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Aggiornamento dell’articolo “I bambini nati dalle tecniche di procreazione assistita”2020-03-31T15:37:03+02:00

Aggiornamento dell’articolo “I bambini nati dalle tecniche di procreazione assistita”

Maggio 2013

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Aggiungo questa nuova parte all’elenco degli studi sulla salute dei bambini nati da PMA con la convinzione che non si tratta ancora della valutazione conclusiva e che altri dati verranno pubblicati in avvenire, via via che le indagini si affinano e il numero di osservazioni e di nuovi nati aumenta. I dati ai quali mi riferisco sono stati pubblicati da un gruppo di studiosi australiani, guidati da Michael J.Davies, sul The New England Journal of Medicine (2012,366,1803-1813) e rappresentano il maggior contributo dato sinora alla conoscenza di questo problema.

L’articolo inizia ricordando che esiste una concordanza tra i numerosi studi dedicati all’argomento sul fatto che c’è una relazione tra le due principali tecniche di PMA e un aumento del rischio di malconformazioni alla nascita, un rapporto che è apparso più significativo per le nascite singole che per le gravidanze multiple. Non è invece del tutto chiaro se questo maggiore rischio di anomalie fetali alla nascita dipenda dalle tecniche o sia piuttosto correlato con problemi connessi con la sterilità dei pazienti e se il rischio abbia connessioni con le terapie mediche e le stimolazioni ormonali che vengono utilizzate nella maggior parte di questi trattamenti. Lo studio al quale mi riferisco riguarda un grande numero di bambini esaminati nei primi cinque anni di vita e prende in esame altresì le gravidanze interrotte  a causa dell’evidenza di una malconformazione e mette a confronto una popolazione di bambini nati da concepimenti naturali con diverse popolazioni di bambini nati da differenti terapie della sterilita; lo studio si riferisce anche al rischio di malconformazioni relativo a gravidanze insorte spontaneamente in donne che avevano avuto in precedenza un figlio a seguito di un trattamento e in donne che avevano iniziato la gravidanza senza far ricorso ad alcuna terapia, ma che avevano alle spalle una lunga storia di ipofertilità. Tutti questi dati venivano desunti dal registro delle PMA del South Australia. I ricercatori hanno potuto prendere in considerazione praticamente tutte le nascite, oltre 300 mila, e le interruzioni di gravidanza che si sono verificate dal gennaio 1986 al dicembre 2002 in una popolazione di 1,6 milioni di abitanti. Al termine del lavoro i ricercatori sono giunti alla conclusione che, in effetti, le probabilità di avere un figlio con malformazioni congenite di vario tipo aumentano quando si ricorre alla fecondazione assistita. Si verificano, infatti, in media nell’8,3% dei casi, contro il 5,8% registrato tra i bambini concepiti naturalmente.

L’aumento del rischio riguarda le paralisi cerebrali e le anomalie cardiache, dell’apparato muscolo-scheletrico, gastroenterico o genito-urinario, mentre non si è registrata una maggiore frequenza di sindromi di Down. Ma attenzione, precisano gli australiani: se si tiene conto di tutta una serie di caratteristiche materne, la differenza tra il numero di malformazioni nelle gravidanze in provetta e quelle spontanee la valutazione cambia per molte delle metodiche di fecondazione assistita. Per esempio, la differenza tra rischio di malformazioni in gravidanza assistita o naturale scende parecchio per la fecondazione in vitro (Fivet). È emerso, infatti, che il rischio di malformazioni dopo fecondazione assistita si avvicina a quello naturale se si tiene conto dell’età delle donne che si rivolgono a un centro specializzato, età che mediamente è avanzata, e se si tiene conto anche della presenza di fattori e di patologie che sono gli stessi che hanno portato alla necessità di rivolgersi alla fecondazione assistita. I ricercatori australiani segnalano, però, che restano due importanti eccezioni, per le quali il rischio malformazioni rimane comunque più alto rispetto a quello con concepimento naturale.

La prima eccezione riguarda una delle pratiche più avanzate: l’Icsi, cioè l’iniezione nella cellula uovo dello spermatozoo (che viene utilizzata nei casi più gravi di infertilità maschile) con la quale il rischio di malformazioni è risultato passare dal 5,8% delle gravidanze naturali al 9,9%. L’aumento di anomalie è probabilmente (ma non sicuramente) correlato all’infertilità maschile e quindi alla necessità di ricorrere a questo sistema, ma forse anche, almeno in parte, a limiti intrinseci al metodo, che dipende più degli altri dall’intervento del tecnico. In questo caso viene infatti a mancare la competizione naturale tra gli spermatozoi che cercano di penetrare nell’uovo: è l’operatore a sceglierne uno da inserire, e può fare la scelta sbagliata.

L’altra eccezione riguarda il primo passo che spesso compie una donna che non riesce a rimanere incinta: l’assunzione, a casa propria, di un farmaco che stimola l’ovulazione, il clomifene citrato: se il farmaco viene assunto con modalità e dosi inappropriate, dicono gli autori della ricerca, può arrivare a triplicare il rischio di malformazioni. Ultimo punto toccato dalla ricerca australiana: il congelamento degli embrioni. Secondo i ricercatori australiani, le gravidanze ottenute da embrioni congelati sono a minor rischio.

«Probabilmente perché solo gli embrioni più sani sopravvivono alla conservazione al freddo» è la loro spiegazione. E nelle gravidanze con embrioni congelati dopo Icsi l’aumento di malformazioni non è maggiore e quindi non sembrerebbe dipendere dalla tecnica (l’Icsi) impiegata. In conclusione, allora: sono le tecniche di procreazione assistita, o quanto meno alcune di esse, a favorire le malformazioni? Oppure il maggior rischio che le malformazioni si verifichino dipende dalle stesse condizioni che hanno portato la coppia dal medico? Secondo i ricercatori australiani, la seconda risposta sarebbe quella più corretta. E non solo per le ragioni riportate prima, «ma anche perché — aggiungono — dai nostri dati emerge che tra le donne che hanno concepito spontaneamente, ma in passato avevano avuto problemi di infertilità, la percentuale di anomalie tende ad aumentare». Segno, dicono, che le radici del problema, ovvero il maggior numero di malformazioni, sarebbero «a monte» dei trattamenti.

Resta comunque il fatto che la ricerca australiana documenta un aumento significativo di malconformazioni nei casi in cui si utilizza il metodo della microiniezione e non porta alcuna prova in favore dell’ipotesi che ciò sia dovuto al fatto che la ICSI si esegue (sarebbe meglio dire “si dovrebbe eseguire”) nei casi di sterilità maschile, un problema che è molto spesso connesso con cause genetiche, molte delle quali non ancora perfettamente conosciute. E’ dunque necessario che i medici che praticano questi trattamenti si chiedono se è giustificata l’attuale tendenza a eseguire Icsi anche nei casi in cui non esistono anomalie del seme e senza che si siano precedentemente verificati fallimenti della fecondazione in vitro, cosa molto evidente se solo si considerano le percentuali di Icsi eseguite attualmente in Italia che tendono a superare il 70% di tutte le PMA. In realtà, giustificazioni razionali a queste scelte non se ne conoscono: i dati del registro italiano non mostrano differenze significative fra le gravidanze ottenute con le due tecniche, e semmai parlano di un lieve vantaggio delle meno manipolative, cioè delle Fivet. La mia sensazione è che si stia riproducendo in Italia la stessa situazione che ha portato ad un uso spregiudicato delle Icsi anche negli Usa, dove conta molto il fatto che nei cicli in cui è stata usata la Icsi ci sono, è vero, un po’ di gravidanze in meno, ma si registra anche un minor numero di cicli nei quali non si riesce a trasferire nemmeno un embrione. A  detta dei medici americani – ma si tratta molto probabilmente di una conclusione corretta – nei casi in cui non si riesce a trasferire nemmeno un embrione la delusione (e spesso la rabbia) dei pazienti è tale che molti di loro non ritornano al centro per un ulteriore trattamento ma cambiano medico. Si tratta dunque di una scelta fatta su base esclusivamente economica e che grava interamente sui pazienti, del tutto inconsapevoli dell’esistenza di simili piccinerie.

La ricerca australiana ripropone il problema del trattamento con clomifene, un problema che i medici hanno sollevato più volte ma che non è mai stato risolto. In realtà esiste una letteratura molto concorde che afferma che le donne che ovulano non debbono essere trattate con clomifene perché il farmaco un questi casi ha modo di esercitare il suo effetto antiestrogenico solo sul muco cervicale: in altri termine la probabilità di concepire diminuisce. Anche in questi casi, ma è cosa nota da sempre, la somministrazione di questo farmaco non ha  alcuna motivazione razionale, e risponde solo alla necessità  di “parcheggiare” le coppie nei dintorni del proprio ambulatorio in attesa di poterle sottoporre a interventi realmente utili.