenza normale – sono state in grado di ricordare il passato, di immaginare il futuro, di fabbricarsi ricordi, di amare, piangere, gioire e soffrire, rapportarsi con gli altri e provare emozioni – vale anche per un bambino che tutto ciò non lo conoscerà mai perché così ha voluto la natura o il destino. Sono corpi disabitati, proteggerli significa attribuire valore a un intestino che si muove, o a una barba che cresce, è superstizione. E così penso di essere arrivato alla fine del mio ragionamento: penso di poter affermare che nasce senza alcuna possibilità di acquistare capacità razionali, non potrà in alcun caso essere considerato una persona. Non vogliamo definirlo una cosa, ci par brutto e offensivo dargli un nome che appare come derogatorio? Lo accetto solo per cortesia, perché non mi piacciono i conflitti inutili, così come accetto molte cose che mi vengono imposte da quella sorta di “associazione a sdilinquire” che i partigiani della “vita eterna” sembrano prediligere. Questo dovrebbe risolvere anche il problema della sopravvivenza di quei corpi disabitati, qualora anche la loro vita biologica sia a rischio: “non esistono altre soluzioni possibili oltre a quella di “lasciarli andare”.

A questo punto i giochi sembrano fatti, e in modo relativamente semplice, ma in realtà non è così. Dobbiamo purtroppo chiederci fino a qual punto la medicina moderna è in grado di stabilire – con assoluta certezza – che in quel corpo il signor Rossi proprio non c’è più. Certezza assoluta – il corsivo non è casuale – che significa in questo caso la differenza tra un atto pietoso e un omicidio. Dobbiamo anche chiederci (molti lo stanno già facendo) se il grande bisogno di organi da trapiantare non rappresenti uno stimolo per diagnosi un po’ troppo frettolose e per comportamenti – diciamo così – superficiali. In realtà dovrebbe essere relativamente semplice preparare norme molto severe che possano garantire tutti : la persona che non è più in quel corpo ( on non c’è mai stata, le due cose sono del tutto identiche)e sul cui cadavere è inutile e stupido accanirsi; la persona che è ancora in quel corpo e che dovremmo cercare di far riemergere dal buio di uno stato comatoso reversibile. Possiamo dunque stabilire, a questo punto, che la morte cerebrale è stata accettata come criterio di morte in modo “sorprendentemente pacifico” (Peter Singer) perché è stata presentata come la concezione scientificamente migliore della natura della morte. Il problema è stato dunque considerato di pertinenza della scienza medica e gli è stato negato lo statuto di questione morale.

Insomma, al momento abbiamo due posizioni che si contrappongono e non sembra proprio che tra di loro ci sia anche la più piccola probabilità di trovare una mediazione. I cattolici sostengono la posizione dell’accompagnamento dei morenti e sollecitano l’impiego delle cure palliative; per loro l’ipotesi dell’eutanasia è del tutto ripugnante ed è comunque alternativa alla cosiddetta scelta ottimale, sulla quale sarebbe pura follia esprimere anche minimi dubbi. Per gli altri, per coloro che sostengono l’etica della qualità della vita, cure palliative e morte volontaria sono invece complementari: dapprima si interviene con terapie che consentono la soppressione del dolore , ma dove ciò non fosse sufficiente a evitare la cosiddetta condizione infernale, allora deve inevitabilmente farsi strada l’ipotesi della morte volontaria, ultima possibilità utile per garantire la “buona morte”. Il fatto che tale possibilità possa essere utilizzata dipende poi da fatti empirici, variabili indipendenti, come il tipo di patologia in atto e il carattere delle persone in causa. In realtà, la posizione che propone l’accompagnamento del morente rifiuta il vitalismo solo sul piano assiologico , ma non ne trae le debite conseguenze sul piano deontologico e sopravvaluta la distinzione tra fare e lasciare accadere al punto di credere che la nostra responsabilità morale sia limitata alla sola azione dell’uomo (il fare, cui consegue un certo effetto) e non si estenda anche all’azione della natura (il lasciare che la natura faccia il suo corso causando l’effetto). La differenza tra uccidere e lasciar morire, lo sappiamo bene, è sempre più sfumata. Allora, proviamo a immaginare come si dovrebbero comportare a di fronte a questi problemi ( per i quali è evidente che non si possono trovare mediazioni) ammesso che li consideriamo tutti ospiti di una di quelle isole per stranieri morali che ci vengono descritte come un possibili luogo di connivenza basata sul rispetto reciproco e sulla tolleranza. La mia personale opinione è che tutti, proprio tutti, dovrebbero considerare come prioritario il rispetto delle leggi, che – anche questo è un punto di tutto rilievo – dovrebbero essere state scritte tenendo coto di alcuni principi e più esattamente: del pragmatismo indispensabile a un paese che deve evitare comunque sprechi economici; della convinzione che su questi temi nessuno è proprietario della verità; che nei limiti del possibile dovrebbe essere la scienza a stabilire alcune (poche) certezze ( sapendo che in realtà non si tratta mai di certezze assolute ma soltanto di consensi); che nella società degli uomini solo la compassione reciproca evita i conflitti.

Dò per scontata la necessità che nelle relazioni tra stranieri morali debbono essere osservati precisi modelli di comportamento basati sul rispetto della dignità, sulla necessità di smussare gli spigoli più fastidiosi, di tener conto della opportunità di stabilire regole di educazione e di civismo, e lo faccio anche perché mi sembrerebbe offensivo dubitare che il mondo cattolico sia propenso a non considerare queste indispensabili attenzioni. Ho passato molto tempo sui libri di teologia e mi sono convinto che la religione cattolica si è imposta alla attenzione degli uomini soprattutto perché immagina e propone una società basata sull’amore. Così, leggendo alcuni messaggi che importanti esponenti del mondo cattolico hanno inviato, in occasione degli eventi relativi al caso del bambino inglese che ha tanto turbato una parte del mondo ( e non solo del mondo cattolico) , sono rimasto realmente sbalordito. Riporto, al termine di questo scritto, alcune delle cattiverie scritte da un membro del CNB, la dottoressa Morresi, che scondol parere di alcune persone che stimo e che considero ottimi esempi di moderazione di buonsenso dovrebbero essere sottoposte al giudizio della Chiesa cattolica, che, almeno in questo momento, del fanatismo sembra avere orrore. Non do altri giudizi, non faccio altri commenti. Mi limito a riportare alcuni scritti di bioeticisti e di medici laici e soprattutto mi piacerebbe ricevere commenti su questi documenti (così particolari che sembrano copiati dal Don Basilio) da parte dei miei lettori.

https://twitter.com/assmorresi

Assuntina Morresi ‏ @AssMorresi

Le autorità inglesi dicono che controllano i social. Allora leggano quello che pensiamo: vergognatevi di essere inglesi! shameonyouBrits evilUK saveAlfie

12:05 – 25 apr 2018

http://stranocristiano.it/content/vergognatevi-di-essere-inglesi

vergognatevi di essere inglesi

26 Aprile 2018

Respinto anche l’ultimo ricorso. Qua il punto della situazione .

Una domanda. Se per i medici il fatto che Alfie abbia continuato a respirare a lungo da solo non è una sorpresa (questa se la sono inventata adesso), vuol dire che hanno deciso di interrompere tutti i trattamenti a prescindere, sia che muoia subito, sia che non muoia subito.

Allora: che bisogno c’è di restare in ospedale se hanno semplicemente deciso di non trattarlo e basta, anche se continua a vivere? Che senso ha obbligare a restare in un ospedale che ha deciso di non farti niente, qualsiasi cosa succeda?
Come se io andassi in ospedale perché sto malissimo, e mi dicessero: guarda, per te non c’è più niente da fare, noi non possiamo e non vogliamo fare più niente per te, però adesso che sei qui non puoi più andartene perché in altri ospedali magari ti fanno qualcosa! (E nel frattempo, per sicurezza, non ti diamo neanche da mangiare né da bere).

Ma che senso ha?

E visto che hanno avvertito che loro i social li leggono – e io ci conto – ne approfitto e chiedo loro direttamente: ma perché non dite chiaramente che quelli come Alfie devono morire, punto e basta? [since they [British autholities] said that social media are read, I ask them directly: why don’t you clearly say that those like Alfie have to die?: rough translation]

E, per finire: le autorità inglesi dicono che controllano i social. Allora leggano quello che pensiamo: vergognatevi di essere inglesi! [and to conclude: British authorities say that they control the social. Then they can read what we think: shame on you to be English!]

#shameonyouBrits 
#evilUK 
#saveAlfie

https://www.avvenire.it/famiglia-e-vita/pagine/alfie-genitori-annunciano-nuovo-ricorso-per-portarlo-in-italia

Liverpool. Respinto l’ultimo ricorso per Alfie. Il padre: «Continua a lottare»


mercoledì 25 aprile 2018

I giudici: sta morendo, non può muoversi. Ancora un «no» al trasferimento in Italia del piccolo, che dopo 36 ore è tornato a ricevere nutrimento assistito.

Ansa

Un muro di gomma. I genitori non hanno il diritto di portare Alfie in Italia per tentare nuove strade terapeutiche. La Corte d’Appello di Londra ha rigettato anche l’ultimo ricorso dei genitori del piccolo contro il rifiuto di autorizzare il trasferimento del bambino da Liverpool a un ospedale italiano. Respinta sia l’argomentazione dell’avvocato di papà Tom Evans, che contestava un giudizio precedente errato, sia quello del legale di mamma Kate, che puntava sulla sopravvivenza inaspettata del bambino nonché sulla cittadinanza italiana concessa ad Alfie per invocare la libertà di circolazione interna all’Ue, di cui il Regno Unito fa ancora parte.

Il padre di Alfie Thomas (Ansa)

È una disperata corsa contro il tempo quella che stanno vivendo i genitori del piccolo Alfie. Staccato ormai da lunedì dal respiratore artificiale, aiutato a respirare con mascherine per l’ossigeno, il piccolo di 23 mesi affetto da una grave malattia degenerativa «continua a lottare senza sofferenza o segno di dolore”, ha scritto su Facebook nel pomeriggio il giovanissimo padre, Tom Evans.

Non ha dato risultati quindi la battaglia legale che oppone la famiglia all’ospedale di Liverpool, che sulla base di numerose sentenze ha deciso di lasciarlo morire. I genitori hanno perso anche il ricorso in appello contro la decisione di ieri del giudice dell’Alta corte britannica Anthony Hayden di dire ‘no’ al trasferimento del piccolo da Liverpool a un ospedale italiano.

In aula c’era anche un rappresentante dell’ambasciata italiana, hanno fatto sapere gli avvocati. Il team legale dei Kate Evans ha fatto presente che il bimbo ha bisogno di “un intervento immediato”. L’avvocato del padre, Paul Diamond ha aggiunto che un aereo ambulanza è pronto, in attesa di portare in Italia il piccolo. Diamond ha insistito sul fatto che Alfie “non può restare prigioniero” dell’ospedale di Liverpool e bloccato da un verdetto emesso originariamente “tre mesi fa” (quello del via libera a staccare la spina): visto che la situazione mutata per l’inattesa resistenza del bambino dopo il distacco dal ventilatore. “Per lui c’è una fantastica alternativa di assistenza disponibile” in Italia, ha proseguito il legale ipotizzando che malgrado tutto il piccolo “possa avere qualche gioia di vivere”. Un’ipotesi non da escludere perché “va oltre la nostra conoscenza”, ha concluso.

Parole subito contestate dall’unica giudice donna del collegio a tre – lady King – secondo cui “l’evidenza che abbiamo è un’altra: che probabilmente non soffre, ma che tragicamente tutto ciò che potrebbe dargli un apprezzamento della vita, anche una carezza di sua madre, è irrevocabilmente distrutto”.

E durante l’udienza si è saputo che Tom Evans ha minacciato di far causa a tre medici dell’Alder Hey Hosipital di Liverpool per cospirazione finalizzata all’omicidio del figlio Alfie. “Fategli la grazia, riconoscetegli la dignità di tornare a casa o andare in Italia”, il suo grido di dolore, prima dell’udienza

Interrogazione al Parlamento Ue

Per il bambino si sono mobilitate anche le eurodeputate del Partito Democratico e del gruppo S&D Silvia Costa e Patrizia Toia, che hanno presentato un’interrogazione urgente ai commissari Ue responsabili della Salute, Vytenis Andriukaitis, e della Giustizia, Vera Jourová, per chiedere un’azione decisa da parte dell’Unione europea sul caso del piccolo Alfie.

Una maschera ad ossigeno

Al momento Alfie viene ventilato con una maschera ad ossigeno NHS, ovvero autorizzata dal sistema nazionale sanitario inglese e quindi completamente a norma di legge. La mascherina è stata fornita privatamente ai genitori da medici esterni all’Alder Hey in quanto l’ospedale non vuole fornirla per evidenti motivi. L’Alder Hey ha manifestato l’intenzione di volerla togliere in quanto non è un ausilio appartenente all’ospedale stesso ma non intende poi sostituirla dandone una identica.

Il nutrimento assistito

Vista la tempra del piccolo, ad Alfie questa mattina è stato ripristinato il nutrimento assistito, dopo esserne stato privato per 36 lunghissime ore ed essere entrato nel secondo giorno di vita dopo il distacco della ventilazione meccanica, avvenuto lunedì. Lo ha detto papà Tom. “Alfie – ha aggiunto – resiste ancora bene come può. Sta lottando e continua a non soffrire, non ha apnee né dà segno di provare dolore”.

I genitori non si rassegnano: Alfie “è stato tenuto senza nutrizione per ore. Come questo può essere umano? Dove è la sua dignità?”. È quanto ha scritto Thomas Evans in un post.

Leggi anche CHE NOTTE INFINITA di Marina Corradi

L’Italia è al fianco dei genitori di Alfie

Ieri il conferimento della cittadinanza italiana, le offerte degli ospedali Bambino Gesù e Gaslini, l’aereo pronto a Ciampino con i medici a bordo. I medici dell’Alder Hey Hospital di Liverpool, dov’è ricoverato Alfie, hanno riferito però che il piccolo non poteva essere trasferito nemmeno a casa prima di 3-5 giorni. Il giudice infatti ha dato il permesso a un eventuale trasferimento a casa, escludendo l’ipotesi di un viaggio verso Roma. E ieri il Consiglio dei ministri italiano ha deliberato il conferimento della cittadinanza italiana ad Alfie “in considerazione dell’eccezionale interesse per la comunità nazionale” ad assicurare al minore ulteriori sviluppi terapeutici, nella tutela di preminenti valori umanitari che, in questo caso, attengono alla salvaguardia della salute.

Ansa

«Anche se il piccolo Alfie continua a respirare autonomamente, ora l’emergenza è anche rappresentata dalla mancanza di nutrizione: senza alimentazione, infatti, la sopravvivenza può variare da poche ore a pochi giorni a seconda delle condizioni di partenza del paziente”. A sottolinearlo è il direttore scientifico dell’ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma, Bruno Dallapiccola.

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https://www.loccidentale.it/articoli/146638/i-genitori-di-alfie-si-ribellano-e-il-sistema-eutanasico-inglese-entra-in-crisi

I genitori di Alfie si ribellano e il sistema eutanasico inglese entra in crisi

Assuntina Morresi

13 Apr 2018

Non sappiamo se Thomas e Kate riusciranno a portare via il loro figlioAlfie dall’ospedale pediatrico di Liverpool, l’ Alder Hey, dopo che i tribunali inglesi hanno stabilito debba essere staccato dal respiratore artificiale che gli consente di vivere. Staccato, perchè la vita di Alfie è “futile”, “inutile”, secondo il giudice dell’Alta Corte di LondraAnthony Paul Hayden, che ha scoperto così anche l’ultima ipocrisia del sistema britannico, quella che finora aveva almeno il pudore di definire “futili” i trattamenti che consentivano di continuare a vivere, e non la vita delle persone che quei trattamenti ricevevano.

Ma ormai il re è nudo: Charlie Gard lo scorso anno ha acceso i riflettori su quanto sta succedendo negli ospedali inglesi, e nei tribunali che li appoggiano, coinvolgendo emotivamente tutto il mondo nella battaglia dei suoi genitori per tentare di curarlo prima, e per poterlo accompagnare a morire poi. Una battaglia persa, ma sotto gli occhi di tutti. E fra le lacrime di tutti noi.

Charlie Gard è stato il “piccolo guerriero”, come lo chiamavano i suoi genitori, la sentinella che ha lanciato l’allarme e ci ha svegliati, mostrandoci che aggirando parlamenti e rappresentanza democratica – in quella che si vanta esserne la patria – l’eutanasia è entrata silenziosamente e violentemente nella cultura e nella prassi medica e giuridica del Regno Unito, attraverso protocolli cosiddetti terapeutici e sentenze di tribunali, in nome dell’autodeterminazione e del “best interests” delle persone.

Senza lo scossone e la profonda commozione suscitata dal piccolo Charlie oggi non avremmo assistito alla ribellione di Thomas e Kate, che hanno idealmente continuato la strada battuta dai Gard.
Quanto accaduto ieri è stato a tutti gli effetti un incredibile, liberatorio atto di insubordinazione al sistema. I genitori di Alfie hanno chiesto ai propri legali se era possibile portare via il loro piccolo dall’ospedale che stava per farlo morire. I legali hanno risposto di “Si”, mettendo per iscritto un parere che, evidentemente, non aveva tribunali che potessero farlo valere, visto che il contenzioso giuridico è terminato, anche a livello internazionale.

Una semplice opinione di uno studio legale, insomma, data a processo concluso, mentre era già stato approvato l’orario e il protocollo per il distacco del respiratore. Data, ora, luogo rigorosamente segreti, per il “rispetto della privacy” del piccolo, come ha precisato il premuroso giudice.

Ma quel parere è stato il pretesto per Thomas per fare la cosa più folle, coraggiosa, disperata e naturale del mondo: è andato in ospedale, con tanto di trolley, a riprendersi fisicamente il bambino a dispetto di medici e sentenze. E l’energia dei suoi 21 anni gli ha dato la forza necessaria per un atto che potrebbe costragli caro, in termini legali (e non solo a lui). Perchè Alfie è suo figlio, ed è normale che un padre e una madre possano scegliere ospedale e medico per il proprio figlio, soprattutto se chi lo dovrebbe curare lo vuole invece far morire perchè ne ritiene “futile” l’esistenza stessa.

Ma quel gesto, così “normale”, ha prodotto l’intervento delle forze dell’ordine e ha fatto scoppiare ieri un pazzesco putiferio, ancora una volta grazie ai social, con cui abbiamo potuto vedere esterrefatti, in diretta, i video girati dalla famiglia stessa e dai loro amici, con la polizia davanti alla porta della stanza di Alfie, in ospedale, per impedire ai genitori di uscire con il loro figlio. Abbiamo ascoltato in diretta gli appelli accorati di Thomas, abbiamo visto le strade bloccate dalla gente, fuori dall’ospedale, che protestava e manifestava urlando di liberare Alfie, e poi abbiamo saputo di un aereo pronto a partire, attrezzato per trasportare il piccolo lontano da lì. In Italia, probabilmente.

Se Charlie ha acceso i riflettori squarciando il velo sul sistema eutanasico (ma la legge britannica ancora proibisce l’eutanasia) messo in piedi nel Regno Unito, Alfie potrebbe far saltare proprio quel sistema: basta con i sequestri di Stato, basta con la morte di Stato!

E il surreale spiegamento di forze messo in campo dagli inglesi mostra quanto le autorità temano questo pericoloso precedente. Ma d’altra parte, quanto può durare la polizia a piantonare un bambino malato di due anni, in terapia intensiva, insieme al suo papà e alla sua mamma? E come pensano di staccare il ventilatore, oggi?

https://www.loccidentale.it/articoli/146666/alfie-e-stabile-ma-lo-vogliono-morto-intanto-si-tenta-il-ricorso-ad-un-giudice

Alfie è stabile ma lo vogliono morto. Intanto si tenta il ricorso ad un giudice italiano

| Mondo

25 Apr 2018

Alfie Evans deve restare in Inghilterra. Lo ha deciso in serata la Corte che ha così respinto anche il ricorso con cui i genitori Kate e Thomas chiedevano l’immediato trasferimento del piccolo all’ospedale Bambino Gesù di Roma.

All’udienza non erano presenti i genitori, che hanno preferito restare in ospedale accanto al figlioletto che, ormai, respira da solo, senza l’aiuto di alcun ventilatore meccanico, da 48 ore. In aula era invece presente un rappresentante dell’ambasciata italiana a Londra. Ai tre giudici della corte il team legale degli Evans ha fatto presente che il bimbo ha bisogno di “un intervento immediato” e “non di un miracolo, ma di una cura palliativa”. L’avvocato Paul Diamond, che difende gli interessi della coppia, ha inoltre più volte sottolineato che un aereo ambulanza era già pronto per portare in Italia il piccolo, “su richiesta del Papa”.

Le argomentazioni non hanno convinto i giudici, ed è toccato a uno di loro, Andrew McFarlane, sottolineare, da un lato, la “tenacia” del padre di Alfie e, dall’altro, annunciare la decisione finale: il bambino resta all’Alder Hey Hospital di Liverpool.

Alfie, intanto, lotta per restare in vita. Papà Thomas racconta che, da quando gli sono stati staccati i macchinari che lo aiutavano a respirare, il bimbo non è stato sottoposto ad alcun esame né ad alcuna visita. Ai medici non interessa, loro semplicemente “lo lasciano morire”. “E’ disgustoso come viene trattato – dice – anche un animale sarebbe stato trattato meglio”.

Il “piccolo guerriero” viene adesso sostenuto con latte, acqua e ossigeno: “Fa quel che può – spiega suo padre – ma la cosa importante è che non soffre né ha dolore”. Nessuno sa quanto potrà sopravvivere. Intanto Kate e Thomas si preparano ad affrontare un’altra lunga notte accanto al piccolo praticandogli la respirazione bocca a bocca ogni volta che le sue labbra diventano viola.

Ma nessuno si vuole arrendere: “Nonostante il netto ed evidente cambiamento delle circostanze, dopo che il piccolo Alfie Evans ha resistito senza ventilazione artificiale, senza nutrizione e ventilazione, nonostante sia stato fatto presente in un nuovo appello a nome della madre il suo diritto di circolazione come cittadino italiano, la Corte si ostina a voler continuare la procedura di soppressione del piccolo Alfie. Se la corte avesse deciso in favore della famiglia, Alfie questa sera stessa sarebbe stato in Italia” si legge nel comunicato diffuso da Steadfast Onlus dove si annuncia che è stato proposto ai genitori di Alfie “la possibilità di fare un ricorso urgente da presentare al giudice italiano“.

https://www.loccidentale.it/articoli/146670/papa-tom-a-papa-francesco-venga-qui-alfie-e-in-ostaggio-oggi-incontro-con-i-medici

#SaveAlfieEvans

Papà Tom a Papa Francesco: “Venga qui, Alfie è in ostaggio”. Oggi incontro con i medici

| Mondo

26 Apr 2018

“Chiedo al Papa di venire qui per rendersi conto di cosa sta accadendo. Venga a vedere come mio figlio è ostaggio di questo ospedale. E’ ingiusto quello che stiamo subendo. Grazie Italia. Vi amiamo”. Lo ha detto il papà di Alfie, Tom Evans, ai microfoni di Tv2000 sottolineando che “Alfie è una parte della famiglia italiana, è una parte dell’Italia. Noi apparteniamo all’Italia”.

I genitori del piccolo, dunque, non mollano: oggi incontreranno a breve i dottori dell’Alder Hey Hospital per discutere sulla possibilità di portarlo a casa, come si legge sulla ‘Bbc news’ on line. Ieri la Corte d’appello ha nuovamente rigettato la richiesta di Tom Evans e Kate James di trasportare il bambino in Italia, all’ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma.

Fuori dall’ospedale, a Liverpool, papà Tom ha dichiarato di non escludere ulteriori azioni legali, ma intanto “quello che faremo oggi è avere un incontro con i medici dell’Alder Hey per iniziare a chiedere di poter andare a casa. Alfie non ha più bisogno di cure intensive. E’ a letto con un litro di ossigeno che entra nei suoi polmoni. Alcuni dicono che è un miracolo, ma non è un miracolo, è una diagnosi errata. Tutto quello che chiedo ora è che questo incontro sia positivo e di avere Alfie, alle condizioni mie e dell’Alder Hey, a casa entro uno o due giorni”. Roger Kiska, un avvocato del Christian Legal Center che fa parte del team legale che supporta la famiglia di Alfie, ha dichiarato al programma ‘Today’ di Radio 4 che la battaglia legale non è finita e che “ci sono altre opzioni. Se l’incontro di oggi non andrà bene, torneremo in tribunale”.

Non solo. I genitori di Alfie avrebbero dato il loro consenso per attivare il giudice italiano. Inoltre il caso di Alfie sbarca anche al Parlamento Europeo. Con un´interrogazione urgente alla Commissione europea, le eurodeputate italiane del gruppo S&D Silvia Costa e Patrizia Toia si rivolgono ai responsabili della Salute, Vytenis Andriukaitis, e della Giustizia, Vĕra Jourová, chiedendo un’azione decisa da parte dell’Unione europea.

http://www.famigliacristiana.it/articolo/alfie-il-miracolo-della-vita-fino-all-ultimo-respiro.aspx

Alfie, il miracolo della vita fino all’ultimo respiro

26/04/2018 Gli hanno staccato il respiratore il 23 aprile alle 22.17, ma non è morto. La sua stupefacente vitalità ha costretto i giudici ad un’ulteriore udienza dove, ancora una volta, hanno impedito ai genitori di portare il figlio in Italia.

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Antonio Sanfrancesco antonio.sanfrancesco@stpauls.itAntonioSanfra

Alfie Evans deve morire. Non sono bastate le lotte dei genitori, indomiti e disperati. Non è bastata la mobilitazione internazionale di tanti cattolici e uomini di buona volontà. Non sono bastati la preghiera e gli appelli insistiti e via via sempre più drammatici di papa Francesco. Non è bastata la disponibilità offerta dall’ospedale pediatrico Bambino Gesù, di proprietà della Santa Sede, di accogliere il bimbo nella sua struttura. Non è bastata la decisione del governo italiano di concedere la cittadinanza italiana ad Alfie per rendere più agevole il suo trasferimento nel nostro Paese. Alfie doveva morire nell’arco di pochi minuti, una volta staccato il respiratore alle 22.17 di lunedì 23 aprile. Con i “conforti medici” del caso: «Posizionato con cura sui grembi di Mr Evans e Ms James, se lo desiderano. E dopo che la morte sarà stata confermata, la famiglia potrà lavarlo, vestirlo e passare del tempo con lui». Così c’era scritto nel “protocollo” per la morte di Alfie, notificato ai suoi genitori Tom e Kate dall’Alder Hey Children’s Hospital di Liverpool.

Ma Alfie non è morto, nei tempi e secondo le modalità preventivate dai medici. Per tutta la notte tra il 23 e il 24aprile i genitori hanno praticato la respirazione bocca a bocca al bimbo. E Alfie, anche senza il tubicino dell’ossigeno, ha continuato a respirare. Da solo, per ore e ore. Al punto che il giorno dopo i medici dell’ospedale, clamorosamente smentiti dai fatti, hanno dovuto ridargli ossigeno, acqua e cibo.

«Un miracolo della preghiera», lo ha definito monsignor Francesco Cavina, il vescovo di Carpi che il 18 aprile aveva accompagnato il padre di Alfie dal papa, per «un piccolo guerriero che vuole vivere». Lunedì, 23 aprile la presidente dell’ospedale Bambino Gesù, Mariella Enoc, si era recata di persona a Liverpool, mentre un aereo speciale era pronto a decollare da Roma con a bordo una équipe medica.

Lo stesso papa Francesco si era nuovamente espresso a sostegno di Alfie, con un tweet: «Rinnovo il mio appello perché venga ascoltata la sofferenza dei suoi genitori e venga esaudito il loro desiderio di tentare nuove possibilità di trattamento». Il giorno dopo, martedì 24 aprile, la vitalità stupefacente di Alfie ha “costretto” il giudice inglese che fin dall’inizio si è occupato del caso e che la sera prima aveva dato l’ordine di farlo morire, a riconvocare le parti in udienza, a Manchester, nel pomeriggio.

Mariella Enoc: «Una battaglia ideologica sulla pelle di Alfie» Anthony Hayden, questo il nome del giudice, ha sempre sostenuto che ad Alfie doveva essere procurata la morte, in quanto essa coincideva con “his best interest”, con il suo migliore interesse. E questa era anche la tesi dall’Alder Hey Children’s Hospital di Liverpool in cui il bambino era ricoverato. Contro il parere opposto dei genitori che volevano e vogliono sperare ancora e tentare di portarlo in Italia dove, oltre al Bambino Gesù, anche l’ospedale Gaslini di Genova ha offerto la sua disponibilità.

Al termine dell’udienza il giudice ha respinto la richiesta degli avvocati di Tom Evans di autorizzare la partenza

immediata di Alfie per Roma. Ma ha dato mandato all’Alder Hey Children’s Hospital di decidere se e come dimettere

il bambino – ora cittadino sia inglese che italiano -, con la conseguente, ipotetica, facoltà per i genitori di portarlo dove ritenessero opportuno. Respinta sia l’argomentazione dell’avvocato di papà Tom Evans, che contestava un giudizio precedente errato, sia quello del legale di mamma Kate, che puntava sulla sopravvivenza inaspettata del bambino nonché sulla cittadinanza italiana concessa ad Alfie per invocare la libertà di circolazione interna all’Ue, di cui il Regno Unito fa ancora parte. Un rifiuto che Mariella Enoc si aspettava, dopo che i dirigenti dell’Alder Hey Children’s Hospital nemmeno avevano voluto incontrarla, quando si era recata a Liverpool, e dopo aver visto compiere, durante la sua visita a quell’ospedale, «troppi movimenti non utili al bambino. Hanno ingannato la famiglia», è oggi il suo giudizio. «Si sono messi contro. E credo che ciò sia il risultato di una battaglia ideologica». In una drammatica corsa contro il tempo, i genitori di Alfie continuano a lottare e discutono con i medici per portarlo a casa. «Siamo stati respinti ieri per andare in Italia, purtroppo», ha detto Tom Evans. «Potremmo spingerci oltre, ma sarebbe la cosa giusta da fare, ci sarebbero più critiche? Quindi quello che facciamo oggi è un incontro con i medici di Alder Hey e ora iniziamo a chiedere di andare a casa». Tom Evans ha aggiunto: «Alfie non ha più bisogno di cure intensive. Alfie è sdraiato sul letto con un litro di ossigeno. Alcuni dicono che è un miracolo, non è un miracolo, è una diagnosi errata».

Il 18 aprile era intervenuta la conferenza episcopale dell’Inghilterra e del Galles, presieduta dal cardinale Vincent Nichols, con una dichiarazione salomonica: «Noi affermiamo la nostra convinzione che tutti coloro che stanno prendendo decisioni angosciose riguardanti la cura di Alfie Evans agiscono con integrità e per il bene di Alfie, secondo come lo vedono».

Ci sono, molti altri esempi di cattiva educazione, di intolleranza e di ridicola presunzione che potrei fare, ma credo che quelli che ho riportato siano sufficienti per lo scopo che mi propongo. I documenti che seguono sono di tutt’altro tenore, sono stati scritti d laici tolleranti e pazienti, non insulatno, non pestano i piedi e non si abbandonano a crisi isteriche, ragionano.

Riporto per prima una breve lettera che un ginecologo bolognese, Corrado Melega, che considero un esempio di dirittura morale e che è sempre stato noto per la sua capacità di tolleranza e di compassione ha scritto a Repubblica.

Gentile dottor Augias, mi aggiungo alla schiera di lettori di Repubblica e suoi che le avranno mandato la loro opinioni sulla triste vicenda del piccolo Alfie, dei suoi genitori e dei suoi medici.. In 40 anni di ostetricia ho visto, purtroppo, vicende simili, e devo dire che la sensazione di impotenza è il sentimento prevalente assieme alla compassione per la famiglia. Credo che sia necessario un grande equilibrio oltre ad una profonda competenza sia clinica che comunicativa. A questo proposito le invio due testimonianze di segno opposto. Si tratta di una lunga intervista con un neonatologo rianimatore esemplare a mio parere per compostezza, competenza ed equilibrio, apparsa sul Quotidiano sanità. La seconda testimonianza è costituita da due messaggi di Assuntina Morresi, consigliera del ministro della sanità e membro del comitato di bioetica altrettanto esemplare per faziosità e ferocia. Oltretutto l’uso dell’armamentario nazista mi pare veramente assurdo.

Corrado Melega

Alfie, l’esperto: «Nei casi di malattia neurodegenerativa, non è inusuale» –

Corriere.it

https://www.corriere.it/salute/malattie-rare/18_aprile_25/alfie-l-esperto-nei-casi-malattia-neurodegenerativa-noninusuale-

Perché il bimbo inglese ha ripreso a respirare da solo?

Perché il piccolo Alfie è tornato a respirare in modo autonomo, anche quando le macchine per la ventilazione artificiale ,che per mesi lo hanno aiutato a svolgere la funzione fondamentale della vita umana, sono state staccate? Come è possibile che abbia continuato per undici ore? Come sempre accade in questi casi, il pubblico dei social si è diviso tra quanti gridano al miracolo e chi invece cerca una spiegazione più terrena e possibilmente scientifica dell’accaduto. Abbiamo rivolto la domanda al dottor Alberto Giannini, direttore della Struttura Complessa di Anestesia e Rianimazione Pediatrica degli Spedali Civili di Brescia. Nella sua esperienza professionale di rianimatore dei bambini , di casi come quello del piccolo Alfie ne ha incontrati tanti.

«Non ho una risposta “illuminante” e temo che nessuna persona di

buon senso possa averla. Non sempre c’è una risposta a

tutto. Posso dire però che quanto è successo non è

inusuale».

Cerchiamo di spiegare meglio il concetto . «Non ho la

diagnosi delle malattia del bambino tra l’altro credo sia una

malattia per la quale non ci sia una precisa definizione –

premette il dottor Giannini -. Però le descrizioni che sono

contenute nella sentenza del giudice inglese – lunga, ma

molto interessante-, parlano di una malattia

neurodegenerativa, cioè una malattia che comporta

l’alterazione dei tessuti del sistema nervoso centrale. Questo

è un punto di arrivo di tante malattie, soprattutto di carattere

genetico, nella primissima infanzia , quindi nella fascia di età

di Alfie. Il danno delle strutture del sistema nervoso centrale è

variamente distribuito e non omogeneo nelle diverse porzioni

del sistema nervoso centrale . Quindi possono esserci, e

questa è un’evenienza molto frequente, zone che sono

parzialmente risparmiate dal processo degenerativo almeno

in una fase iniziale». Aggiunge :«I centri che governano la

respirazione in tutti noi – la respirazione è un’attività

autonoma e automatica una delle zone più antiche

dell’essere umano dal punto di vista filogenetico – si trovano

nel tronco encefalico o cerebrale e non è un vento così

insolito che nella progressione della malattia si realizzi una

lesione a macchia di leopardo e quindi queste zone del

tronco siano in parte risparmiate. In questo momento, non

credo che il bambino abbia un’attività respiratoria

assolutamente normale e regolare però probabilmente

sufficiente per mantenere in vita il corpo almeno per un certo

periodo, che possono essere ore, giorni o settimane».

Il danno può risparmiare alcune zone e così la respirazione non

si perde

«Quindi diciamo che queste malattie hanno una progressione

con un danno del sistema nervoso centrale. Questo danno

non è omogeneo nelle diverse porzioni che compongono il

sistema nervoso centrale e può essere che le zone del tronco

che governano la respirazione vengano parzialmente

risparmiate almeno fino a un certo punto della malattia.

Questo non è inusuale. L’automatismo dell’attività respiratoria

al momento non è completamente perso. Se dovessi poi

usare delle categorie legate al mio lavoro dovrei andare a

vedere se questa sua attività respiratoria è adeguata , cioè

andrei a vedere com’è la frequenza respiratoria, come sono

gli scambi gassosi , come è il Ph , ma sono questioni molto

tecniche. Ecco, non sono sicuro che Alfie abbia una

respirazione realmente adeguata ai suoi bisogni perché

spesso uno conserva un’attività respiratoria, ma che è

irregolare e quindi non adeguata.

La sentenza dei giudici inglesi

Ha letto la sentenza: che idea si è fatto dei giudici e dei

“colleghi” inglesi ?

«Abbiamo un sistema giudiziario differente

e una logica del pensiero giuridico differente , in realtà anche

la sentenza del giudice è molto accurata e tutt’altra che

superficiale – dice il dottor Giannini -. Ho letto invece dei

commenti terribili sulla sentenza: una condanna a morte… Ma

no , assolutamente no . Anche dalla delicatezza delle parole

del magistrato si coglie, al di là dell’aspetto squisitamente

giuridico, la presenza e la partecipazione umana al problema.

Però la logica con cui si muove tutto il sistema giudiziario

inglese -, così era accaduto anche per il caso di Charlie Gard

, ma cose di questo genere sono già accadute – c’è questo

principio del best interest, cioè il migliore interesse per il

minore. Per cui c’è una valutazione in cui i medici

segnalano che mantenere in vita questo bambino

rappresenta un atto che è palesemente contrario al rispetto

della persona e al miglior interesse per essa. Quindi la

richiesta dei genitori configura una condizione di cure che

non sono accettabili sotto il profilo etico perché non offrono

cose buone a questo bambino e lo condannano a una

condizione di sofferenza. Ed è una logica tutt’altro che

superficiale».

Il principio della proporzionalità delle cure

E da noi che cosa potrebbe accadere?

Risponde il dottor Giannini:«Per la formazione di etica clinica del nostro mondo

occidentale latino probabilmente avrei usato altri termini,

quello della proporzionalità delle cure : è un principio

fondamentale dell’etica clinica, che non rappresenta

ovviamente una regola matematica, in cui si valuta e si

bilancia quella che è l’appropriatezza di una cura proposta

per una ben precisa condizione (se quella cura è adatta, è

efficace, ha probabilità di successo, ha una durevolezza di

risultato, è idonea a quella condizione) con la gravosità della

cura. Cioè il costo in termini umani e non economici, dal

punto di vista delle sofferenza che questa cura può

comportare. Quindi il bilanciamento di questi due elementi,

appropriatezza e gravosità comporta una definizione di

proporzionalità della cura e anche di mezzo di diagnosi.

Questo deve far comprendere che ci sono azioni che non

sono proporzionate o che perdono di proporzionalità nel

tempo, per cui una scelta che ha una sua ragionevolezza,

una sua proporzionalità in un dato momento può non averla

in un momento successivo. Per tornare al caso del bimbo;

potrebbe essere più che accettabile in una fase iniziale di

malattia, quando non c’è la diagnosi, non c’è la comprensione

del problema, non ci sono dati clinici, cominciare il supporto

ventilatorio, quindi tecnicamente la medesima cosa può

perdere di proporzionalità nel tempo. Per cui credo sia

profondamente sbagliato parlare ad esempio di

proporzionalità di un determinato sistema di cura, in generale.

Invece ha senso parlare di proporzionalità di quel mezzo, per

quella persona, in quel punto della sua storia di vita e di

malattia».

La medicina deve recuperare il senso del limite

Le è mai capitato di dover prendere decisioni come questa? Che cosa governa la scelta di un medico?

«Certo, faccio il rianimatore pediatrico, quindi mi è capitato – racconta il

dottor Giannini -. La scelte di un medico è governata dal

maturare una consapevolezza del limite. L’eticista

statunitense, Kevin Wildes (attuale presidente della Loyola

University a New Orleans ) , diceva: “Viviamo un paradosso:

mentre sembra che non esistano limiti nella pratica medica, in

realtà la medicina è governata dai limiti” . E non c’è ambito

come quello della medicina intensiva che non renda evidente

questo paradosso. Noi medici, purtroppo , abbiamo spesso

messo da parte la dimensione del limite. Ma il limite ci

accompagna. Quindi non abbiamo una risposta a tutte le

domande , sempre e comunque. C’è un limite di

ragionevolezza e anche un limite di efficacia clinica. Noi

possiamo, ed è bellissimo spostare l’asticella verso l’alto ,

migliorare la qualità e l’efficacia delle nostre cure. Possiamo

ridurre la mortalità di certe malattie, ma non possiamo abolire

la morte . E non considerare questi due livelli di limite,

ragionevolezza e efficacia clinica ci fa entrare diritto diritto in

un sano delirio di onnipotenza . All fine c’è un terzo livello di

lettura del concetto di limite , a mio modo di vedere che è il

limite di senso: ogni azione volta alla cura dell’altro deve

essere sempre scandagliata, alla ricerca di un senso e di

un’accettabilità sul piano etico ».

27/4/2018 Gmail – Alfie, l’esperto: «Nei casi di malattia neurodegenerativa, non è inusuale» – Corriere.it

COMUNICATO STAMPA DELLA CONSULTA DI BIOETICA A COMMENTO DELLE ESTERNAZIONI DELLA SIGNORA MORRESI

Sulla tragica vicenda di Alfie Evans:

ribadiamo il sostegno alla buona pratica clinica inglese e

manifestiamo forte sorpresa per alcune reazioni italiane

decisamente sopra le righe

Alfie Evans è morto all’alba del 28 aprile 2018, a circa 5 giorni dalla sospensione

delle terapie, dopo che la sera del 26 aprile i genitori avevano espresso la massima

fiducia nell’operato dell’ospedale e chiesto ai sostenitori che stazionavano davanti

all’ospedale di andarsene a casa per consentire alla loro famiglia di riguadagnare la

normale privacy. Ora che la tragica vicenda è conclusa, sono opportune alcune

considerazioni a commento.

Come già era accaduto meno di un anno fa col caso di Charlie Gard, la vicenda di

Alfie ripropone il problema di quanto sostegno sia eticamente lecito dare a una

vita ormai giunta alla fase finale, una questione che in Italia è stata affrontata dai

casi di Piergiogio Welby (2006), Eluana Englaro (2009), Walter Piludu (2016) e tanti

altri. Queste persone erano adulte, diversamente da Alfie che era un infante (come

Charlie), ma i problemi sollevati sono sostanzialmente gli stessi, e riguardano per un

verso le capacità predittive della medicina (che è su base probabilistica), e per un

altro verso i limiti da porre agli interventi clinici, che possono trasformarsi in uno

strapotere nocivo per l’interessato, sia questi un adulto capace di far conoscere in

qualche modo la propria volontà di rinunciare alle terapie, o un infante incapace di

farlo per il quale altri devono decidere.

Pur nella diversità delle fattispecie, tutti questi casi hanno in comune la modalità

dell’approccio: invece di essere affrontati con pacatezza e discrezione si è

preferito urlare e sollecitare la pancia della gente, al punto che sembra che non si

sia proprio imparato nulla al riguardo. Invece di lasciare che Alfie fosse

accompagnato con rispettoso silenzio che gli era dovuto come stabilito dai medici e

dalla magistratura britannica, i critici hanno affidato ai social networks dichiarazioni

forti e hanno inscenato manifestazioni. Al tempo di Eluana c’era stato il gesto

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simbolico del portare acqua e pane, mentre ora con Alfie si è voluto coinvolgere papa

Francesco, e da noi in Italia sono state sollecitate le forze politiche a prendere

posizioni su cui preferiamo tacere.

Il piccolo Alfie, purtroppo, aveva una prognosi infausta sia per la durata della

vita (quoad vitam) che per il ripristino della salute (quoad valetudinem): al di là

dell’assenza di una diagnosi eziologica della sua patologia, tutti gli specialisti

chiamati in consulenza hanno confermato la tragica realtà, ossia gli effetti

destruenti e definitivi della malattia sul sistema nervoso di Alfie , per cui mai

avrebbe potuto instaurare relazioni e consapevolezza, anche se non si poteva

escludere che provasse dolore. Per questo i giudici inglesi ai vari livelli hanno

riconosciuto che non era nel suo miglior interesse (best interest) continuare a

vivere e che era meglio sospendere quello che da noi chiamiamo “accanimento

terapeutico”: termine in sé sbagliato ma che rende bene l’idea di quel che i

medici e giudici inglesi hanno voluto evitare. Diventano infatti accanimento

terapeutico le terapie salvavita quando non fanno altro che allungare l’agonia.

Purtroppo i genitori di Alfie non sono riusciti a accettare l’inesorabile tragica realtà

clinica e questo è stato fonte di difficoltà. Ma continuare le terapie sarebbe stato

accanirsi nei confronti di un bimbo senza nessuna speranza di recupero e forse in

stato di dolore. Il fatto che poi Alfie abbia continuato a respirare qualche tempo senza

respiratore non smentisce la correttezza della prognosi formulata dai medici

Non è vero che Alfie avrebbe potuto continuare a vivere fino a

settembre o anche oltre come asserito da alcuni, né che avrebbe potuto beneficiare di

migliori cure al “Bambin Gesù” di Roma: un’idea falsa che, purtroppo, è circolata e

pare sia stata accolta anche dal Governo italiano nella inopinata, frettolosa e sbagliata

decisione di conferire la cittadinanza italiana a Alfie Evans, decisa in un Consiglio

dei Ministri durato 4 minuti.

Abbiamo ritenuto inopportuna e impropria l’iniziativa del presidente del Bambin

Gesù Mariella Enoc di istaurare confronti tra Ospedali, lasciando intendere che quello

di Roma fosse migliore dell’altro (cfr. Comunicato Consulta del 24 aprile 2018).

Questo tipo di “gara” ha il tristo risultato di ingenerare sfiducia nella medicina e di

offrire il fianco a inaccettabili insinuazioni circa il comportamento dei medici.

Abbiamo già avuto esperienze di questo genere coi casi Di Bella e Stamina.

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Riteniamo ancora più grave che, qualche giorno dopo, Mariella Enoc abbia rincarato

la dose affermando che i medici inglesi «si sono messi contro [… come] risultato di

una battaglia ideologica» In realtà di “ideologico” c’è solo la posizione di Enoc.

Del tutto inaccettabili, infine, sono i due post diffusi nel web da un componente del

Comitato Nazionale per la Bioetica, che sono intrisi di disprezzo

per gli inglesi. Il contenuto di questi messaggi si commenta da solo: da chi ha compiti

istituzionali ci si aspetterebbe qualcosa di più di simili scempi, che nulla hanno a che

fare con il legittimo e doveroso esercizio di critica.

Le forti reazioni alla tragica vicenda di Alfie Evans hanno reso evidente, ancora una

volta, quanto radicato sia ancora il vitalismo più estremo, che in questo caso si è

coniugato con la volontà dei genitori. A questo riguardo va ricordato che nei casi

difficili di contrasto tra medici e genitori anche nel nostro paese non spetta ai

genitori la decisione ultima sulla salute o sulla vita del figlio, ma che anche da

noi queste scelte devono considerare il “miglior interesse” del minore

individuato dal giudice Resta il fatto che nel caso di minori

come Alfie (e prima Charlie Gard) il rapporto tra responsabilità genitoriale, consenso

alle terapie e classe medica rappresenta una sfida etica e giuridica forse tra le più

difficili e delicate, ma che deve essere affrontata. Ci auguriamo che un dibattito

bioetico sereno, che tenga conto di tutti gli aspetti, scientifici, giuridici e morali,

possa in futuro evitare il ripetersi di situazioni angosciose come questa caratterizzata

da inappropriati interventi ideologici e politici di cui proprio non si sente il bisogno.

Dr. Giacomo Orlando

Vice-presidente della Consulta di Bioetica Onlus

Coordinatore della Sezione di Novi Ligure

COMUNICATO STAMPA DELLA CONSULTA DI BIOETICA (24 aprile 2018)

A margine della tragica vicenda di Alfie Evans:

la brutta figura dell’ospedale Bambin Gesù di Roma

e quella ancora peggiore dei ministri Alfano e Minniti

Ora che la tragica vicenda di Alfie Evans è in via di conclusione, è opportuno riflettere su alcuni

aspetti della aspra controversia pubblica, con particolare riguardo alla posizione dell’ospedale

vaticano Bambin Gesù espressa dalle parole della sua Presidente Mariella Enoc.

In via preliminare va ricordato che (come si legge in una nota pubblicata dall’ospedale inglese:

http://www.alderhey.nhs.uk/wp-content/uploads/FAQs-FINAL-220318-1.pdf) già nel

settembre 2017 la famiglia Evans aveva richiesto il parere di due specialisti indipendenti e di tre

esperti del Bambin Gesù, i quali hanno cooperato coi medici dell’Adler Hey Hospital, giungendo

alla unanime conclusione che “la condizione di Alfie è irreversibile e non più curabile” (Alfie’s

condition is irreversible and untreatable). È sulla scorta di questa terribile realtà che i medici

dell’ospedale di Liverpool si sono chiesti “se continuare il trattamento di Alfie fosse nel suo miglior

interesse” o l’insistenza fosse una forma di accanimento terapeutico e hanno sentito il dovere

professionale e morale di dare una risposta precisa, ossia quest’ultima.

Inoltre, già allora i medici del Bambin Gesù, “in modo significativo hanno osservato che, data

l’epilessia di Alfie, c’era un rischio che soffrisse ulteriori danni cerebrali nel caso di un eventuale

trasporto all’estero. Hanno offerto di portarlo nel loro ospedale, ma convenivano che non si potesse

fare nulla per migliorare la sua condizione. Ulteriori procedure invasive sono state proposte, ma

queste non l’avrebbero aiutato a ristabilirsi”.

Per questo i medici inglesi, rispettosi del “miglior interesse del bambino” (child’s best interest),

hanno chiesto di sospendere: perché con precisione non si sa se Alfie soffra anche se è probabile

di sì e perché non c’è alcuna speranza né di recupero né di miglioramento: condizione questa

che, forse per analogia con la futilità dei trattamenti, è stata indicata dal giudice Heyden con

“futility of Alfie’s life”, espressione forse infelice e impropria, ma che non è centrale nella

trattazione e comunque può indicare che è una vita “non-vita” date le miserrime condizioni di

esistenza.

Il 14 aprile, Avvenire ha intervistato la Presidentessa del Bambin Gesù, Mariella Enoc, che ha

affermato: “Il bambino ha sondini, e i nostri medici – per farlo soffrire meno [sic!] – propongono

una tracheotomia e un’alimentazione tramite Peg”. Tesi ribadita a Radio Vaticana il 19 aprile: “non

faremo certamente accanimento terapeutico; i nostri medici hanno deciso di mettere al bambino

eventualmente una PEG, per l’alimentazione, e una tracheotomia per la respirazione, qualora si

rendesse assolutamente necessario… E naturalmente si potrebbe approfondire la diagnosi […]

anche perché la malattia non è stata esattamente ancora diagnosticata. Molte malattie sconosciute in

questi anni, anche rapidamente, sono state conosciute e quindi non ci si può arrendere di fronte al

volere che la scienza continui i suoi percorsi. Quindi noi non abbiamo in questo momento una cura”

Queste affermazioni sono a dir poco sorprendenti per le seguenti ragioni:

1. è vero che non c’è una “diagnosi”, ma questo solo perché si tratta di una patologia

sconosciuta: basta informarsi per vedere che c’è unanime consenso degli esperti (compresi

quelli del Bambin Gesù) circa l’irreversibilità della condizione. Giocare con le parole e

continuare a instillare speranze impossibili è mistificatorio e al fondo poco professionale,

come lo è minimizzare i rischi del proposto trasporto aereo.

2. La proposta di mettere una PEG e fare la tracheotomia era già stata presa in considerazione

a settembre, e rifiutata dai medici perché comporta un peso ancora maggiore dei sondini

oggi applicati e meno invasivi. Né basta dichiarare che “non faremo certamente accanimento

terapeutico”, perché queste sono solo parole al vento buttate lì per esorcizzare o nascondere

proprio ciò che si vuole fare: ossia accanimento terapeutico su un bimbo che molto

probabilmente soffre e viene mantenuto in quella situazione per volere di non si rassegna di

fronte a una tragica triste realtà.

3. Le parole citate sembrano alludere all’idea che al Bambin Gesù di Roma si “curi meglio”

che al Adler Hey di Liverpool e che i medici italiani “siano più bravi” di quelli inglesi, e

questo perché – come ha continuato Mariella Enoc – al Bambin Gesù “noi sappiamo che

non molliamo mai e poi quando si decide che il bambino non ce la fa lo si accompagna

lentamente alla sua morte naturale”: proposizione che lascia intendere che invece i medici

inglesi sarebbero meno rispettosi della vita …

Lasciandosi abbindolare da questa falsa rappresentazione della realtà, i ministri Alfano e Minniti

hanno dato la cittadinanza italiana al piccolo Alfie per consentirne il rapido trasporto a Roma,

minacciando un incidente diplomatico col Regno Unito in caso di diniego. Mossa che è una chiara

indebita interferenza con la medicina e giustizia britanniche, e che pare legittimare i pesanti,

ingiusti e ripetuti attacchi rivolti a queste istituzioni su vari media italiani. Inoltre, stupisce molto la

solerzia di alcuni ministri italiani nel concedere la cittadinanza ad Alfie Evans, che non è

altrettanto supportata in altri casi di bambini provenienti da paesi diversi.

Noi della Consulta di Bioetica riteniamo che la polemica sollevata in Italia contro la gestione del

caso Alfie Evans sia stata informata da un inappropriato furore ideologico di stampo vitalista.

È stato deleterio l’aver preteso di instaurare un confronto tra medicina britannica e medicina

italiana, e questo fatto avrà come effetto una ulteriore perdita di fiducia del pubblico nella

medicina nel suo complesso e renderà meno facile la collaborazione tra gli esperti. Che

Mariella Enoc non sia stata ricevuta dalla dirigenza dell’ospedale di Liverpool è il segno che le sue

pesanti dichiarazioni e i suoi imperiosi e sconvenienti gesti hanno creato una ferita che non sarà

facile rimarginare.

Ancora più grave è che si deve constatare come i cattolici italiani solo a parole dicono di voler

applicare la proporzionalità delle cure, ma poi in pratica non mollano mai e si ostinano a oltranza

(con tracheotomia e Peg) fino a praticare l’accanimento terapeutico che poi negano di fare: sarebbe

meglio acquisissero maggiore senso della realtà per non perdere ulteriormente credibilità.

Nel caso specifico ben diverso è stato l’atteggiamento dei vescovi inglesi, che nel loro Comunicato

del 18 aprile hanno precisato che le critiche all’ospedale sono “infondate”, e che tocca all’ospedale

Bambin Gesù presentare ai tribunali britannici “le ragioni mediche perché si faccia un’eccezione in

questo caso tragico”. E concludono di pregare, “con amore e realismo” per riuscire a accompagnare

al meglio tutti nel tragico percorso di sofferenza. Purtroppo, le ragioni a favore dell’eccezione non

sono state fornite, ma solo affermazioni demagogiche informate a un pregiudizio vitalista che porta

a praticare l’accanimento terapeutico su un bambino indifeso.

Invece che denigrare la medicina e la giustizia britannica, noi della Consulta riteniamo che si

debba prendere esempio dal comportamento britannico, e chiediamo che anche in Italia si

proceda con maggiore vigore nella tutela dei bambini soggetti a accanimento terapeutico.

Dr. Giacomo Orlando

Vice-presidente della Consulta di Bioetica

Coordinatore Sezione Novi Ligure

Quello che segue è un articolo a firma di Vladimiro Zagrebelsky pubblicato sulla Stampa il 25 aprile

http://www.lastampa.it/2018/04/25/cultura/alfie-il-bivio-tra-umanit-e-regole-

d93n75ELn479VtTOXXzUbI/pagina.html

Alfie, il bivio tra umanità e regole

ANSA

Pubblicato il 25/04/2018

Ultima modifica il 25/04/2018 alle ore 10:12

Rispetto, ritegno, cautela e rifiuto di interventi inutili alla ricerca di visibilità dovrebbero essere la regola quando si

tratta di casi come quello della penosa situazione che vivono in Inghilterra Alfie Evans e i genitori.

E del peso professionale e morale che reggono sia i medici e gli infermieri che l’hanno in cura da mesi, sia i giudici, che

sono chiamati a decidere la controversia che oppone i genitori ai medici sul destino del bambino. Si assiste invece a

clamore disinformato e a discutibili iniziative come quella – ancora non definita secondo la procedura di legge – della

concessione della cittadinanza italiana al bambino, che gli consentirebbe il trasferimento in Italia. Un’attribuzione di

cittadinanza che nulla aggiunge alla possibilità di viaggiare in Europa, che al bambino già deriva dal fatto di essere

anche cittadino dell’Unione europea. E non si può evitare la spiacevole sensazione che il governo italiano creda di

dover intervenire per la necessità di sottrarre qualcuno alla persecuzione di uno «stato canaglia»!

La vicenda, nel momento in cui scrivo, è ancora in corso, anche per quanto riguarda l’ipotesi che il bambino lasci

l’ospedale e il suo eventuale viaggio verso l’Italia. Non è quindi possibile commentarne l’esito. Ma si può indicare

quale sia l’oggetto della controversia, che vede opporsi i medici dello specializzato ospedale pediatrico di Liverpool e i

genitori del bambino. I primi affermano che i gravissimi danni celebrali ormai subiti dal piccolo rendono inutile e causa

di sofferenze la protrazione delle cure, con respirazione e alimentazione artificiale. I genitori si oppongono alla

cessazione del sostegno artificiale. La controversia può essere decisa solo dal giudice secondo la legge. La legge, in

ogni caso che riguardi minorenni, indica il criterio che il giudice deve seguire: quello della ricerca del miglior interesse

del bambino. Come è evidente si tratta di un criterio di difficile applicazione: esso richiede l’accertamento della

situazione di fatto e delicati giudizi di valore. L’esito è spesso l’accendersi di contrastanti reazioni. In questo caso i

giudici britannici, in tre gradi di giudizio fino alla Corte Suprema, hanno approvato l’opinione dei medici e autorizzato

la cessazione del sostegno artificiale alla vita del bambino. La conclusione dei giudici nazionali è poi stata condivisa

​dalla Corte europea dei diritti umani. Sembrerebbe quindi che ci sia ora solo da provare pena, ma che non vi sia materia

per accusare l’uno o l’altro di coloro che hanno avuto parte nella vicenda o per pretendere di sostituire la propria alla

valutazione che hanno fatto quelli che conoscono la situazione attuale e i possibili sviluppi.

E invece vi è chi, in nome di un diritto alla vita comunque e a qualunque costo, si oppone alla regola deontologica

propria dei medici, in Inghilterra come in Italia e altrove, di evitare cure inappropriate che si traducano in accanimento

terapeutico. Si tratta di una regola di umanità verso il paziente, oltre che di corretta gestione professionale

dell’intervento medico. Anche questa è regola di applicazione non meccanica. Ma chi può ad essa ricorrere, se non,

come in questo caso, medici specializzati, assistiti da esperti esterni e controllati dai giudici? Chi però si è schierato con

i genitori e contro i medici sostiene che nella valutazione sia dell’interesse del bambino, che dell’accanimento

terapeutico il giudizio decisivo appartenga ai genitori. Si tratta di una visione «proprietaria» del rapporto genitore-figlio,

che è priva di fondamento. Il rapporto è di «responsabilità», non di «proprietà», tanto che quando la condotta dei

genitori sia in contrasto con l’interesse dei figli questi possono addirittura essere allontanati (l’esempio dell’adozione da

parte di terzi è solo uno dei possibili). Certo l’opinione del genitore è di grande importanza, ma non è insuperabile,

come sembrano pensare coloro che in radice vedono come un abuso la decisione dei medici e dei giudici. Purtroppo,

quando si prospetta un possibile contrasto tra il volere dei genitori e l’interesse del figlio è necessario un giudizio

esterno: quello che hanno dovuto esprimere i medici prima e i giudici poi.

Vladimiro Zagrebelsky

E per finire, una lettera che ho scritto per la rivista di biodiritto di Carlo Casonato, che ha un pubblicato un forum sull’argomento:

La sindrome di Margite

Nell’Alcibiade minore (o Alcibiade secondo), Platone – o chi per lui – cita una operetta di autore ignoto della quale ci restano solo pochissimi riferimenti, Il Margite, e dice ( questa frase è diventata una sorta di manifesto di condanna della presunzione degli incolti) ” pollà episteto kakòs dè episteto panta”. Poiché questo articolo potrebbero leggerlo , oltre naturalmente ai bioeticisti che il greco antico lo parlano correntemente, anche poveracci come me che hanno bisogno del dizionario, riporto una traduzione verisimile: sapeva molte cose, ma le sapeva tutte male. Lo dico perché il coro di voci di vario colore che si affaccendano intorno al caso del povero Alfie è in effetti un coro di inconsapevoli Margite, tutti convinti di aver titolo per intervenire su cose che non sanno e non capiscono, ma tutti fortemente motivati: uno perché è cattolico, uno perché non gli piacciono gi inglesi, uno perché è genitore , uno – generalmente il più cattivo di tutti – perché è laureato in chimica, eccetera. Per portare l’incauto lettore allo stesso livello di comprensione dei problemi neurologici al quale sono giunti i nostri Margite, dirò alcune cose sulla malattia della quale era affetto Alfie.

La malattia si definisce come una ceroidolipofuscinosi neuronale giovanile, una rarissima forma degenerativa congenita a trasmissione autosomica recessiva, della quale esistono varie forme, generalmente classificate in base all’età di esordio ; si tratta comunque in ogni caso di un difetto genetico, dovuto alla carenza di enzimi che dovrebbero provvedere alla eliminazione di alcuni metaboliti tossici. Per i tre tipi principali di variante infantile della malattia la storia clinica è abbastanza simile: contrazioni muscolari, perdita della coordinazione, convulsioni che non rispondono ai farmaci, atassia. L’elenco dei sintomi neurologici è comunque molto lungo, mi limito a citare la perdita progressiva della vista, della parola e della capacità cognitiva e, cosa che mi ha personalmente colpito, sintomi simili a quelli del Parkinson; poi i piccoli pazienti entrano in stato vegetativo e finalmente muoiono. Non esistono terapie causali, ci sono solo terapie sintomatiche, per quel che contano. Si cerca di evitare l’epilessia e la spasticità, si trattano i sintomi del Parkinson, si possono usare con cautela antidolorifici e antipsicotici.

Recentemente è stata sperimentata con qualche successo una cura della ceroidolipofuscinosi neuronale di tipo due ( che non è quella che è stata diagnostica ad Alfie, ho sotto gli occhi le dichiarazioni dei medici che sono stati i coordinatori dello studio che affermano che la malattia di Alfie è stata esclusa sin dall’inizio dalla sperimentazione). Tenete anche conto che il clamore che è stato fatto su questo studio sperimentale mi obbliga a considerare con sospetto la serietà degli sperimentatori, che hanno evidentemente dimenticato che una delle più importanti regole di Merton li dovrebbe costringere a quello che viene definito “scetticismo organizzato”.

Non sono sicuro di avere il diritto di partecipare a questa discussione, non sono né religioso né laureato in chimica. L’unica cosa che potrebbe giustificare la mia presenza nel coro riguarda il fatto che ho recentemente scoperto di essere affetto dal morbo di Parkinson, per il quale sono in trattamento da qualche mese. Non è una malattia facile da sopportare: disturbi neurologici di vario genere, mioclonie fastidiose, l’equilibrio che se ne va a quel paese, una serie abbastanza lunga di problemi con i quali è difficile arrivare a un complicato – ma indispensabile – compromesso. Posso dire una cosa: ne so abbastanza da poter garantire il lettore che se mi fosse stata diagnosticata una ceroidolipofuscinosi neuronale mi sarei rapidamente trasformato in cenere.

In tutta sincerità trovo odiosa tutta la discussione. Ho lavorato in Inghilterra, un Paese che rispetto e che non deve soprattutto chiedere scusa a nessuno, il modo in cui affronta questi temi mi sembra assolutamente civile, chi afferma il contrario si faccia un rapido esame di coscienza, scoprirà che è lui (o lei ) a doversi vergognare. Naturalmente tutti hanno il diritto di esprimere la propria opinione, tranne – spero che su questo ci sia un accordo – i talebani di tutte le religioni e di tutti gli ateismi. Ho letto che un Cardinale, Vincent Nichols, ha difeso l’operato dei medici inglesi: gli sono grato, a nome del buon senso e a nome della buona medicina , ma non sarebbe meglio che di fronte ai casi dolorosi con i quali la maldestra provvidenza ci confronta continuamente esercitassimo l’unica virtù che ci distingue dai facoceri e dagli ornitorinchi, la compassione, e ce ne stessimo tutti zitti?

Di una cosa invece dovremmo parlare, e a lungo, e questo riguarda il modello di medicina al quale dovremmo ispirarci quando dobbiamo affrontare problemi tanto dolorosi con le persone coinvolte che ritengono che i loro legami affettivi diano loro dei privilegi, compresi quelli di fare sciocchezze e di operare scelte che non tengono conto del “miglior interesse ” della persona che amano e che sono invece sollecitate da complicate invasioni di campo, nelle quali si distinguono i molti operatori del ciarpame romantico- superstizioso , quello che è stato definito come una complessa associazione a sdilinquere, che nega l’utilità delle vaccinazioni , propone assurde terapie alternative e interpreta i singulti dolorosi di un morente come un grato saluto d’addio a chi lo ha costretto a combattere con la sofferenza al di là di ogni principio morale. Secondo me i temi che dovremmo trattare per primi esercitano con ogni probabilità una attrattiva molto minore di quella usualmente conquistata con estrema facilità dai variopinti abitanti dei social, ma hanno il privilegio di essere realmente importanti e utili: mi riferisco al bisogno di un consenso sociale informato che guidi la mano del medico e del ricercatore nel loro rapporto quotidiano con la sofferenza e la malattia e quello di creare isole per stranieri morali nelle quali sia consentito a tutti noi d vivere serenamente secondo i principi delle nostre personali ( e fragili) verità senza il timore di essere aggrediti e insultati solo perché sono un po’ diverse da quelle degli altri.

Concludo. In realtà sono più sorpreso che indignato, non avrei mai immaginato che un caso come questo, altrettanto semplice quanto doloroso, potesse diventare l’occasione per raccogliere quanto di più ingenuo, ridicolo e sgradevole può esprimere una religione. Se leggete con attenzione troverete di tutto: dal miracolo (temo che presto qualche madonnina piangerà, in Inghilterra, lacrime di sangue) e dalla retorica più risibile ( “il piccolo guerriero”!) alle ingiurie e alle maledizioni. Conosco bene gli inglesi (ho lavorato a lungo al Chelsea Hospital for Women e ne conservo un ottimo ricordo ) e non penso proprio che si vergogneranno; io invece si, lo confesso, un po’ mi vergogno (mi succede sempre più spesso), non tollero più la maleducazione, la prosopopea e l’inciviltà dei miei connazionali.