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Diritto di morire2020-03-31T12:24:13+02:00

Il diritto di morire

Dicembre 2008

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Esiste il diritto di morire, di rinunciare a esistere, quando proprio non ce la facciamo più e ammesso di non aver contratto debiti con la società? Esiste il diritto di chiedere a un medico, o a un amico, di aiutarci a compiere quel passo? E dopo che avremo abbandonato il nostro corpo, dal momento stesso in cui non lo abiteremo più, e la vita in lui non avrà altro scopo di quello di far crescere la barba e stimolare la contrazione dell’intestino, avremo ancora il diritto – noi per averlo lasciato scritto da qualche parte, le persone che ci hanno voluto bene per rispettare i nostri ultimi desideri – di imporre ai medici di smetterla di torturare inutilmente quel povero guscio vuoto e di lasciare che si spenga in lui anche l’ultima, inutile scintilla di vita biologica? Come tutti sapete c’è, su questi temi, una discussione acida e sgradevole; come sapete, questa discussione avviene tra chi sventola la bandiera dei diritti e chi agita lo stendardo degli interessi politici e appoggia le posizioni della religione di stato, non per convinzione, ma per mero calcolo. Ignobile ma vero.

Credo che si possa partire da un dato di fatto: la domanda di eutanasia è cresciuta via via che si sono modificate le circostanze del morire ed è per questo che l’etica medica è dovuta tornare a ragionare di temi sui quali sembrava fosse stato ormai detto tutto, si è dovuta rendere conto del fatto che le risposte tradizionali erano largamente insufficienti.

Credo che la parola eutanasia sia stata usata per la prima volta da Svetonio, che ne parlava riferendo il desiderio di Augusto di andare incontro a una morte serena e priva di sofferenza. Ma somministrare una morte pietosa a chi soffre è abitudine antica. Negli eserciti greci e in quelli romani c’era sempre un medico – o comunque un uomo che sapeva di medicina – che dopo le battaglie andava sul campo a verificare le condizioni dei feriti e dei moribondi e, con uno scalpello e un martelletto, causava una lesione mortale del midollo spinale, alla base del cranio, ogni qual volta si rendeva conto che per quel ferito non c’era speranza di sopravvivenza ma solo certezza di dolore e sofferenza. Gli storici raccontano che questi “portatori di morte” erano trattati con rispetto e deferenza dai soldati, che apprezzavano questi atti di pietà.

Bacone scriveva che i medici avrebbero dovuto imparare l’arte di aiutare gli agonizzanti a uscire da questo mondo con maggiore dolcezza e serenità, e nei secoli molti filosofi hanno giudicato criticamente il giuramento di Ippocrate.

Eppure, un tempo la morte arrivava rapidamente, sia perché sopraggiungevano complicazioni delle malattie che i medici non sapevano trattare, sia perché nessuno, in realtà, la contrastava. Il vitalismo medico era certamente velleitario, nella maggioranza dei casi il malato decedeva a casa sua, non sempre dolcemente e quietamente, certo, ma di solito molto rapidamente.

Nel 1928 Giuseppe Del Vecchio pubblicò un libro intitolato “Morte benefica” nel quale si schierava in favore della liceità degli interventi di eutanasia, ma nella prefazione Tullio Murri si chiedeva se valesse effettivamente la pena introdurre nell’ordinamento giuridico una norma tanto discutibile e controversa per evitare ai moribondi una sofferenza di poche ore o di pochissimi giorni. E’ però vero che nel 1903 moltissimi medici americani, riuniti in un congresso di oncologia, avevano chiesto l’eutanasia attiva per i malati di cancro terminali.
Oggi, nei paesi occidentali, oltre l’80% delle morti si verifica in Ospedale e le condizioni del morire sono cambiate in modo straordinario rispetto al passato. Essendo in grado di sostituire le funzioni di organi essenziali per la sopravvivenza del corpo – per quella della persona il problema è diverso – la medicina moderna si è messa in grado di controllare tempi e circostanze del morire. Le cose sono dunque cambiate. In meglio?

Certamente oggi possiamo fare molto per prolungare la vita di una persona, anche si tratta di una vita che non promette più niente e che, secondo quella specifica persona, non vale la pena di essere vissuta. La medicina deve affrontare, però, nuovi problemi, alcuni dei quali sono persino difficili da definire. Ci si chiede soprattutto: è possibile governare l’enorme potere che la medicina certamente possiede e che si manifesta nei suoi interventi sul processo del morire al solo scopo di evitare che questo potere privi il paziente del suo diritto di morire con dignità?

Le risposte sono molte, non tutte in grado di raccogliere consensi. C’è chi ritiene che sia arrivato il momento di rinunciare alla tecnologia, che è poi all’origine del problema. C’è chi si limita a chiedere regole per fermarla là dove cessa la possibilità di assicurare al paziente una condizione di vita decorosa e compatibile con lo stato della malattia, cioè nel momento in cui sta per trasformarsi in un inutile accanimento sul corpo e sulla persona del paziente. Ma se poniamo dei limiti è necessario stabilire regole che impediscano di superarli. Quali? Tutti concordano nel considerare invalicabile il limite dell’accanimento terapeutico, ma poi i criteri per definirlo non sono condivisi, e questo sarà il tema dominante nella prossima discussione parlamentare sul testamento biologico.

I giuristi pongono naturalmente molta attenzione al tipo di eutanasia al quale si fa ricorso, altro è parlare di un’eutanasia attiva, altro è ragionare di un’eutanasia passiva, cioè della sospensione di un trattamento che mantiene in vita un malato: in questo ultimo caso si tratta di un atto omissivo, la causa della morte di quel soggetto sarà la malattia, non la condotta del medico o dell’amico. Ma anche nel caso di eutanasia passiva bisogna saper distinguere gli eventi nei quali è stato comunque necessario un intervento – staccare una spina, togliere una fleboclisi – da quelli nei quali si è più semplicemente deciso di interrompere le cure prestate fino a quel momento, e bisogna distinguere tra i casi in cui la decisione è stata tutta del medico e quelli in cui è il paziente a richiedere la sospensione del trattamento. Non c’è bisogno che ricordi che nel nostro Paese l’eutanasia è vietata e configura il reato di omicidio, ma che alla faccia di tutte le leggi moltissimi medici sono disponibili a eseguire interventi di eutanasia indiretta, somministrando quantità di farmaci – usualmente antidolorifici – così elevate da avere come effetto secondario quello di anticipare la morte. Naturalmente, solo se esiste la garanzia che il loro gesto di compassione passi inosservato.

Esiste su questi temi un conflitto aperto e i valori che si confrontano sono sin troppo evidentemente inconciliabili: il valore della vita umana, nell’accezione nella quale essa risulta indisponibile anche al suo titolare, e il valore dell’autonomia della persona, cui sono legati la libertà di poter autonomamente disporre del proprio corpo e il diritto di governarsi da sé nella sfera delle scelte personali. Entrambi i valori sono stati eretti a principi morali definiti, in questo contesto, come “ criteri di giustificazione delle credenze morali”. Ogni principio consiste in un’affermazione generale su ciò che ha valore e su ciò che si deve fare e può scaturire da una teoria morale di riferimento, nel senso di rappresentare i cardini in base ai quali una certa teoria morale viene costruita, oppure riassumere una gamma di principi o di preoccupazioni morali, oppure ancora indicare radici differenti per la giustificazione delle preoccupazioni morali nel campo dell’assistenza sanitaria.

Secondo il principio dell’inviolabilità della vita il valore della vita umana è assoluto e speciale in sé, indipendentemente dalla sua qualità e dalla possibilità di poterla apprezzare e senza dare alcun peso ai desideri delle persone viventi. La versione religiosa di questo principio pone la questione in termini di sacralità della vita, dal concepimento alla sua fine naturale (e qui cosa significhi naturale alla luce dei progressi della medicina è tutto da stabilire). La vita dell’uomo è sacra in quanto egli è stato fatto a immagine e somiglianza di Dio, quindi possiede una propria irriducibile dignità, che conferisce un senso intrinseco alla vita e le dona una specifica sacralità. Questa dignità diventa un carico da portare per sempre, un fardello da sommare alle piaghe da decubito, al vomito e alla diarrea indotti dalla chemioterapia, alla paralisi di un corpo ridotto a brandelli e di una mente devastata dal dolore, ai clisteri, ai sondini, ai cateteri, mi sembra che al confronto impallidisca l’immagine delle celle nelle quali i tedeschi torturavano i patrioti. Comunque alla percezione soggettiva che ognuno ha della sua dignità personale non viene dato alcun peso.

Dunque, per il Magistero cattolico la vita umana è inviolabile e dio ne è l’unico signore, l’uomo non può disporne e tutto ciò è legato al principio dell’assoluto, i valori assoluti, i principi assoluti, i divieti assoluti, un principio che non ammette eccezioni. In realtà se questi principi si svincolano dalla dimensione religiosa e vengono considerati solo nella loro dimensione razionale diventano molto incerti e, diciamolo, poco credibili. Solo i dogmi fideistici rendono accettabile questa visione del mondo: verrebbe da dire, ascoltando il buon senso, che la sacralità della vita dovrebbe essere interpretata come protezione della vita in senso biografico e non come tutela della sopravvivenza biologica. Per molti di noi essere vivi ha importanza solo se costituisce la possibilità di avere una vita, in assenza di una vita cosciente è indifferente vivere o morire.

L’etica medica si è formata in un’epoca nella quale il medico poteva far ben poco per i suoi pazienti, ma sapeva che quel poco andava fatto, a tutti i costi. Molte delle resistenze dei medici nei confronti delle varie forme di eutanasia si rifanno al vitalismo medico, che aveva assunto un’importante valenza morale a partire dal 700 con il pensiero di Sthal, professore nell’Università di Halle, e aveva stabilito, come obiettivo fondamentale dell’intervento sanitario il mantenimento in vita del paziente. Nella metà del secolo scorso il vitalismo era divenuto il paradigma guida di gran parte dei medici italiani, impegnati nella conservazione del flusso vitale, della vita che attraversa il paziente. L’acerrima nemica era dunque la morte, la vita era considerata in senso astratto, indipendentemente dalla peculiarità delle sue manifestazioni. Il vitalismo non aveva in cura le persone, ma la vita in sé. Questa filosofia non ha più giustificazioni, la medicina non è più impotente, eppure qualcosa dell’antico vitalismo medico si respira ancora nell’aria degli ospedali.
Al polo opposto, il principio morale di riferimento è quello di autonomia o di autodeterminazione del paziente, la capacità di scegliere razionalmente la propria condotta, di imporre un certo corso alle proprie azioni e ai propri desideri, di disporre dei propri sentimenti e delle proprie inclinazioni, attraverso un volere capace di indirizzarli alla luce di una visione ideale di sé, alla ricerca di quella particolare identità che ognuno di noi desidera realizzare.

Nel Manifesto di bioetica laica, alla cui stesura ho collaborato più di dieci anni or sono insieme a Massarenti, Mori e Petroni, si può leggere: “ogni individuo ha pari dignità e non debbono esistere autorità superiori che possano arrogarsi il diritto di scegliere per lui nelle questioni che riguardano la sua salute e la sua vita”. Dunque l’autonomia è il punto centrale della riflessione bioetica sull’uomo, il principio che ispira e legittima il consenso informato: è da questo principio che nasce la richiesta ai medici di considerare sempre prioritarie le richieste dei loro malati, è questo principio che deve essere considerato guida e cardine della riflessione bioetica sull’uomo, anche perché è quello che ispira e legittima il consenso informato.

Ha scritto recentemente Giovanni Boniolo che è necessario distinguere vita da esistenza e inizio e fine della vita da inizio e fine dell’esistenza. Cambiano evidentemente i livelli di analisi: descrittivo quello che riguarda la vita, assiologico quello che concerne l’esistenza.

Il quesito fondamentale, la domanda che prima o poi tutti gli uomini si pongono, è a chi appartenga la vita e a chi appartenga l’esistenza. Se si tiene conto del diverso significato dei due termini, la vita non è di nessuno: stabilire a chi appartenga l’esistenza dipende dal punto di vista da cui le si attribuisce valore. Ci sono vite cui non attribuiamo il valore di esistenza e non ci interessa il loro destino. Ci sono vite alle quali attribuiamo valore ed è a seconda della quantità di questo valore che ci preoccupiamo del loro destino.
Personalmente, da uomo laico, sono soprattutto interessato alla possibilità di essere libero di esistere, perché da questa discendono altre libertà, come quella di scegliere la mia morte, cioè la fine della mia esistenza, cioè ancora la fine della mia vita personale. Certamente non può essere un caso che io la pensi così: il problema fondamentale nella vita di un uomo laico è comunque e sempre la libertà, perché in fondo la laicità rappresenta l’atteggiamento intellettuale di chi considera primaria la libertà di coscienza, intesa come libertà di credenza, conoscenza, critica e autocritica.

Dunque, il quesito fondamentale resta sempre lo stesso: a chi appartiene la nostra esistenza, domanda certamente non oziosa, che chiama subito in causa il problema della religione, un problema destinato inevitabilmente a dividerci. Se l’esistenza è nostra, se è nostra la nostra vita, abbiamo il diritto di farne ciò che vogliamo, indipendentemente da quanto pensano gli altri e nei limiti che ci sono imposti dal fatto di vivere in una comunità e di aver potuto contrarre debiti con gli altri.

Non sono assolutamente d’accordo con chi afferma che la vita è un bene indisponibile e che è illegittimo ogni esercizio di libertà che porti alla negazione dell’identità personale. Indisponibili sono i diritti che riguardano elementi per i quali lo Stato può dimostrare interesse prevalente, ma non esiste da nessuna parte un elenio dei diritti indisponibili, poiché i mutamenti delle abitudini sociali modificano continuamente i criteri che vengono seguiti per indicarli. Perché poi uno Stato possa indicare l’esistenza di una tale indisponibilità e pretendere che se ne tenga conto deve essere assortamente privo di debiti nei confronti dei cittadini, è molto noto, a questo proposito l’esempio della non liceità di disporre del proprio corpo, che esige una assoluta equità dei Governi. Gran parte dei criteri in questione, poi, hanno a che fare quasi esclusivamente con ragioni di fede, mancano di una vera razionalità e godono di scarso rispetto da parte dei cittadini. Circa poi l’opinione di quanti ritengono che la rinuncia alla vita, in qualsiasi momento venga richiesta, esprimendo una negazione della propria identità dimostri povertà umana ed esistenziale, questi mi sembrano francamente sofismi, oltretutto irrispettosi e crudeli. La scelta del modo di morire e del momento di farlo ha a che fare con la propria dignità, un valore assoluto e una ricchezza umana ed esistenziale irrinunciabile, qualcosa di talmente personale da non ammettere valutazioni critiche – immaginate poi insegnamenti e consigli – da parte degli altri. Oltretutto, il concetto di dignità applicato alla propria morte dipende grandemente da come abbiamo interpretato e realizzato la dignità della nostra esistenza, è una sorta di cenestesi dello spirito che indica una nobiltà morale che ha diritto al massimo rispetto da parte di tutti, legislatori compresi.

Se l’esistenza non è nostra, se ci è stata donata, se dobbiamo comunque risponderne a qualcuno, allora le regole alle quali siamo tenuti ad attenerci sono evidentemente diverse. Siamo di nuovo di fronte a definizioni differenti: la morte è la fine della vita o è invece in modo più complesso un passaggio? Da questo primo quesito ne discende immediatamente un secondo: cosa è la cosa più importante della nostra esistenza, quella alla quale attribuiamo il maggior valore? E’ la vita in sé, perché sacra e inviolabile e dobbiamo perciò rispettarla e accettarla comunque sia, qualsiasi cosa ci faccia, senza neppure poter ritenerla responsabile delle nostre sofferenze? O possiamo apprezzarla diversamente, valutandola e giudicandola proprio in rapporto a quanto ci concede? E cosa ci aspettiamo da lei per poter assegnarle un valore? Dignità? Qualità? E’ una scelta difficile, che in alcune circostanze può divenire drammatica. La vita di un bambino nato con una malattia che altro non gli concede e altro non gli concederà se non sofferenza, vale la pena di essere vissuta? Nelle stesse condizioni, la mia vita, alla quale la malattia può aver tolto tutta la dignità di cui disponeva, vale la pena di essere continuata? E questo merita una doppia precisazione: la prima che la misura della dignità compatibile con l’esistenza è assolutamente soggettiva; la seconda che è molto più difficile intervenire sulla perdita di dignità che su quella del benessere fisico.

Vorrei anzitutto ricordare a tutti che il concetto di dignità, quello che ognuno di noi intende per dignità, è assolutamente personale, non ci può essere insegnato dagli altri.

L’origine della parola è oscura, ricalca tra l’altro la parola greca assioma, che aveva un duplice significato. In modo molto generico indica una condizione di nobiltà morale nella quale l’uomo si trova soprattutto in ragione della sua stessa natura umana e insieme fa riferimento al rispetto che per tale condizione gli è dovuto dagli altri e che egli deve a se stesso. Ma si può pensare alla dignità anche come una sorta di cenestesi dello spirito, ci rendiamo conto di averne una e riusciamo finalmente a valutarne l’importanza nel momento in cui viene ferita o minacciata. Che cosa poi ciascuno di noi intenda per dignità del morire dipende grandemente da come abbiamo interpretato e realizzato la dignità della nostra esistenza. Immaginate un uomo che per tutta la sua vita si è adoperato perché ai suoi cari giungesse una certa immagine di sé, e che questa immagine abbia cercato di rivestirla sempre e soprattutto di dignità. Il pensiero di vedersela strappare di dosso, questa veste misericordiosa, nel momento della sua morte, l’idea di lasciare ai figli e alla moglie come ultima immagine quella di un uomo privo di un qualsiasi controllo sul proprio corpo, completamente affidato agli altri, soffocato dal proprio vomito, sepolto dalle proprie feci, annegato dalle proprie urine, può essere intollerabile proprio perché incompatibile con il suo senso della dignità. Voi, nel nome di un dio al quale probabilmente lui ha smesso di credere o non ha mai creduto, potrete proibirgli di andarsene in un modo più decoroso e rapido, ma non potrete impedirgli di maledirvi.

Il secondo problema riguarda la possibilità di trovare mediazioni utili su questi temi così difficili e complessi. Io credo che gli interlocutori esistano e siano le persone religiose che riescono a discutere sulla base di principi razionali e laici, rinunciando all’idea di essere assistiti da una verità che sta dietro di loro e che illumina loro la strada. A queste discussioni non possono partecipare preti, sacerdoti e cultori della metafisica, poiché l’esistenza di un dio, che è l’unico sostegno delle loro ipotesi, è una tesi interessante ma impossibile da dimostrare e rimarrà per sempre, per molte persone come me, una romantica menzogna.

L’eutanasia riguarda, almeno in linea di principio, persone gravemente ammalate, senza ragionevoli speranze di migliorare e guarire, afflitte da terribili sofferenze o gravate da altrettanto dolorose sensazioni di perdita della propria dignità, che sono però generalmente coscienti e consapevoli e comunque in grado di comunicare agli altri le proprie scelte razionali. Questa seconda parte dell’articolo riguarda però persone che questa possibilità di comunicare l’hanno perduta e giacciono in uno stato di incoscienza. Si tratta dunque di ragionare sull’irreversibilità di questa privazione della coscienza e della capacità di comunicare e, insieme, di chiederci come consentire a un comune cittadino, che ha idee molto precise sulle cure e sui trattamenti che è disposto a ricevere e a subire e sa di poter imporre le proprie scelte ai medici finché è in grado di comunicare con loro, di veder rispettate le proprie scelte anche se non riesce a comunicarle ai sanitari perché è giunto incosciente in ospedale.

Lo stato vegetativo permanente appartiene alla famiglia allargata dei coma, definita anche degli stati neurobiologici a basso livello; forse il meno compreso e il più controverso disturbo della coscienza, segue in genere uno stato di coma causato da una grave lesione. E’ una condizione nella quale manca completamente la coscienza di sé e dell’ambiente , accompagnata dal mantenimento del ritmo sonno – veglia mentre sono mantenute, in modo completo o parziale, le funzioni autonomiche.

Esistono condizioni patologiche affini per le quali è necessaria una valutazione differenziale e che causano un tasso elevato di errori diagnostici: la sindrome di deafferentazione (locked-in syndrome), un’apparente condizione di coma in cui le lesioni subite interrompono le vie motorie e le vie di comunicazione che dagli emisferi arrivano alle cellule nervose che innervano i muscoli periferici. Lo stato di coscienza viene mantenuto in quanto il sistema reticolare attivatore non è intaccato, per cui il paziente ha piena percezione di sé e dell’ambiente e le funzioni cognitive e intellettive rimangono integre. Il danno non riguarda diffusamente la corteccia ma il tronco encefalico. Di questa sindrome esistono diverse forme classificate a seconda del tipo di movimenti volontari residui.

Lo stato minimamente responsivo, o minimally conscious state, è uno stadio intermedio tra lo stato vegetativo e la condizione di piena coscienza. Può essere transitorio o permanente. Ci sono limitati e intermittenti segni di consapevolezza e i soggetti riescono a compiere ogni tanto alcune semplici azioni, come rispondere a un comando e anche comunicare con parole semplici. Queste persone possono provare dolore e sofferenza e avere qualche consapevolezza della propria immobilità, della dipendenza dagli altri, della perdita del controllo degli sfinteri.

Lo stato vegetativo è stato descritto per la prima volta da Kretschner nel 1940, come uno stato post- comatoso in cui il paziente, apparentemente vigile, non è cosciente. Kretschner chiamò questa condizione sindrome apallica, la parola vegetativa è stata utilizzata per la prima volta da Arnaud nel 1963 con l’espressione “vie vegetative” e qualche anno dopo da Troupp come “sopravvivenza vegetativa”

L’espressione stato vegetativo persistente è del 1973 (fu suggerita da Fred Plum, un neurologo americano, e da Bryan Jennet, un medico scozzese) per descrivere una nuova sindrome che sembrava comparire grazie alla possibilità della medicina moderna di mantenere in vita il corpo dei pazienti che avevano subito gravi lesioni encefaliche. Plum constatò che non erano necessarie gravi o estese lesioni corticali e che la corteccia poteva essere totalmente disattivata senza essere strutturalmente danneggiata: esisteva invece molto spesso un danno irreversibile della sostanza bianca o del talamo.

Ecco la sua descrizione: il paziente ha gli occhi aperti o li apre dopo intensa stimolazione nervosa, mostra movimenti oculari erratici, ma non di inseguimento, muove gli arti, ma non intenzionalmente, emette suoni, ma non parole. Sono presenti alcuni atti motori involontari (il paziente cerca di afferrare oggetti inesistenti, mostra i denti in una sorta di trisma facciale) ma riesce a masticare e a deglutire. Ecco insomma cosa accade: in linea di massima le attività cognitive e vegetative, da sempre connesse tra loro – e che alla morte vengono meno tutte insieme – si dissociano; le funzioni vegetative, quelle necessarie alla sopravvivenza dell’organismo, vengono ripristinate e mantenute mentre gli apparati sensitivo, cognitivo e motorio perdono, in alcuni casi definitivamente, la loro funzionalità. Insieme all’abolizione della coscienza viene meno la possibilità di relazione interiore con se stessi e con l’ambiente.

Forse è bene ricordare che per coscienza si intende la presenza contemporanea di almeno due componenti, e cioè:

  • la vigilanza, lo stare ad occhi aperti, lo stato di veglia
  • la consapevolezza, l’insieme delle funzioni cognitive e affettive, delle attività mentali che occupano in un determinato momento la mente (il contenuto).

La vigilanza è necessaria per la manifestazione dei contenuti, nel senso che è necessario superare la soglia della veglia per esplicare e assorbire contenuti. Nello stesso tempo essa può essere presente senza alcun contenuto esplorabile della coscienza.
Entrambe le componenti, vigilanza e consapevolezza, sottintendono un substrato anatomo-funzionale perché i processi cerebrali necessari per un’attività cosciente siano realizzabili. Se questi vengono meno, si determinano patologie diverse a seconda della parte traumatizzata. Nello stato vegetativo persistente il tronco, o meglio il sistema reticolare che presiede alla funzione della vigilanza, rimane integro mentre la connettività tra aree cerebrali normalmente interconnesse viene meno, come vengono meno le interazioni tra talamo, corteccia e tronco, responsabili dei contenuti di coscienza. Lo stato vegetativo persistente è una interconnession syndrome, possono esistere solo isole di attività neuronale isolate, che non consentono però uno stato di coscienza.

Esistono altre proprietà dello stato di coscienza:

  • la possibilità di avere relazione con il mondo (però nella locked in syndrome questa capacità risulta persa senza che la coscienza ne risulti alterata);
  • la memoria, il raffronto continuo tra esperienze passate e i dati sensoriali appena acquisiti;
  • l’attenzione selettiva, la volontaria concentrazione della coscienza su uno stimolo.E’ difficile verificare in alcuni casi fino a che punto la coscienza sia soppressa, e se lo sia definitivamente, ma si conviene che la persistenza di isolati focolai di attività corticale, anche se associati con alcuni schemi comportamentali stereotipati, non indicano la persistenza di un livello anche minimo di coscienza. Insomma per essere coscienti non è sufficiente avere alcune parti anatomiche isolate che accidentalmente reagiscono agli stimoli, ma serve l’interazione complessa di diverse sezioni encefaliche.
    I medici sono da tempo giunti a un consenso per quanto riguarda le condizioni necessarie perché si possa perfezionare la diagnosi di stato vegetativo persistente:
  • nessuna consapevolezza di sé o dell’ambiente:
  • incapacità di interagire;
  • nessuna evidenza di comportamenti riproducibili, finalizzati o volontari in risposta a stimoli uditivi, tattili o dolorosi;
  • nessun segno di comprensione o espressione verbale;
  • uno stato di intermittente vigilanza compatibile con il ritmo sonno veglia;
  • il parziale mantenimento delle funzioni del tronco e dell’ipotalamo sufficienti a garantire la sopravvivenza in presenza di cure mediche;
  • incontinenza;
  • variabile conservazione delle risposte riflesse dei nervi cranici.

Il primo problema da risolvere in caso di stato vegetativo è quello della sua irreversibilità: se ci fossero probabilità reali di vedere il malato tornare alla piena ( o anche solo alla parziale) coscienza, evidentemente si dovrebbe avere per la sua sopravvivenza tutta l’attenzione possibile. La medicina non ha però, per questo quesito, risposte sicure, parla solo in termini di probabilità statistica: ma sapere che dopo un lungo periodo di permanenza in questa condizione non sono mai stati descritti casi di ripristino della coscienza, non può essere trascurato. D’altra parte la medicina è una disciplina empirica, che si fonda su un numero trascurabile di certezze e su molti consensi, che rappresentano l’opinione comune delle persone più esperte su un determinato argomento, un’opinione che può cambiare con col progresso delle conoscenze ma che deve essere accettata come unica verità alla quale è possibile accedere fino a quando il consenso rimane valido.

Immaginiamo adesso di lavorare in un istituto di neurologia e di avere ricoverato un paziente che è, da un certo periodo di tempo, in uno stato neurovegetativo persistente. Ammettiamo di trovarci di fronte a un caso in cui il tempo trascorso in condizioni di incoscienza, il tipo di lesioni, gli accertamenti strumentali tutti, ci confermano nella quasi assoluta certezza che per quella persona non esiste la possibilità di un recupero. E, per intenderci, quello che è successo nel caso di Eluana Englaro.

Immagino che in una situazione siffatta dovremmo chiedere ai parenti e agli amici più cari del paziente se lo avevano mai sentito esprimersi su questo argomento, se aveva mai dichiarato, quando poteva farlo, la propria indisponibilità alle cure mediche nel caso fosse stato evidente che si trattava di interventi inutili, rivolti solo a mantenere in vita il suo corpo dopo che tutto quello che faceva di lui una persona – intelligenza, sensibilità, capacità di comunicare e di entrare in relazione con il mondo, dite voi- se ne era andato per sempre. E immaginate di scoprire che sì, in effetti, quel paziente aveva dichiarato, più volte, di voler rifiutare, in quelle condizioni, ogni specie di trattamento e di cura.

Alla fine delle vostre indagini, dunque, vi trovate a dover gestire un corpo che è stato abbandonato dalla persona che lo ha abitato a lungo, un corpo nel quale tutte le cellule sono in grado di sopravvivere, ma che è ormai e per sempre privo di intelligenza, coscienza, sensibilità, di tutto quello per cui le persone che ora piangono fuori dalla porta gli hanno voluto bene, lo hanno amato e apprezzato. E quella persona che se ne è andata per sempre vi invia anche, tramite i suoi amici, il suo ultimo messaggio, la sua ultima richiesta: rispetta il mio povero involucro, lascialo morire in pace.

Credo che una gran parte di noi, in queste circostanze, non avrebbe perplessità, saprebbe chiaramente come comportarsi. Nella realtà e nella pratica, però, non è così, e la maggioranza dei medici si ritiene obbligata a mantenere in vita quell’involucro, per permettere all’intestino di avere la sua peristalsi, alla barba di crescere, ai reni di filtrare urina.

Sul problema dello stato vegetativo e delle dichiarazioni anticipate di trattamento il Comitato Nazionale per la Bioetica si è espresso due volte, prima con una dichiarazione di ordine più generale, che è stata ampiamente condivisa, poi con un secondo documento relativo quasi esclusivamente al significato bioetico dell’alimentazione e dell’idratazione artificiali, che è stato invece oggetto di molte critiche da parte della componente laica. E’ di questo secondo documento che conviene discutere, anche alla luce del progetto di legge sul testamento biologico che certamente verrà fatto approvare dalla maggioranza in Parlamento.

Questo documento esordisce con una descrizione dello stato vegetativo persistente che non differisce da quella che ho dato nelle pagine precedenti. Sottolinea che il problema etico è dato dalla dipendenza di queste persone da altre; dice ancora che non sono necessarie tecnologie sofisticate costose e di difficile accesso, che questi “pazienti” hanno bisogno solo di cura, intesa non solo come terapia ma soprattutto di care: essi hanno il diritto di essere accuditi, e perciò richiedono una assistenza di altissimo contenuto umano e di modesto contenuto tecnologico.

Secondo il documento non sono né le probabilità di guarigione né la qualità della patologia a giustificare la cura che trova la sua ragion d’essere nel bisogno che il malato ha, come soggetto debole, di essere accudito.

Ciò che va garantito a queste persone è il sostentamento ordinario di base, la nutrizione e l’idratazione, per via naturale o artificiale. Queste attenzioni non rappresentano né un atto medico né un possibile accanimento terapeutico Interromperle rappresenta, da un punto di vista umano e simbolico, un crudele atto di abbandono del malato.

In questa attenzione esiste dunque una valenza umana che è un segno della solidarietà nel prendersi cura del più debole: si tratta di sollecitudine per l’altro. Sospendere alimentazione e idratazione si configura come vera eutanasia omissiva, intervento illecito sia eticamente che giuridicamente. Dunque, la vita umana è un bene indisponibile, indipendentemente dalla percezione della qualità della vita, dell’autonomia e della capacità di intendere e di volere; qualsiasi distinzione tra vita degna e vita indegna di essere vissuta è arbitraria, non potendo la dignità essere attribuita in modo variabile in base alle condizioni di esistenza; l’idratazione e l’alimentazione artificiali sono sostentamento vitale di base la cui sospensione è lecita soltanto quando si configuri autentico accanimento terapeutico ed è invece illecita quando viene effettuata sulla base delle percezioni che altri hanno della qualità di vita del paziente.

Si sono dichiarati contrari a questo documento tredici membri del CNB che hanno anche firmato una postilla di dissenso, che riporto qui di seguito integralmente. La ragione di questa scelta è dovuta al fatto che le postille di dissenso, che pur dovrebbero avere peso e significato nella discussione sui temi della bioetica in quanto corrispondono al parere della componente laica del Comitato, vengono generalmente ignorate in tutte le sedi nelle quali la discussione trova, in proseguo di tempo, la sua naturale collocazione”.

Rammaricandosi per il fatto che non sia stato possibile perseguire fino in fondo la via della redazione di un documento unico anche se non unitario, i Proff. Mauro Barni, Luisella Battaglia, Cinzia Caporale, Isabella Maria Coghi, Lorenzo D’Avack, Renata De Benedetti Gaddini, Carlo Flamigni, Silvio Garattini, Laura Guidoni, Demetrio Neri, Alberto Piazza, Marco Lorenzo Scarpelli, Michele Schiavone, si esprimono favorevolmente rispetto all’ipotesi di sospensione dell’idratazione e della nutrizione a carico di pazienti in SVP, in determinate circostanze e con opportune garanzie. Gli stessi Professori dichiarano quindi il proprio voto contrario al Documento approvato dalla maggioranza dei Componenti del CNB, motivando tale scelta con le seguenti considerazioni.

1. Tralasciando i primi tre paragrafi del Documento che, opportunamente modificati nella discussione svoltasi nella seduta plenaria del 16 settembre, sono condivisibili in quanto descrizione del quadro clinico denominato “stato vegetativo” (par.2) e introduzione al tipo di problemi da affrontare (par.3), un primo punto di dissenso riguarda il contenuto dei paragrafi 4-5-6 e 7, in particolare relativamente alla tesi secondo cui l’alimentazione e l’idratazione artificiali non possono essere considerati trattamenti medici in senso proprio.
A tal riguardo, occorre sottolineare con forza che esiste una tendenza ormai costante, e sempre più diffusa nella comunità scientifica nazionale e internazionale, a favore della tesi inversa, ovvero che l’alimentazione e l’idratazione artificiali costituiscano a tutti gli effetti un trattamento medico, al pari di altri trattamenti di sostegno vitale, quali, ad esempio, la ventilazione meccanica. Ventilazione meccanica che viceversa il Documento ritiene inopportuno evocare come elemento di paragone: quasi che fornire meccanicamente aria a un paziente che non può assumerla da sé, non fosse altrettanto “indispensabile per garantire le condizioni fisiologiche di base per vivere”, quanto, secondo il Documento, lo è il fornirgli alimentazione e idratazione artificiali.

2. Sono, queste ultime, trattamenti che sottendono conoscenze di tipo scientifico e che soltanto i medici possono prescrivere, soltanto i medici possono mettere in atto attraverso l’introduzione di sondini o altre modalità anche più complesse, e soltanto i medici possono valutare ed eventualmente rimodulare nel loro andamento; ciò anche se la parte meramente esecutiva può essere rimessa – come peraltro accade per moltissimi altri trattamenti medici – al personale infermieristico o in generale a chi assiste il paziente. Non sono, infatti “cibo e acqua” – come affermato dal Documento – a essere somministrati, ma composti chimici, soluzioni e preparati che implicano procedure tecnologiche e saperi scientifici; e le modalità di somministrazione non sono certamente equiparabili al “fornire acqua e cibo alle persone che non sono in grado di procurarselo autonomamente (bambini, malati, anziani)” (par.7). Questo linguaggio altamente evocativo ed emotivamente coinvolgente, del quale i paragrafi in esame sono intessuti, è finalizzato a sostenere la tesi del “forte significato oltre che umano, anche simbolico e sociale di sollecitudine per l’altro” (par.7) rivestito dalla somministrazione, anche per vie artificiali, di “cibo e acqua”. Tuttavia, di nuovo, resta incomprensibile – nel senso che nel Documento non viene fornita alcuna motivazione in proposito – perché nello stesso contesto si sostenga che “tale valenza non riguarda ad esempio la respirazione artificiale o la dialisi”. In un’etica dell’aver cura non può essere discriminante la natura più o meno tecnologica dei trattamenti: qualunque trattamento medico o non medico, anche il più banale, può e dovrebbe rivestire la valenza della sollecitudine per l’altro.

3. In ogni caso, pur tenendo fermo che se si ragiona sulla natura di questo o quel trattamento non si possono ignorare i pareri delle società scientifiche, chi sottoscrive questa nota integrativa al Documento sottolinea che il giudizio sull’appropriatezza bioetica di tali trattamenti dipende soltanto in parte – o persino affatto, come sostengono alcuni tra gli scriventi – dalla loro catalogazione come trattamenti medici, come del resto in una certa misura ammette lo stesso Documento nella frase che chiude il par.

4. Potrebbe forse dipendere da tale catalogazione la soluzione di problemi medico-legali e deontologici, ma non ne dipende certo, e comunque non automaticamente, il giudizio di appropriatezza bioetica, il quale – esattamente come nel caso di qualunque altro trattamento – deve prendere in considerazione altri fattori. Tra questi: la condizione in cui versa il paziente e la concezione della propria vita che il paziente stesso può aver manifestato, in varie forme, prima dell’ingresso in SVP.
Non si tratta di formulare giudizi o di ammettere “giudizi di altri” – come paventato dal Documento – sulla “qualità della vita attuale e/o futura” di questi pazienti, ma, al contrario, di esplorare la possibilità di ricostruire il giudizio che il paziente stesso avrebbe formulato circa la propria condizione, oppure di verificare quali preferenze il paziente stesso abbia esplicitamente e chiaramente espresso sotto forma di direttive anticipate. Le due diverse strade si aprono a seconda del principio bioetico cui si fa riferimento: in Gran Bretagna, ad esempio, si punta in genere a stabilire se la permanenza in quella condizione sia nel “miglior interesse” del paziente; mentre negli USA viene considerato prevalente l’interesse del rispetto dell’autonomia del paziente, anche nel caso in cui egli non possa più esercitarla in modo attuale. Queste e altre possibili vie possono essere seguite per trovare soluzioni umanamente accettabili a queste drammatiche situazioni. I firmatari della presente nota integrativa si augurano che il CNB riesamini la tematica, la cui analisi è già iniziata nel precedente mandato, trattandosi di questioni che richiedono ben altro approfondimento.

5. Si deve inoltre osservare – con particolare riferimento ai paragrafi 5 e 6 – che l’idratazione e l’alimentazione artificiali non possono quasi mai trasformarsi in una forma di accanimento terapeutico (sebbene possano diventare accanimento puro e semplice), neppure nei casi, rari ma ipotizzabili, di cui al par.6.
Rispetto a questo paragrafo, c’è però da rilevare che non è realistico, né scientificamente adeguato, parlare di un organismo che “non è più” in grado di assimilare le sostanze fornite (in questo caso il trattamento diverrebbe tra l’altro del tutto futile). È viceversa realistico parlare di un organismo che presenta una sempre più ridotta capacità di assimilazione senza che sia possibile in astratto indicare la soglia al di sotto della quale la capacità di assimilazione diventa insufficiente e, quindi, i nutrienti artificialmente somministrati non raggiungono più il loro scopo biologico di modificare, sia pure in misura sempre più limitata, i parametri bio-umorali.
Non si comprende quindi per quale ragione la sospensione di tali trattamenti nel caso di pazienti in SVP – che in ogni caso non hanno consapevolezza del fatto di essere nutriti e idratati – costituirebbe “una forma, da un punto di vista umano e simbolico particolarmente crudele, di “abbandono” del malato” (che, secondo il Documento approvato, esigerebbe, in chi la proponesse, la coerenza di richiedere anche la soppressione eutanasica di questi pazienti), mentre tale “abbandono”, secondo lo stesso Documento, non si verificherebbe nel caso di pazienti con ridotta o ridottissima (ma presumibilmente mai nulla, almeno finché i pazienti sono in vita) capacità di assimilazione, per i quali il Documento prospetta addirittura la “doverosità” della sospensione. E neppure si comprende perché la difficoltà psicologica e umana di lasciar “morire di fame e di sete” un paziente, venga fatta valere nel caso dei pazienti in SVP e non anche nel caso di altro tipo di pazienti gravi con altrettanto ridotta capacità di assimilazione: conta forse il fatto che nel primo caso il processo del morire potrebbe protrarsi anche per due settimane, mentre nel secondo caso “solo” per pochi giorni o poche ore?
Lasciando da parte il fatto che quel che accade nella realtà non è certo riconducibile alle immagini strazianti che il linguaggio usato nel Documento indurrebbe a pensare, se il problema è costituito dal disagio psicologico e umano di chi ha in cura i pazienti (sempre che ciò costituisca un valido motivo), allora – una volta decisa la sospensione di quei trattamenti – in fase terminale si potrebbe procedere nell’uno come nell’altro caso, alla sedazione; nel secondo caso ovviamente col consenso del paziente, se consapevole.
Non c’è quindi alcun bisogno di chiamare in causa il tema dell’eutanasia attiva: nel panorama del dibattito etico in materia è possibile argomentare a favore dell’interruzione dei trattamenti di sostegno vitale (ivi comprese l’idratazione e l’alimentazione artificiale) senza dover per ciò stesso accettare l’ipotesi dell’intervento eutanasico diretto.

6. Un ulteriore punto di dissenso riguarda il contenuto del par.8, relativamente alla possibilità di inserire la richiesta di non inizio o sospensione dell’idratazione e alimentazione artificiali nella redazione delle Dichiarazioni anticipate di trattamento.
Il Documento Dichiarazioni anticipate di trattamento, approvato all’unanimità dal CNB il 18 dicembre 2003, recita testualmente: “Ogni persona ha il diritto di esprimere i propri desideri anche in modo anticipato in relazione a tutti i trattamenti terapeutici e a tutti gli interventi medici circa i quali può lecitamente esprimere la propria volontà attuale”. A giudizio degli scriventi da questa formulazione discende per logica conseguenza che qualunque trattamento o intervento rientra nella disponibilità della persona, indipendentemente dal fatto che sia ordinario o straordinario, che dia luogo o meno ad accanimento terapeutico, oppure – e a maggior ragione, costituendo l’alimentazione artificiale un intervento la cui cessazione comporta degli effetti perfettamente comprensibili dal paziente senza alcuna necessità di particolari informazioni o nozioni – che sia “ordinaria assistenza di base”. Non si vede, infatti, come sia possibile argomentare che una persona consapevole, che rifiutasse uno qualunque di questi interventi, possa essere costretta a subirne la somministrazione. E in relazione al tema in discussione, conviene anche ricordare che l’art. 51 del Codice italiano di deontologia medica recita: “Quando una persona, sana di mente, rifiuta volontariamente e consapevolmente di nutrirsi, il medico ha il dovere di informarla sulle conseguenze che tale decisione può comportare sulle sue condizioni di salute. Se la persona è consapevole delle possibili conseguenze della propria decisione, il medico non deve assumere iniziative costrittive né collaborare a manovre coattive di nutrizione artificiale, ma deve continuare ad assisterla” (corsivi degli scriventi). Se dunque una persona, nella piena consapevolezza della sua condizione e delle conseguenze del suo eventuale rifiuto, è libera di decidere su qualunque intervento gli venga proposto, ivi compresa la nutrizione artificiale, allora, in forza del principio sopra ricordato, non è possibile sottrarre alla medesima persona la libertà di dare disposizioni anticipate di analoga estensione, e quindi anche circa l’attivazione o non attivazione dell’idratazione e alimentazione artificiali, nel caso in cui si venisse a trovare nella condizione che, in base alle conoscenze mediche e ai protocolli disponibili, fosse diagnosticata come stato vegetativo.

7. Quanto alle considerazioni conclusive esposte nel par. 9, esse ovviamente discendono dal contenuto dei paragrafi precedenti e non sono quindi accettabili per coloro che sottoscrivono questa nota integrativa al Documento.
In conclusione appare tuttavia doveroso osservare che per ragionare bioeticamente sul caso dello SVP non è strettamente necessario chiamare in causa la controversia sul valore della vita umana, anche perché così facendo la discussione si sposta sul livello delle più complessive e, spesso, incomponibili concezioni del mondo e dell’uomo, sulle quali non dovrebbe essere compito del CNB prendere posizione. Si potrebbe semmai provare a ragionare sull’oggetto della controversia, chiedendosi, ad esempio, se l’indisponibilità o la disponibilità vada riferita alla vita come mera esistenza biologica o alla vita come biografia, all’essere vivi o all’avere una vita, un’esistenza. Infine, non pare agli scriventi che sia il caso di richiamare la distinzione tra vite degne o non degne di essere vissute, poiché è sempre vero che la dignità delle persone non dipende dalle condizioni in cui le persone si trovano: possono invece essere le condizioni in cui le persone si trovano a essere più o meno degne delle persone. E, in questo caso, è convinzione degli scriventi – per alcuni subordinando sempre tale decisione al consenso esplicitamente espresso dal paziente in un momento precedente –, che è semmai da considerare come un estremo omaggio alla dignità della persona interrompere i trattamenti che mantengono tali condizioni non degne.”

Nel luglio del 2008 25 neurologi hanno indirizzato una lettera alla Procura generale presso la Corte d’Appello di Milano per protestare contro di quella che sarebbe stata, a loro avviso, una sentenza di morte. L’unica cosa di rilievo contenuta nella lettera riguarda l’esistenza di studi recenti di imaging funzionale e di neurofisiologa clinica che dimostrano che in alcuni pazienti in stato vegetativo è possibile evocare risposte che testimoniano di una residua possibilità di percepire impulsi dall’ambiente con conseguente analisi e discriminazione delle informazioni. In realtà si tratta di ricerche sperimentali, rese particolarmente dubbio dal fatto che la base anatomica e fisiologica della coscienza non è nota, prevalentemente eseguite su soggetti in stato vegetativo da poco tempo. Scrive Defanti, a proposito di questi dubbi sull’irreversibilità dello stato di Eluana Englaro, che ammettendo per assurdo che un soggetto in stato vegetativo da quasi 20 anni potesse riemergere dal suo stato di incoscienza, il meglio che si potrebbe attendere sarebbe la ripresa di un minimo contatto con l’ambiente e di qualche capacità senziente In altri termini si verrebbe a trovare in uno “stato di minima coscienza” in cui, pur restando del tutto incapace di comprendere quanto lo circonda, acquisirebbe la capacità di soffrire, un ben magro progresso.

Nel 1595, Un teologo di nome Domingo Banez introdusse una distinzione tra mezzi di cura ordinari e mezzi di cura straordinari, distinzione basata sulla sofferenza: la gangrena di un arto doveva essere trattata con l’amputazione, eseguita in assenza di anestesia e di antidolorifici e con minime probabilità di sopravvivenza, un trattamento certamente straordinario che il buon senso induceva a evitare. Questa distinzione è stata sostituita da quella più moderna tra mezzi proporzionati e mezzi sproporzionati, recepita nel 1980 nella dichiarazione sull’eutanasia della Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede. Ciò non ha però cancellato l’accanimento terapeutico ed esistono teorie morali che sostengono che trattamenti come l’alimentazione e l’idratazione artificiale sono sempre dovuti e quindi obbligatori. La Dichiarazione li definisce “cure normali” anche se poi nella Carta per operatori sanitari ( che è del 1994) si aggiunge “ quando non divengano gravosi per il malato”. Ma quando mai si può verificare un evento del genere?
Secondo il Magistero cattolico dunque il cosiddetto sostentamento ordinario di base, la nutrizione e l’idratazione, per via naturale o artificiale, non rappresentano né un atto medico né un possibile accanimento terapeutico e interromperle rappresenta, da un punto di vista umano e simbolico, un crudele atto di abbandono del malato.

In questa attenzione esisterebbe una valenza umana che secondo le intenzioni dovrebbe essere un segno della solidarietà nel prendersi cura del più debole. Sospendere alimentazione e idratazione si configurerebbe come vera eutanasia omissiva, intervento illecito sia eticamente che giuridicamente. Dunque, anche in queste condizioni la vita umana, la vita biologica del’uomo, è un bene indisponibile, anche in assenza totale e definitiva di ogni capacità cognitiva; l’idratazione e l’alimentazione artificiali sono sostentamento vitale di base la cui sospensione è lecita soltanto quando si configuri autentico accanimento terapeutico (cioè, in pratica, mai).

A tal riguardo, occorre sottolineare con forza che esiste una tendenza ormai costante, e sempre più diffusa nella comunità scientifica nazionale e internazionale, a favore della tesi inversa, ovvero che l’alimentazione e l’idratazione artificiali costituiscano a tutti gli effetti un trattamento medico, al pari di altri trattamenti di sostegno vitale, quali, ad esempio, la ventilazione meccanica. Ecco, ad esempio, quello che scrive la Società Italiana di nutrizione parenterale:

La miscela nutrizionale è da ritenere un preparato farmaceutico che deve essere richiesto con una ricetta medica e deve essere considerato una preparazione galenica magistrale, non essendo un prodotto preconfezionato in commercio. Si tratta comunque di un trattamento medico a tutti gli effetti tanto che prevede il consenso informato del malato o del suo delegato, secondo le norme del codice deontologico e che deve essere considerato un trattamento sostitutivo vicariante.

Ed ecco alcune “Precisazioni in merito delle implicazioni bioetiche della nutrizione artificiale elaborate dal Consiglio Direttivo e dalla Commissione di Bioetica della Società Italiana di Nutrizione Parenterale ed Enterale, gennaio 2007): ” La Nutrizione Artificiale è un trattamento medico. La NA è da considerarsi, a tutti gli effetti, un trattamento medico fornito a scopo terapeutico o preventivo. La NA non è una misura ordinaria di assistenza (come lavare o imboccare un malato autosufficiente). Come tutti i trattamenti medici la NA ha indicazioni, controindicazioni ed effetti indesiderati. L’attuazione della NA prevede il consenso informato del malato o del suo delegato, secondo le norme del codice deontologico”. Secondo lo stesso documento, la NA si configura come un trattamento sostitutivo, come a ventilazione meccanica e l’emodialisi, cioè come un trattamento che tende a sostituire in modo temporaneo o permanente il deficit di un organo di un apparato: in tal senso la NA si sostituisce al deficit di una funzione complessa come quella dell’alimentazione naturale, quando questa è compromessa, in tutto o in parte da una sottostante condizione patologica. Nei casi di stato vegetativo la decisione di instaurare, continuare e sospendere determinati trattamenti sostitutivi (non solo la NA, ma anche la ventilazione assistita, implica una problematica più complessa da affrontare caso per caso con il contributo dei medici specialisti, dei care-giver e dell’assistente familiare. In ogni caso il documento ricorda quanto affermato dal CNB nelle Direttive anticipate di trattamento: “che la legge obblighi il medico a prendere in considerazione dichiarazioni anticipate, escludendone espressamente il carattere vincolante ma imponendogli, sia che lo attui sia che non lo attui, di esplicitare formalmente e adeguatamente in cartella clinica le ragioni delle sue decisioni.. E’ infine opportuno ricordare che il documento si conclude chiedendo, anche per la NA, la piena applicazione della Convenzione di Oviedo. Questo è il “consenso” degli esperti, e non tenerne conto, preferirgli le conclusioni alle quali sono giunte persone che parlano esclusivamente in nome della loro personalissima fede, deve essere interpretato come un grave atto di violenza e di prevaricazione.

Si tratta dunque di trattamenti che sottendono conoscenze di tipo scientifico e che soltanto i medici possono prescrivere, soltanto i medici possono mettere in atto attraverso l’introduzione di sondini o altre modalità anche più complesse, e soltanto i medici possono valutare ed eventualmente rimodulare nel loro andamento; ciò anche se la parte meramente esecutiva può essere rimessa – come peraltro accade per moltissimi altri trattamenti medici – al personale infermieristico o in generale a chi assiste il paziente. Non sono infatti “cibo e acqua” – come affermato dalla maggior parte dei bioeticisti cattolici – a essere somministrati, ma composti chimici, soluzioni e preparati che implicano procedure tecnologiche e saperi scientifici; e le modalità di somministrazione non sono certamente equiparabili al “fornire acqua e cibo alle persone che non sono in grado di procurarselo autonomamente (bambini, malati, anziani)” . Questo linguaggio altamente evocativo ed emotivamente coinvolgente, del quale i documenti dei bioeticisti cattolici sono intessuti, è finalizzato a sostenere la tesi del “forte significato oltre che umano, anche simbolico e sociale di sollecitudine per l’altro” rivestito dalla somministrazione, anche per vie artificiali, di “cibo e acqua”. In uno dei numerosi articoli scritti su l’Avvenire Francesco D’Agostino, dopo aver ribadito che la nutrizione artificiale è “atto essenziale, umanissimo, di prossimità umana, portatore di un valore simbolico altissimo” ha sostenuto che far morire di inedia è intuitivamente atroce non perché il malato soffra, ma per la valenza di freddo distacco da lui che è implicita nella sospensione delle cure. Gli ha risposto Carlo Alberto Defanti su Bioetica (aprile 2008) chiedendosi se D’Agostino sa quanto è difficile per un medico prendere una tale decisione, una difficoltà psicologica che ha tutt’altra valenza del “freddo distacco” del quale parla il bioeticista cattolico.

A questo punto è obbligo chiedersi come sia mai possibile che uno stato laico si avvii ancora una volta ad approvare una legge che si ispira ad un principio sostenuto da una specifica fede religiosa. Il caso Englaro è diventato un pretesto per una battaglia ideologica della Chiesa Cattolica Romana e del Movimento per la vita i cui seguaci stanno sacrificando il principio molto concreto di laicità del Paese sull’altare del principio del tutto astratto di sacralità della vita. E’ in gioco, come dice Maurizio Mori, un intero paradigma morale fondato sul rispetto sul finalismo intrinseco e come soggezione di fronte al mistero della vita, messo in crisi da un nuovo paradigma che non riconosce il carattere sacrale e misterioso della vita umana e distingue tra vita biologica e vita biografica, negando il carattere finalistico della natura.

La domanda che tutti ci stiamo ponendo riguarda il diritto di una religione di imporre a uno Stato sovrano leggi che privilegiano le sue ideologie, che moltissimi on condividono e molti non apprezzano. La risposta che viene data dal mondo cattolico è che si tratta di concezioni etiche che sono divenute parte, in questo momento storico, della coscienza giuridica complessiva, capisaldi pregiuridici che non possono non imporsi anche al legislatore laico. E’, ancora una volta, una menzogna, una sciocchezza e una prevaricazione.