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1860: come nascevano gli italiani2020-03-31T15:22:59+02:00

1860: come nascevano gli italiani

Marzo 2011

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L’unico libro di ostetricia del 1960 che sono riuscito a trovare è il “Manuale completo di Ostetricia” di Vincenzo Balocchi, medico delle donne di scuola fiorentina; il suo testo fu pubblicato per la prima volta nel 1847 e poi, sempre riveduto e aggiornato, nel 1956, nel 1859 e nel 1960, dopo non so.

Così sono andato alle pagine nelle quali si parla del Taglio Cesareo, e ho letto quanto segue: “L’operazione cesarea, malgrado che sia stata felicemente compiuta sulla stessa donna parecchie volte (?), è stata così spesso fatale alla madre che in alcune località (Parigi, Londra) da mezzo secolo non si è potuto salvarne alcuna. Ma, tolti anche questi due grandi centri, le statistiche più fortunate darebbero una donna morta sopra due e un terzo, lo che vuol dire essere questa operazione la più grave di quante se ne conoscano. Non è dunque da meravigliarsi se varii ostetrici l’abbiano bandita (con troppa precipitazione,però) e altri abbiano cercato varii modi per evitarla, almeno nella donna vivente. Per quanto questi tentativi sieno lodevolissimi, è chiaro che negli estremi vizi di bacino, come in quei casi nei quali esistano tumori che occupano gran parte della scavazione, sarà caso ricorrervi, a meno che non si preferisca l’aborto provocato, perocchè qualunque processo embriotomico negli estremi gradi di restringimento, oltre a uccidere volontariamente il feto, farebbe correre alla madre rischi non meno gravi di quelli che sono inerenti al taglio cesareo”.

Il testo si dilunga poi sulle alternative possibili, dando per scontato che il taglio cesareo “su donna vivente” è comunque l’estrema Thüle, e che è lecito farvi ricorso proprio quando altro non è possibile fare: le ipotesi sono due, la prima consistente nell’associazione tra sinfisiotomia e parto prematuro, la seconda tra sinfisiotomia ed embriotomia. Non ho nessuna voglia di sgomentare le lettrici spiegando in dettaglio cosa è la sinfisiotomia, limitatevi a immaginare una sorta di parziale squartamento della donna; dal canto suo l’embriotomia consiste nel fare a pezzi il feto in modo da poterlo estrarre un po’ alla volta, una serie di interventi che prendono il nome di embriulcia, craniotomia, cefalotripsia, cefaloclastia, cranioclastia e via così.

Il testo che vi ho citato non è per niente pessimista, anzi , in alcune parti è addirittura un tantino ipocrita, come quando afferma che il taglio cesareo era stato eseguito più volte nella stessa donna. Solo per continuare a darvi un’idea di cosa fossero a quei tempi le operazioni ostetriche vi racconto la storia di una certa signora Kaiser, che riguarda oltretutto il 1875, 15 anni dopo il periodo storico del quale sto trattando.

Nel 1875, un anno prima che Eduardo Porro eseguisse per la prima volta il suo “taglio cesareo demolitore con trattamento esterno del peduncolo”, destinato poi a salvare molte vite umane, il dottor Samuel S. Lungren, ostetrico di Toledo (Ohio) pubblicò sull’Ohio Medical Surgical Reporter un caso di taglio cesareo eseguito “con una tecnica personale” in una donna di 34 anni, di origine tedesca, moglie di un sarto di Toledo, portatrice di una viziatura pelvica così severa e complessa che le precedenti gravidanze o si erano interrotte da sole o erano state interrotte dai medici, che ritenevano che un parto a termine sarebbe stato causa certa di morte per lei e per il bambino. La peculiarità dell’intervento di Lungren fu l’applicazione di 5 punti di sutura in filo d’argento sulla breccia uterina e di altri punti sulle pareti addominali. La donna sopravvisse e guarì tanto bene da poter compiere, dopo appena 44 giorni dall’intervento, un percorso di circa un miglio per andare a ringraziare il suo salvatore. Ringraziamento opportuno, visto che in quegli anni la mortalità da taglio cesareo raggiungeva, nella maggior parte delle casistiche, il 70%.

Ma l’insaziabile signora Kaiser non aveva finito di creare preoccupazioni al povero dottor Lungren, al quale si rivolse di nuovo, nel 1880, confessandogli di avere iniziato una nuova gravidanza. Con un atto di straordinario coraggio, Lungren attese il termine della gestazione e ripeté il taglio cesareo, che ebbe ancora esito fortunato. Il ginecologo ne pubblicò i particolari nel 1881 nell’American Journal of Obstetrics con il titolo “A case of cesarean section twice successfully perfomed on the same patient”. La signora Kaiser era la settima che sopravviveva, negli Stati Uniti, a un taglio cesareo ripetuto, su un totale di 48 casi.

È immaginabile che, durante il secondo intervento, il dottor Samuel Lungren abbia fatto qualche cattivo pensiero sulla fertilità della sua paziente e sia arrivato a immaginarsela ancora gravida, per la terza volta, sulla porta del suo ambulatorio. È immaginabile perché in una conferenza/confessione, tenuta all’Istituto Americano di Omeopatia di Milwaukee, il ginecologo dichiarò di aver a lungo meditato di togliere le ovaia alla signora Kaiser, d’aver rinunciato per timore di una emorragia, e di essersi infine risolto a legare entrambe le tube con un robusto laccio di seta. Non abbiamo altre notizie della signora Kaiser: sappiamo solo che la letteratura medica non la cita più, il che ci fa ben sperare. Ma questa intera storia mi serve anche per sottolineare una cosa importante, che cioè le prime sterilizzazioni chirurgiche erano motivate da ragioni mediche di particolare importanza: in questo caso, la necessità di evitare un intervento che sarebbe risultato molto probabilmente mortale; in altri casi, rilevanti problemi medici e molto più raramente, motivi di ordine sociale o morale.

Di quello stesso anno, il 1880, ho la nona edizione francese del più famoso trattato di ostetricia del XIX secolo, scritto da Cazeaux e Tarnier e tradotto in quasi tutte le lingue europee. Il testo affronta il problema del taglio cesareo solo quando deve affrontare l’argomento delle grandi viziature pelviche e stabilisce anzitutto, con molta chiarezza, che comunque questo intervento chirurgico non deve mai essere eseguito nei casi in cui sia la salute o l’integrità del feto a essere a repentaglio.

Poi dice: “Noi voteremo contro l’operazione cesarea in tutti i casi in cui non sia indispensabile alla salvezza della madre. Non si può infatti negare che questo intervento sia quasi sempre mortale per la madre, anche dando per buoni i risultati più favorevoli. Lasciando da parte i risultati che ci arrivano dai ginecologi inglesi, ai quali si rimprovera una cattiva scelta del momento in cui eseguire il cesareo, e ammettendo che siano state pubblicate con pari zelo le casistiche positive e quelle negative, esaminando imparzialmente i fatti siamo giunti alla conclusione che i quattro quinti (il 79% secondo Kaiser) delle madri sono morte in seguito all’intervento. A questo punto è necessario chiederci se almeno questa infausta operazione salva la vita dei feti: ebbene, purtroppo no, e persino i fautori del taglio cesareo sono costretti ad ammetterlo.”

Dunque, ai tempi dei quali stiamo parlando una serie di problemi ostetrici – la piccola statura della donna,i vizi pelvici da precoce lavoro, gli esiti di malattie ossee che modificavano la struttura del bacino, le placente previe, i distacchi intempestivi di placenta, tutte le presentazioni fetali sfavorevoli, le gravi distocie dinamiche, le improvvise sofferenze fetali, le minacce di rottura d’utero – insomma i casi in cui erano a rischio le vite della madre e del suo bambino non avevano altra soluzione che quella di traumatici interventi vaginali che davano per scontato che la vita del bambino non valeva comunque niente e poteva essere sacrificata; molti di questi interventi erano poi talmente traumatici da concludersi con danni gravissimi ( e talora con la morte) per la donna. Tenete conto che attualmente l’Organizzazione Mondiale della Sanità ritiene che per ottenere i migliori risultati possibili per la madre e per il bambino sarebbe opportuno che la percentuale di parti che si conclude con un taglio cesareo variasse tra il 16 e il 18 per cento

. Ma le donne non morivano solo in travaglio di parto, morivano anche dopo aver partorito e la causa più frequente di questi decessi era la cosiddetta infezione puerperale Il libro più importante su questo argomento è stato pubblicato nel 1861 da Ignaz Semmelweis e si intitola “ Die Aetiologie, der Begriff und die Prophylaxis der Kindbettfiebers”.

Le infezioni puerperali sono state uno dei peggiori flagelli dell’umanità per secoli e secoli. La definizione può sembrare esagerata, ma non è così. La peste, quella così ben descritta da Alessandro Manzoni, sterminò quasi un milione di persone nella sola Italia settentrionale; l’influenza chiamata “spagnola” uccise più di 10 milioni di poveracci dopo la prima guerra mondiale: momenti certamente tragici ma occasionali e saltuari, mentre l’infezione puerperale non ha mai avuto soste, e ancora all’inizio dell’800 uccideva tra il 10 e il 35% delle puerpere. Un esempio: nel 1788 la maternità di Parigi chiudeva temporaneamente quando la febbre da parto o le complicazioni dell’aborto portavano a morte più della metà delle ricoverate (quasi 200 donne costrette a dividersi 67 letti larghi un metro e settanta ciascuno). Nella seconda metà del XIX secolo in quasi tutta l’Europa erano stati istituiti servizi di maternità che avevano lo scopo principale di tentare di risolvere i problemi degli infanticidi , molto frequenti soprattutto nei casi in cui le gravidanze erano “illegittime”. Ricovero e trattamento erano gratuiti e i bambini erano trattati con particolare attenzione, tutte cose che attiravano molte donne che vivevano in condizioni di assoluta povertà e molte prostitute: in cambio tutte queste donne accettavano di essere utilizzate come materiale didattico per la preparazione degli studenti di medicina e delle allieve ostetriche.

Proviamo adesso a trasferirci a Vienna, in un’epoca che precede di poco la metà del XIX secolo, in una di queste istituzioni: ci troveremo due cliniche ostetriche, giustamente classificate in dipendenza della loro importanza didattica, così che la Prima Clinica era quella nella quale facevano esperienza gli studenti di medicina, la Seconda quella che serviva per la preparazione delle allieve ostetriche. La Prima Clinica aveva una mortalità materna del 10%, con fluttuazioni comprensibili e comunque non straordinarie; nella Seconda, la mortalità era in media inferiore al 4%. Questi dati erano noti a tutti i cittadini di Vienna e, anche se le due cliniche ricoveravano a giorni alterni, le donne erano disposte a vendere l’anima pur di essere ricoverate nella Seconda Clinica.

Uno degli Aiuti di quella Istituzione era Ignaz Semmelweis, un medico ungherese che cercava faticosamente di fare carriera a Vienna, una città che gli ungheresi amava assai poco e dove chi non era austriaco era considerato, se andava bene,un contadino.

Semmelweis era incaricato di fare il giro dei reparti al mattino, di supervisionare i parti più difficili e di fare lezione agli studenti: il fatto che molte gravide lo implorassero in ginocchio di essere ricoverate nella Clinica delle ostetriche non poteva che impressionarlo. Semmelweis scoprì che molte donne preferivano partorire per strada,dichiarando successivamente di avere avuto un parto precipitoso mentre erano in procinto di entrare i ospedale , il che significava poter ottenere tutte le attenzione previste dal ricovero per i loro bambini senza dover essere ricoverate. Stranamente, queste donne soffrivano solo molto raramente di febbre puerperale, cosa che riempì di curiosità il ginecologo che si chiese osa mai potesse proteggerle. Nel 1846 la mortalità da febbre puerperale salì all’11,8% nella Prima Clinica e scese al2,8% nella Seconda, e Semmelweiss pensò di aver finalmente trovato la risposta: gli studenti di medicina partecipavano all’esecuzione delle autopsie e, sempre a mani nude e senza lavarsele mai, assistevano ai parti. Dunque erano loro a trasportare con le loro mani “particelle di cadavere” o comunque qualche misterioso “materiale cadaverico responsabile delle febbri puerperali. Semmelweis obbligò tutti coloro che erano coinvolti nell’assistenza ai parti a lavarsi le mani prima di entrare nella sala da parto e così nelgiro di pochi mesi la mortalità materna scese quasi a zero.

Si dovrebbe pensare che questa eccezionale scoperta dovesse aprire al medico ungherese la via del trionfo professionale e scientifico, ma non fu così: Semmelweis fu criticato, sbeffeggiato, umiliato, praticamente cacciato da Vienna. Nel suo libro del 1861 scriveva: “ molte aule di medicina ospitano professori che fanno lezione apparentemente dotte sulla febbre puerperale e che mi diffamano e parlano male delle mie teorie, A Vienna, il luogo dove ho avuto i miei successi, nel 1854 ben 400 donne sono morte di infezione puerperale; i miei insegnamenti sono ignorati; la facoltà di medicina di Würzburg ha assegnato il premio più importante del 1959 a una monografia nella quale i miei insegnamenti vengono criticati e le mie teorie respinte”. E in realtà questo atteggiamento della medicina ufficiale non mutò per molti e molti anni.

Cosa se ne pensava in Italia? Ritorno per un attimo al mio Manuale Completo di Ostetricia di Balocchi (che, se ricordate, è del 1860) e leggo, nel capitolo intitolato “Febbre puerperale”: “”Non è solamente necessario che l’ostetrico la riconosca per curarla convenientemente, ma è puro importante che fin dai primordi la riconosca la levatrice, giacché spesso, sotto certe condizioni speciali dell’atmosfera si sviluppa anco dopo i parti più normali…..L’infiammazione…. riconosce per causa indiretta i dolori del parto specialmente prolungato e per causa diretta il trattamento soverchio e le pressioni esercitate dal feto sulle pareti uterine, le manovre necessarie per estrarre il feto la placenta, i raffreddamenti, l’abuso di alimenti nel puerperio, vive impressioni morali, ecc. ecc.” Sono deliziato dalle “vive impressioni morali”, ma non molto ben impressionato dalla mancanza di riferimenti alle teorie di Semmelweiss, che pure erano oggetto di discussione in tutta Europa.Insomma, gli ostetrici italiani continuavano a non lavarsi le mani e se dovevano curare una febbre puerperale le applicavano “20 o 30 mignatte alle fosse iliache”.

Dunque, spero che si cominci a capire cosa si potevano aspettare, 150 anni orsono, le donne italiane dalla medicina. I ginecologi non avevano alcuna conoscenza in campo contraccettivo e in ogni caso consideravano la materia indegna di un medico perbene. Le donne abortivano, usando le erbe che le ostetriche indicavano loro, spesso sbagliando dosaggio e finendo nei guai più seri per differenti forme di avvelenamento. Molte di esse diffidavano dell’aborto meccanico, che le ostetriche eseguivano con metodi grossolani e che causavano drammatiche infezioni pelviche, che cronicizzavano con grande frequenza e che le donne romagnole chiamavano “le miserie genitali”. In molte famiglie si preferiva lasciar nascere i bambini e poi soffocarli nel sonno, dando la colpa al gattone di casa, pur di evitare le mortificazioni degli aborti procurati. Le donne avevano paura dell’ospedale, non avevano abbastanza soldi per pagare il medico, erano costrette a convivere con orrende infezioni vaginali che potevano rendere la loro vita un vero inferno. Non era comunque, in alcun caso, una vita facile e la medicina non faceva assolutamente niente per alleviare questo stato di cose. Perché le donne morivano in gran numero, di parto, di aborto, di assenza di cure. Una donna che aveva la sfortuna di essere piccola di statura era condannata a morire di parto, se qualcuno non intercedeva per lei e la faceva abortire prima, e questo solo perché il suo bacino era troppo stretto. La medesima cosa accadeva alle ragazze che avevano portato pesi sulla testa quando ancora il loro sviluppo non si era completato, e alle giovani rachitiche, e a tante altre sventurate.

Ci sono voluti molti anni, è occorsa molta pazienza perché finalmente le cose cominciassero a migliorare, e non possiamo stupirci oggi se le donne sono diventate diffidenti. Diffidenti e spaventate: hanno cominciato a vedere orchi da tutte le parti e non vogliono fare più figli se questo deve servire solo a nutrirli.