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Eugenio Lecaldano2020-03-31T15:11:18+02:00

Eugenio Lecaldano

Aprile 2010

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Nel 1990, probabilmente a seguito di qualche genere di disguido del quale non sono mai riuscito a comprendere i meccanismi, sono stato nominato membro del Comitato Nazionale per la Bioetica, istituito per essere di aiuto per la Presidenza del Consiglio dei Ministri, in genere poco avvezza a districarsi nelle tortuose vie di una disciplina altrettanto nuova quanto poco apprezzata, ma comunque considerata moderna e pertanto necessaria. E’ in quella occasione che ho conosciuto Eugenio e sono diventato suo amico, a distanza di 20 anni posso dire che si è trattato, almeno per me, di una delle poche cose veramente buone di un’esperienza per il resto non molto gradevole.

A nominarci entrambi nel Comitato fu Andreotti, che incontrammo una volta sola, il giorno dell’insediamento, ma che almeno a me fece molta impressione: aveva in mano un foglietto di appunti (mezza pagina di quaderno per bambini) che oltretutto sbirciò molto raramente, e ci intrattenne su problemi complessi con una competenza che a me parve straordinaria e con un equilibrio che non ho mai più ritrovato nei successivi presidenti del Consiglio dei Ministri. Se ricordo bene la prima riunione la tenemmo in un ufficio in via dei Villini, subito fuori Porta Pia ( ma non c’era la benchè minima allusione alla laicità),  un luogo che riuniva molti differenti uffici della Presidenza del Consiglio incluso quello che si occupava delle onorificenze, che aveva più spazio e più personale di noi, cosa che allora (oggi non ci farei più caso) mi dispiacque. Il presidente era Adriano Bompiani, democristiano e cattolico, colto e riservato, sempre molto attento sia alla forma che ai contenuti, molto bravo a trasformare – con grande rapidità – la sua abile penna stilografica in un velenoso pungiglione, un’abilità propria dei migliori democristiani del tempo.

La prima riunione fu dedicata interamente alla discussione su come il Comitato avrebbe dovuto operare, i modelli europei non erano molti e il nostro gruppo aveva, rispetto agli altri, una sorta di anomalia, quella di doversi confrontare con un bioeticista-sacerdote, monsignor Sgreccia, “patron” della bioetica religiosa della Università Cattolica di Roma, un fatto che alcuni di noi, convinti che non è possibile discutere di questi temi con chi appartiene a una religione dogmatica, sembrava per lo meno peculiare.

Risparmio al lettore la storia di quel primo incontro, e mi limito alla parte che coinvolse Eugenio e il sottoscritto, con una breve premessa: sono passati molti anni, la mia memoria ha cedimenti preoccupanti e potrei essermi piano piano appropriato di iniziative altrui. Ripensando a quanto poco sapevo allora della materia ( e non sto certo dicendo che oggi ne so molto di più) mi sembra infatti assai poco probabile che l’iniziativa di quanto sto per raccontarvi sia stata, anche se solo in parte, mia, e mi sembra molto più verisimile l’ipotesi di un falso ricordo, costruito per megalomania, inserito poi con destrezza tra i ricordi veri e oggi da loro non più distinguibile. Insomma, a me sembra di ricordare di aver avuto un’idea e di aver poi dovuto constatare che la stessa idea era venuta  a Eugenio, anche se il buon senso mi dice che la cosa più probabile è che io mi sia accodato alla sua perché l’ho trovata subito coincidente a una mia vaga intuizione. Fatto si è che entrambi andammo dal Presidente Bompiani e gli ponemmo un quesito preciso: non era per caso che stesse meditando di farci votare sui punti a proposito dei quali ci fossimo trovati in disaccordo? Perché, se questa fosse stata la sua intenzione, difficilmente avremmo potuto approvarla.

Non fui io, questo lo ricordo bene, a spiegare i motivi del nostro possibile disaccordo, del resto ho sempre pensato che la differenza tra sapere e intuire stia proprio tutta qui, chi sa riesce anche a spiegare quello che sa, chi si limita a intuire no, lo diceva anche Agostino a proposito del tempo, spero di non sbagliare citazione. Non c’era naturalmente molto tempo per spiegare la nostra posizione e Eugenio lo impiegò per fare due rapidi ragionamenti:non si può mettere ai voti la qualità di una posizione morale, facendo graduatorie o peggio, e questa è cosa che dovrebbe valere anche per le posizioni prese dalle religioni, almeno in uno Stato laico; il compito di un Comitato di Bioetica, in secondo luogo, non dovrebbe essere quello di cercare improbabili verità, facendole scegliere da una altrettanto improbabile maggioranza tra le differenti posizioni in campo, ma semmai quello di sottoporre alla Presidenza del Consiglio tutte le principali posizioni esistenti, affidando poi alla politica il compito di mediare o sceglierne (e persino di imporne, se proprio se la sente) una sola.

Il professor Bompiani, naturalmente, non poteva essere d’accordo con la nostra richiesta, sapeva che i cattolici, all’interno del Comitato, avevano una indiscussa maggioranza assoluta e non capiva proprio perché avrebbe dovuto rinunciare a un tale vantaggio. Così scelse una strada che non gli faceva correre rischi, aveva un vago sentore di democrazia e, soprattutto, rappresentava la soluzione più divertente che fosse possibile adottare: mise ai voti la nostra proposta di non votare, inutile che vi racconti come finì.

In quei primi anni andavo alle riunione del CNB persino con qualche entusiasmo, anche e soprattutto perché sapevo che avrei avuto modo di confrontarmi con alcuni dei maggiori filosofi laici che la cultura del nostro Paese abbia mai espresso: debbo anche onestamente confessare che, malgrado la serietà degli argomenti in discussione trovavo anche modo di divertirmi, Eugenio è un uomo molto simpatico e i documenti che eravamo chiamati a discutere lasciavano spesso adito a interpretazioni perlomeno curiose. Ricordo, ma è solo per fare un esempio, che nel documento che riguarda la raccolta dei campioni di sperma per gli esami seminali fu approvato (e lo trovate nel testo) un codicillo che dice che, per evitare problemi e perplessità di ordine morale e religioso deve esistere di fatto una estraneità dell’operatore sanitario in merito al problema morale della raccolta del seme, cosa che potrebbe anche essere interpretata come l’impegno del biologo a non farsi carico della masturbazione. In ogni caso, per tornare al tema, tutti i documenti furono approvati a maggioranza e le opinioni di dissenso furono inserite in “codicilli” aggiuntivi che, come era in realtà nei voti dei più, nessuno ebbe mai la pazienza di leggere: il CNB aveva stabilito che l’embrione è uno di noi e tanto bastava e doveva bastare. Ma il problema del modello al quale si deve ispirare un Comitato etico è sistematicamente tornato in discussione, anche se, fino ad oggi, è stato sempre risolto sulla base della maggioranza esistente al momento (tra l’altro, sempre la stessa). E questo mi riporta inevitabilmente al passato e alle mie prime esperienze al riguardo.

Negli anni che vanno dal 1968 al 1970 ho lavorato, come ricercatore, in un Ospedale di Ginecologia di Londra, il Chelsea Hospital for Women, uno dei pochissimi al mondo che accettasse di interrompere gravidanze in epoca molto avanzata ( alcune sfioravano il sesto mese) e perciò molto frequentato da donne che arrivavano da quasi tutti i Paesi del mondo. Il protocollo seguito dai medici dell’ospedale prevedeva, per le gravidanze al secondo trimestre, una interruzione chirurgica, basata sull’esecuzione di un taglio cesareo, al quale doveva far naturalmente seguito un breve ricovero. Com’è naturale, alcuni dei feti nascevano con un peso che consentiva loro di sopravvivere per molte ore, anche se nel protocollo non erano previste terapie di sorta. Queste lunghe sopravvivenze mettevano in imbarazzo la patologa alla quale spettava il compito di accertare la loro morte, soprattutto quando la serie di cesarei si prolungava oltre le prime ore del pomeriggio e i feti erano ancora vivi al momento in cui lei finiva il suo turno di lavoro.

Questa patologa merita almeno qualche riga di descrizione. Era una donna ancora molto giovane, immagino che avesse da poco superato i trent’anni, di carattere non eccellente, molto impegnata in una delle società londinesi di protezione degli animali. Con lei avevo avuto uno scontro piuttosto aspro, che è in qualche modo connesso con questa storia e che vale la pena riportare qui.

A quei tempi mi occupavo principalmente di metabolismo degli steroidi e mi stavo facendo una esperienza sulle varie forme di cromatografia, compresa quella gas-liquido che allora era una assoluta novità. Poiché in Italia mi ero molto occupato di metabolismo in gravidanza, il direttore dell’unità di ricerche endocrinologiche col quale lavoravo mi chiese di riprendere alcune cose che avevo fatto e di cercare una conferma sperimentale ai miei risultati. Così iniziai uno studio sul metabolismo del glucosio nella coniglia gravida, utilizzando composti radioattivi: la ricerca non era finanziata e la mia richiesta all’Istituzione dalla quale dipendevo, la WHO, fu accolta quando ormai la ricerca era terminata da un anno, così che le coniglie gravide le compravo io. Un ricercatore, a quei tempi, non dico che facesse la fame, ma ci andava vicino: pensai allora di risparmiare qualche soldo riutilizzando le coniglie e facendole sopravvivere agli esperimenti, cosa generalmente condannata da tutti. Non posso dire dunque di essere stato sorpreso dal fatto di ricevere una lettera della Commissione di “wise men” che mi convocò per un colloquio, né mi stupì più che tanto il fatto che a denunciare il mio immorale comportamento fosse stata la giovane patologa.

Questo Comitato era formato da persone indicate in modo informale dai lavoratori dell’Ospedale e scelte prevalentemente tra gli operatori anziani, già in pensione o in procinto di lasciare il lavoro. Il loro parere non era pubblico, non c’era un reale obbligo a seguirlo, ma per quanto ne sapevo nessuno si arrischiava a ignorarlo. Con me furono relativamente gentili – anche e soprattutto perché ero uno straniero, e come tale geneticamente predisposto a non rispettare le regole – e tutto finì rapidamente con il mio impegno a non risvegliare più le coniglie dall’anestesia.

A quello stesso Comitato si rivolse dopo poche settimane la patologa per sottoporre il proprio problema e naturalmente so ben poco di quello che nell’occasione le due parti si dissero, né sono certo che la ragazza abbia poi deciso di seguire i consigli che ebbe modo di ricevere. Il suo problema era altrettanto serio quanto semplice: alle 18, quando doveva lasciare l’Ospedale, accadeva spesso che un feto respirasse ancora. Poiché il protocollo non prevedeva né cure né trattamenti e poiché lei (e più raramente una sua sostituta) era tenuta a certificare la morte dei feti, era necessario trovare una soluzione. Che fu questa: ai feti che respiravano ancora alle sei del pomeriggio, la giovane donna tagliava la giugulare.

Di questo primo truculento rapporto con un pre-comitato di bioetica mi sono ricordato molti anni dopo, diciamo intorno al 1985-86, quando cominciarono gli attacchi al lavoro che stavo facendo nel Servizio di Fisiopatologia della Riproduzione dell’Università di Bologna nel campo della riproduzione medicalmente assistita. In quella occasione feci alla Unità Sanitaria Locale dalla quale dipendevo, alla mia Università e al Consiglio Comunale della città di Bologna, due diverse proposte: la prima era quella di formare un gruppo di lavoro (una definizione che nel corso delle discussioni diventò rapidamente “Comitato Etico”) disponibile ad affrontare con noi e per noi i molti problemi morali che incontravamo con sempre maggior frequenza; la seconda, di lasciarci lavorare in pace secondo gli schemi del cosiddetto “caso semplice”, che a quei tempi veniva utilizzato anche da molti Ospedali cattolici. Non ponevo limiti di tempo, ma personalmente dichiarai in molte sedi che avrei rispettato quel patto fino al momento in cui avessi dovuto persuadermi che non esisteva volontà alcuna di risolvere pacificamente i problemi.

Ho sotto gli occhi una pubblicazione curata da “Obiettivo Salute” e dall’Assessorato alla Sanità di Bologna (“I Comitati Etici: una proposta che fa discutere”) nei quali sono raccolti gli interventi di un incontro di studio su questo tema del 21 settembre del 1989 nel quale si fa riferimento a un seminario di studi italo-francese che avevo organizzato proprio su questo tema e alle varie proposte avanzate dalla Unità Sanitaria Locale e dall’Università. Riporto solo alcune parole del professor Mario Zanetti, che dell’Ospedale S. Orsola era il Direttore Sanitario: “Quando si pensava di aver fatto un buon lavoro e ci si accingeva a sperimentarlo, tutto è stato bloccato perché ci è stato detto che era necessario fare il Comitato etico ad ogni livello: di Comune, di Provincia, di regione, di Stato, del Mondo, dell’Universo! Come facilmente presumibile da allora ad oggi nessun Comitato Etico ha mai visto la luce”.

Delusioni a parte, credo che oggi sia possibile ricostruire i fatti e capire le ragioni di tante difficoltà. Noi chiedevamo di ottenere un Comitato Etico laboratorio, al quale si potesse rivolgere un operatore sanitario o un cittadino qualsiasi per proporre i propri dubbi e per poterli vedere discussi e chiariti da persone più esperte di lui e che potessero rappresentare almeno gran parte della cultura e delle posizioni ideologiche e religiose, stranieri morali disposti a confrontarsi per rendere più facile le scelte di chi chiedesse loro aiuto: dunque niente maggioranze e minoranze, nessuna verità assoluta, solo un contributo alla comprensione dei problemi. Ci veniva offerto un Comitato Tribunale, capace solo di offrire la soluzione proposta dalla maggioranza dei membri, una soluzione che, condivisa o no, doveva comunque essere rispettata. In altri termini, era in discussione l’elemento strutturalmente più caratterizzante dei Comitati Etici, ovvero l’attribuzione di valore delle sue deliberazioni, esprimibile in due diverse affermazioni: le deliberazioni hanno valore di istanza etica superiore; le deliberazioni hanno valore di consultazione e di sollecitazione dell’eticità. E’ evidente che le funzioni e gli obiettivi dei Comitati Etici sono diverse per coloro che sostengono la prevalenza del criterio biologico nella soluzione dei dilemmi bioetici e per i sostenitori del criterio culturale, la linea della bioetica della normatività pre-razionale contro quella della normatività razionale, l’etica come fatto individuale o l’etica come attributo sociale.

In questi ultimi 20 anni la discussione sulla natura del Comitato Nazionale di Bioetica e sui suoi compiti istituzionali è ripresa molte volte, sempre nel ricordo della prima, antica richiesta presentata da Eugenio. Malgrado ciò il Comitato ha svolto prevalentemente un compito prescrittivo (l’eccezione si trova nei documenti approvati nel periodo della Presidenza di Giovanni Berlinguer) indicando una e solo una soluzione normativa e giungendo a questa definizione con strumenti che ben poco hanno a che fare con i problemi delle scelte morali, come la definizione di maggioranze e minoranze, il voto e la pubblicazione del “documento vincente”, l’opinione dei “perdenti” essendo relegata in codicilli di scarsa o nessuna visibilità. Si dovrebbe invece privilegiare un paradigma descrittivo che parta dal principio che non si possono costruire gerarchie delle varie posizioni morali, che debbono invece essere illustrate e chiarite per dar modo al parlamento di svolgere il compito che è proprio della politica, cioè mediare e decidere. Il paradigma descrittivo è certamente quello che dà maggior rilievo all’aspetto razionale dell’etica, con il risultato di sostenere una pluralità di valori. Quello che il Comitato deve fare è mostrare come, nella nostra società, su problemi complessi come quello della bioetica esistano differenti soluzioni, alcune sostenute da motivazioni razionali, altre francamente inaccettabili. In questo modo il Comitato diverrebbe il luogo autorevole in cui si chiariscono i principali problemi bioetici del nostro tempo, senza avere la pretesa di possedere la chiave della verità, una pretesa che del resto non dovrebbe trovare domicilio in un Paese laico. Sarebbe comunque una scelta di civiltà, capace di migliorare la posizione reciproca e il rispetto per le posizioni degli altri. In altri termini qui si gioca la possibilità di scegliete tra un precetto e un consiglio: se si sceglie il precetto bisogna poi giustificare il fatto che il Comitato non è stato eletto e non ha alcun titolo per stabilire ipotetiche verità sulla base di maggioranze assolutamente casuali.  D’altra parte la prescrittività di un consiglio si affida alla forza della ragione e non ha alcuna necessità di ricorrere al voto per individuare la maggioranza che impone, con un atto di imperio, valori che sono invece predestinati a prevalere per libera adesione. Dice a questo proposito Demetrio Neri che questo favorirebbe la reciproca comprensione, una possibile diminuzione dei conflitti e delle contrapposizioni e un indubbio vantaggio sociale e una crescita di civiltà.

Il fatto di aver scritto, in un articolo comparso su Liberazione il 5 dicembre 2008, che esistono posizioni inaccettabili mi ha creato qualche problema con Francesco D’Agostino che in un articolo comparso su Avvenire pochi giorni dopo ha a sua volta scritto che dopo questa dichiarazione dovrei riconoscere che la possibilità di individuare queste posizioni può avvenire in base ad una “onesta (e sempre rivedibile) riflessione orientata alla verità”. Ho due obiezioni. La prima riguarda il fatto che non ho mai pensato che si possa definire inaccettabile una posizione sulla base della sua distanza da una verità che in ogni caso nessuno di noi può credere di possedere. Personalmente trovo inaccettabile – perché inutile e fastidiosa – ogni teoria che si basi su ipotesi non dimostrabili razionalmente, su principi che entrano in rotta di collisione con le nostre leggi o anche più semplicemente con i criteri della laicità dello Stato, o contro la morale di senso comune, o contro molte di queste cose insieme. E’ nota un superstizione africana che esige il sacrificio dei bambini che nascono in presentazione podalica, e senza stare a discutere sulle sottili differenze tra religioni e superstizioni e sulle briciole di razionalità presenti anche in queste apparenti follie (molti dei bambini che nascono in questa presentazione,se non sono convenientemente assistiti, presentano poi degli handicap) penso che non possa trovare spazio in un documento del CNB. E direi esattamente la stessa cosa se qualcuno suggerisse di proporre allo Stato di legiferare tenendo conto delle ideologie di una specifica religione, che una tal proposta sia da considerare inaccettabile non lo dico io,lo diceva Abbagnano che definiva “disonesto” uno Stato che operasse in questo senso. Per il secondo punto, torno a citare Demetrio Neri che si chiede: “In che misura ci aiuta, nella nostra riflessione orientata alla verità, il ricorso al voto, che è atto di volontà e di imperio, e non di ragione? Quale vantaggio può trarre la ricerca della verità dal fatto che una soluzione (una approssimazione della verità?) piuttosto che un’altra riscuota l’approvazione di un certo numero di persone?”

Ma sappiamo tutti bene che il ricorso al voto risponde a ben altre esigenze, Eugenio me lo ha spiegato molte volte e molto bene

Articolo comparso in EUGENIO LECALDANO
L’ETICA, LA STORIA DELLA FILOSOFIA E L’IMPEGNO CIVILE
AAVV a cura di Piergiorgio Donatelli e Maurizio Mori
2010 Casa Editrice Le Lettere – Firenze