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I problemi etici della PMA2018-12-15T14:09:57+02:00

I problemi etici della PMA

Giugno 2018

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Premessa

40 anni or sono nacque la prima bambina concepita con una tecnica che consentiva la fecondazione extracorporea; per qualche tempo fu opinione generale che si trattava di una tecnica che non poteva avere successo e che sarebbe stata presto dimenticata. Ne conseguì che per qualche tempo le religioni se ne occuparono solo marginalmente, esprimendo pareri più divertiti che critici. Nel giro di qualche anno ci si rese conto che il numero delle persone che chiedevano di essere sottoposte ai trattamenti di fecondazione medicalmente assistita stava crescendo in modo significativo e teologi e bioeticisti cattolici si impegnarono a mettere a punto critiche più serie e più razionali; l’opinione della teologia cattolica influenzò l’approvazione di una legge che fu approvata in Italia nel 2004 e che deve gran parte del suo successo al fatto che alcuni anni prima il Comitato nazionale per la bioetica, in un periodo in cui il presidente del consiglio Berlusconi aveva allontanato dal comitato tutti i membri laici, aveva approvato all’unanimità un documento chiaramente ispirato dai teologi vaticani e che viene ricordato soprattutto per aver stabilito che ” l’ embrione è uno di noi”.

La legge era caratterizzata soprattutto dal fatto di contenere un grande numero di proibizioni e di divieti: non si potevano produrre più di tre embrioni, gli embrioni non potevano essere conservati né distrutti, non potevano essere utilizzati per la ricerca scientifica né sottoposti a indagini genetiche; l’accesso questi trattamenti era consentito solo alle coppie sposate o conviventi e gli embrioni prodotti dovevano essere trasferiti in utero anche nel caso di evidenti anomalie genetiche; le donne che avevano un figlio per aver utilizzato questa tecnica non potevano chiedere di lasciarlo in adozione; erano proibite le donazioni di gameti: insomma, una legge che consentiva in pratica soltanto il cosiddetto ” caso semplice”. A partire dal 2005 gran parte di queste proibizioni e di questi divieti è stata sottoposta al giudizio della corte costituzionale e nel giro di pochi anni la legge è stata praticamente demolita. Anche la discussione sui problemi etici ha subito notevoli modificazioni: problemi come quello della dignità della procreazione sono stati praticamente dimenticati, mentre ci si è resi conto che la vera questione morale riguardava l’esistenza di un conflitto di paradigmi e il tema che risultò al centro delle discussioni o quello del significato della genitorialità, che alcuni continuavano a considerare basato sui rapporti genetici e altri volevano invece riferire alla capacità di assumere precise responsabilità. Il problema è però più complesso: come vedremo la possibilità di utilizzare embrioni ha consentito di affrontare una serie di temi di ricerca particolarmente complessi e che possono rappresentare, in un prossimo futuro, una vera rivoluzione del concetto di genitorialità. Queste novità scientifiche sono state ottenute senza che i progetti di ricerca siano stati sottoposti ad un consenso sociale informato; inoltre alcune delle nuove tecniche che sono ( o che saranno molto presto ) a disposizione dei medici e dei pazienti sono considerate eticamente inaccettabili in molti, ma non in tutti, i paesi del mondo. Il vero problema in campo etico, dunque, è quello di stabilire quale tipo di atteggiamento assumere nei confronti di tecniche che un gran numero di persone considera immorali e che un gran numero di paesi proibisce per legge.

Le prime gravidanze e le prime condanne

Poche persone hanno conosciuto la durezza delle critiche dei moralisti e dei teologi così bene come Robert G. Edwards, e così ricorro all’ introduzione di un suo libro (Principles and Practice of Assisted Human Reproduction, Ed Saunders Co., Philadelphia, 1995) dedicata proprio ai problemi morali relativi alla PMA, per aprire questo capitolo.

In modo forse un po’ semplicistico, ma molto efficace, Edwards comincia col dividere i filosofi in deontologi (assolutisti) e teleologi (consequenzialisti). I primi respingono ogni atto che comporti un passaggio moralmente inaccettabile e così condannano sia l’aborto che la ricerca sull’embrione. I secondi basano il giudizio morale sulla conseguenza delle azioni intraprese e così tendono a considerare con favore FIVET, crioconservazione degli embrioni e indagini genetiche preimpiantatorie perché utili a curare la sterilità e a far nascere bambini sani, anche se alcuni di loro sono contrari alla ricerca sugli embrioni. Le posizioni di questi filosofi possono in qualche caso correre parallele e spesso si influenzano reciprocamente.

Lo stesso non si può evidentemente dire per le posizioni delle religioni. Edwards cita come il più forte oppositore della PMA il Magistero cattolico, sulla base di alcuni principi che non sono disponibili per alcun tipo di mediazione. Ed è stato soprattutto a causa di questa fiera opposizione che fin dagli inizi del 1980 è entrata in campo la politica, molto desiderosa di accattivarsi le simpatie della religione.

Il dibattito che ha preceduto l’approvazione della legge 40

Nonostante che lo studio della sessualità umana fosse oggetto di attenzione (il rapporto Kinsey valga per tutti) fin dagli anni 50, negli anni ’60 e ’70 la ricerca scientifica sui temi della riproduzione era la sostanzialmente emarginata rispetto a quelli considerati molto più importanti che riguardavano le terapie salvavita. Quando, nella seconda metà degli anni ’60, Robert Edwards cominciò le ricerche per la fecondazione extracorporea di oociti umani, questo stesso tema era oggetto di ricerche sistematiche solo a Melbourne, ma i biologi australiani erano motivati dal grande valore commerciale che la ricerca in campo riproduttivo aveva per la riproduzione animale. Lo stesso Edwards ebbe più volte a dichiarare di essere stato più volte sollecitato a cambiare il tema delle sue ricerche; del resto anche dopo i primi successi fu difficile per molti giovani ricercatori avvicinarsi a questo settore, considerato in parte una perdita di tempo e in parte uno studio moralmente discutibile privo di qualsiasi futuro a causa della palese e dura ostilità della Chiesa cattolica.

Le ricerche di Edwards proseguirono dunque tra critiche e ostilità, ma furono coronate dal successo nel luglio del 1978, quando all’Oldham General Hospital (Manchester, UK) nacque Louise Joy Brown, la prima persona al mondo concepita fuori dal grembo materno. L’anno prima gli australiani avevano ottenuto una gravidanza che malauguratamente si era interrotta abortivamente. La notizia suscitò immediatamente reazioni diverse e di segno opposto, anche se in effetti prevalsero i commenti negativi, che caratterizzarono anche i titoli dei giornali che appartenevano di diritto al fronte laico. Da alcuni (pochi) fu salutata come un grande progresso della scienza, qualcosa di analogo al primo volo di un aeroplano o alla scissione dell’atomo. Come si legge nella motivazione del premio Nobel conferito a Edwards nel 2010: “His contributions represent a milestone in the development of modern medicine” (i suoi contributi rappresentano una pietra miliare per lo sviluppo della medicina moderna). Va tuttavia notato che il Nobel fu assegnato a Edwards ben 32 anni dopo la nascita di Louise Brown, e questo è un chiaro segnale delle dure opposizioni suscitate dalla nuova scoperta. Ulteriore conferma del persistente rifiuto della nuova pratica sta nel fatto che vari esponenti del cattolicesimo romano (tra cui il Presidente della Pontificia Academia pro Vita) hanno criticato l’assegnazione del prestigioso premio perché sarebbe stato conferito a una pratica che suscita serie perplessità morali: critiche che hanno il sapore di una sorta di processo a Galileo in sordina e in ritardo, del quale si sono occupati giudici ancora meno intelligenti, almeno per quanto riguarda la capacità di percepire il cambiamento. Del resto, il processo alla PMA è stato molto simile quello che ha costretto Galileo a sconfessare le sue teorie, comprese alcune stranezze che in entrambi i casi hanno dimostrato come salire sul banco degli imputati o su quello dei testimoni possa far perdere il ben dell’intelletto quando i giudici sono vestiti di viola, basta ricordare la folle teoria presentata da Ticho Brahe per mediare tra i due paradigmi, con i pianeti che giravano intorno al sole e poi lo accompagnavano , in un corteo evidentemente fantascientifico, a fare un rispettoso giro intorno alla terra.

Le reazioni nei confronti delle tecniche di fecondazione assistita sono state numerose e variegate e non sono arrivate solo dalle religioni.

Il fatto che queste tecniche consentissero a coppie che non avrebbero altrimenti potuto concepire di avere finalmente il figlio desiderato, non venne granché considerato: della FIVET si presero inizialmente in esame soprattutto la violazione della natura, il rischio che veniva fatto correre a un gran numero di embrioni e le possibili implicazioni eugenetiche. Poi, via via che il tempo passava e che venivano proposte nuove possibili applicazioni delle tecniche, le condanne crebbero e l’ostilità aumentò. Critiche molto importanti e severe furono pronunciate da teologi come Paul Ramsey e da moralisti come Leon Kass; vincitori di premi Nobel come James Watson e Max Perutz usarono la loro autorità scientifica per criticare le tecniche e furono purtroppo molto ascoltati, nessuno avendo avuto il coraggio di sottolineare l’assoluta incompetenza di questi scienziati in questo specifico settore. Ramsey tirò fuori perfino argomenti che oggi consideriamo del tutto privi di senso ma che allora furono ripresi da un numero considerevole di bioeticisti. Watson anticipò tutte le indagini epidemiologiche affermando che la FIVET sarebbe stata responsabile della nascita di bambini malconformati e espresse la sua assoluta disapprovazione per una tecnica che intendeva far nascere altri sventurati in un mondo già sovrappopolato.

L’Italia fu un luogo privilegiato per la discussione bioetica, un fatto certamente influenzato dalla presenza del Vaticano a Roma. I quotidiani annunciarono la notizia della nascita di Louise Brown con molto nervosismo e se si fa eccezione per un articolo di Buzzati Traverso sul Corriere della Sera, il tono generale dei quotidiani fu del tipo “non violate la natura”. L’Avvenire, per non smentirsi, dopo aver pubblicato un articolo molto serio e misurato di Tettamanzi, che si interrogava su una possibile “sostituzione indebita” del potere che l’uomo ha sulla vita umana, e criticava la separazione tra l’esercizio della sessualità e la trasmissione della vita, ne pubblicò un secondo che aveva per titolo “Grossi e loschi affari dietro alla nascita in provetta”. Buzzati Traverso fu sepolto dalle critiche e nessun giornale, neppure l’Unità, alzò un dito per difenderlo. Ricordiamo anche esperienze personali: un teologo che definì la FIVET come “una tecnica veterinaria messa a punto per assistere l’adulterio” e che in un incontro televisivo diede dell’assassino a chi, come noi, faceva “esperienze sugli embrioni”. La risposta, che lo invitava a sorvegliare meglio il suo Istituto e i medici che ci lavoravano, fu eliminata dalla registrazione e mai trasmessa.

In questo quadro di grande confusione il Rapporto Warnock, pubblicato nell’estate del 1984, ebbe un ruolo importante sia per il chiarimento teorico operato, sia per la proposta pratica avanzata, consistente in una sorta di compromesso tra le posizioni dei critici e quelle degli entusiasti. Le nuove tecniche erano accolte con favore, ma con alcune limitazioni e con l’impegno di sottoporle a un controllo sociale rigoroso. In questo modo l’opinione pubblica veniva rassicurata dalla presenza di una costante vigilanza sulle ricerche scientifiche.

La riflessione era tuttavia magmatica, con proposte confuse che andavano in varie direzioni. In questo clima culturale ancora molto fluido e denso di dibattiti, la Pontificia Accademia delle Scienze organizzò, nel novembre 1984, un convegno di studio interamente dedicato ai problemi morali della fecondazione in vitro: nei Giardini vaticani, una mezza dozzina di medici operatori del settore assieme a un folto gruppo di teologi si impegnarono nell’esame dei vari aspetti del tema. Erano stati invitati all’incontro Howard Jones e sua moglie Georgeanna Seegar, pionieri della fecondazione assistita negli Stati Uniti, René Frydman dell’Università di Parigi, oltre a due ginecologi romani (presenti solo alla prima delle otto sessioni) e altri. Il presidente dell’accademia, il professor Carlos Chagas Filho, diresse l’incontro di cui resta un ampio resoconto scritto da Howard Jones, medico di straordinarie capacità scientifiche e di eccezionale memoria, che ha osservato quanto segue:

” Georgeanna capì subito che la preoccupazione dei teologi morali non era affatto rivolta alla fecondazione in vitro, quanto alla contraccezione, poiché i problemi coinvolti, e segnatamente l’interferenza sul processo riproduttivo, erano dal punto di vista della teologia morale sostanzialmente gli stessi. All’inizio del convegno, il Prof. Chagas ci disse che avremmo dovuto parlare francamente poiché l’obiettivo era quello di sviluppare la verità; disse inoltre che le discussioni sarebbero state registrate e che le trascrizioni sarebbero state date ai membri del Gruppo di Studio al fine di controllarne l’accuratezza. Sarebbe stato infine preparato un documento, ad uso del Santo Padre, che stava riflettendo sulla liceità della fecondazione in vitro e, per implicazione, di altre tecniche di procreazione assistita.

Agli aspetti tecnici della fecondazione in vitro furono dedicati i primi due giorni, durante i quali i teologi richiesero ai medici una descrizione del processo. La seconda parte del convegno riguardò una discussione di teologia morale sulla liceità del processo. Verso la fine del convegno, divenne evidente che esisteva un accordo generale sul dichiarare la fecondazione in vitro un procedimento eticamente accettabile. C’era però un dissenziente, e precisamente Monsignor Carlo Caffarra. Monsignor Caffarra era Presidente dell’Istituto Giovanni Paolo II per il Matrimonio e la Famiglia, incarico che aveva avuto dal Papa. Egli mantenne risolutamente la posizione che la fecondazione in vitro era illecita poiché il concepimento che ne derivava avveniva al di fuori dei vincoli dell’amore coniugale. In altre parole, non si utilizzava il processo naturale del rapporto sessuale. Concludendo il convegno, il Prof. Chagas notò come tra i presenti, con un’unica eccezione, c’era un generale accordo sul fatto che il procedimento avrebbe dovuto essere considerato lecito e rivolse un appassionato appello a Monsignor Caffarra chiedendogli che se non poteva essere d’accordo avrebbe almeno potuto, per amor di carità, rimanere per favore in silenzio”.

Il resoconto di Jones è di grande interesse, anche perché sembra l’unico documento storico pubblicato su quel convegno. Diversamente da quanto preannunciato dal presidente Chagas, la trascrizione dei lavori non fu mai fatta circolare tra i partecipanti e a tutt’oggi, per quanto è dato di sapere, non è stato stilato alcuno scritto relativo a quell’incontro.

In realtà, la condanna della Chiesa cattolica non era poi così definitiva e assoluta quanto sembrava emergere da questo racconto e dalla posizione di Caffarra. Lo diciamo per due ragioni: la prima riguarda il fatto che in quegli anni (e per molto tempo ancora) importanti ospedali cattolici in tutto il mondo hanno eseguito FIVET, alcuni con la tecnica “del caso semplice”, altri con tecniche tradizionali; la seconda ha invece a che fare con il fatto che non venne dato un giudizio negativo della Gift, che pure violava la dignità della procreazione e che fu a lungo utilizzata nella Clinica ostetrica dell’Università Cattolica di Roma.

Il tema della discussione è molto cambiato nel tempo: progressivamente emersero una serie di problemi di difficile inquadramento, che riguardavano l’uso degli embrioni, le indagini genetiche preimpianto, la loro utilizzazione per la ricerca scientifica e come origine di cellule staminali, le varie forme di donazioni, l’aiuto alle “nuove famiglie”, le donazioni del grembo, il gene editing, il social freezing, i limiti della ricerca scientifica, il concetto stesso di genitorialità, la terapia genica, l’uso sperimentale delle cellule staminali embrionali, la clonazione, la possibile disponibilità di un utero artificiale.

L’ultima possibilità menzionata è ancora in gran parte teorica, ma potrebbe diventare un’opzione nei prossimi anni o nei prossimi decenni. Le altre pratiche sono invece ormai più o meno diffuse o in una fase di ricerca molto avanzata: in molti paesi occidentali esse sono state accolte senza troppe difficoltà, mentre in altri hanno suscitato sconcerto, smarrimento e angoscia. Infatti, gli schemi culturali invalsi sono poco inclini al cambiamento: di fronte alla notevole capacità di controllo resa possibile dalla fecondazione assistita, la reazione è stata quella di considerare eccessivo il rischio ” e giungere così alla condanna e al rifiuto . In questa prospettiva si ritiene che in assenza di leggi precise e restrittive, la fecondazione assistita produrrebbe danni e disastri. Alcuni paesi, tra cui l’Italia, hanno legiferato ponendosi in questa linea ma subendo spesso dure punizioni da parte della magistratura che ha frequentemente assunto posizioni francamente laiche, come avremo modo di vedere.

Come ho detto, l’annuncio del primo successo di una fecondazione in vitro è così arrivato del tutto inaspettato e improvviso, un vero e proprio fulmine a ciel sereno. In Italia, la nascita di Louise Brown fu accolta con tiepidezza, e non furono certamente risparmiate le critiche ai ricercatori che ne erano responsabili. Come abbiamo già ricordato fece eccezione solo Adriano Buzzati Traverso, che sul Corriere della Sera del 27 luglio 1978 salutò quella nascita scrivendo che si trattava di “un grande passo della scienza e che non riusciva a comprendere come eventi del genere potessero si possano risvegliare preoccupazioni teologiche, etiche o legali: ” Purtroppo molte persone colte di questo scorcio di XX secolo – continuava Buzzati Traverso – sono tuttora vittime della irrazionale “sacralità” di tabù d’antichissima origine. Il sacerdote o lo stregone che influenzano il comportamento sessuale dei loro simili lo fanno perché consapevoli del potere che essi possono così esercitare: per questo motivo gli studi biologici sui meccanismi di riproduzione della nostra specie sono tuttora arretrati rispetto ad altri campi della fisiologia. Gli altri – pubblicisti, commentatori, specialisti di comunicazione – troppo spesso addobbano la notizia con aure di mistero, con oscure formulazioni, con truculente interpretazioni, con catastrofiche profezie. Forse credono di vendere così più facilmente la propria merce”.

Altri commentatori condannarono invece immediatamente la pratica senza possibilità di appello: il gesuita Virginio Rotondi scrisse sul Tempo che : “Non è lecito violare la natura […] la creazione di una nuova vita può essere frutto solo di un legittimo atto di amore nell’esercizio dei diritti coniugali. Questo adoperare siringhe e provette e le muffe e gli acidi di un laboratorio […] è cosa che fa ribrezzo prima di provocare la condanna dell’etica naturale e della morale cristiana. Con tali sistemi la medicina scende al livello della veterinaria”. Ma la maggioranza dei media si era assestata su una posizione intermedia: nessuno osava essere “contro” la scienza e quindi non mancava qualche elogio di rito, ma subito poi venivano energicamente sottolineati i gravi pericoli che la nuova pratica avrebbe potuto comportare. Così, la Repubblica di Scalfari titolava: “Piacerebbe anche a Hitler questa fecondazione”. Il giornale di Montanelli chiedeva: “E se nella provetta si volessero “programmare” gli uomini “alfa” o altri tipi di selezionati prodotti umani, sovvertendo il misterioso equilibrio della natura, condizione e limite della nostra libertà? E se, portando l’ipotesi nel fondo dei disegni più nefandi, un nuovo Hitler ordinasse che alle donne ebree fossero iniettate uova fecondate di donne ariane, attuando un raffinato e lento genocidio razziale?”. Persino l’Unità era tiepida: in un breve commento del 28 luglio si limitava a rilevare che: “il successo di questa realizzazione dipenderà dall’uso che la società sarà in grado di fare, rendendola possibile in tutti i casi ed accessibile a tutte le coppie. Non credo che quanto realizzato in Inghilterra costituisca un pericolo per l’umanità: l’unica possibilità negativa potrebbe essere rappresentata dalla possibile divisione delle donne in due categorie, quelle cui affidare la gestazione e quelle cui affidare il compito di fornire le cellule-uovo. Penso sicuramente che la donna in prima persona si opporrà a tale strumentalizzazione di tipo moderno”. Tutto sommato, il quotidiano cattolico Avvenire reagì in modo sufficientemente sobrio: il 27 luglio si impegnò a sollevare una serie di dubbi e di domande, tutto relativo ai rischi e ai caratteri di sperimentalità della tecnica e senza dare un giudizio etico definitivo, ma il giorno successivo abbandonò il suo signorile distacco per sottolineare il pericolo della commercializzazione (Grossi e loschi affari dietro la nascita “in provetta”), un rischio allora del tutto inesistente, e per replicare a Buzzati Traverso, sottolineando il suo isolamento (“uno solo non ha dubbi”).

A quasi 40 anni di distanza possiamo dire che questa reazione ha impresso una sorta di imprinting al dibattito che ha fatto seguito. Ci sono stati comunque alcuni spostamenti nella linea delle varie testate: Avvenire ha abbandonato la tecnica delle domande retoriche per assumere una posizione simile a Il Tempo, e Il Corriere si è avvicinato a Repubblica, mentre in qualche occasione l’Unità ha sostenuto anche posizioni più “liberali”, ma malauguratamente il dibattito si era ormai avviato nella direzione indicata dalle prime critiche , le prime reazioni erano servite da falsariga per il successivo dibattito. Prevalse comunque il buon senso ed ebbe certamente molto peso l’atteggiamento delle coppie sterili, che capivano che esisteva ormai una tecnica con la quale avrebbero potuto ottenere risultati sui quali non contavano più e non avevano alcuna intenzione di demordere. Nel 1983 a Napoli nacque la prima bambina frutto di una fecondazione in vitro eseguita però interamente da biologi venuti appositamente dall’estero, e subito dopo a Palermo, nell’Istituto diretto da Ettore Cittadini, si ebbe un nuova nascita, questa volta tutta italiana. Gli addetti ai lavori cominciarono a organizzarsi per poter soddisfare le richieste sempre crescenti. Il 1 marzo 1985 il ministro Degan emanò una circolare che escludeva dal Sistema Socio-Sanitario Nazionale la fecondazione con dono di gameti, un divieto che diede risultati contro-intuitivi: le banche del seme italiane, presenti solo nella medicina privata e che fino al momento avevano operato in sordina non essendo certe della liceità del loro lavoro, interpretarono il decreto come un riconoscimento della legittimità delle donazioni di gameti maschili (di donazioni di gameti femminili ancora non si parlava) ed uscirono allo scoperto.

Nel 1984 in Gran Bretagna uscì il Rapporto Warnock che conteneva le linee guida per la regolazione della fecondazione assistita, e subito anche in Italia fu nominata la Commissione Santosuosso ( che inizialmente aveva il compito – assurdo – di dare una opinione sulle inseminazioni eseguite con il seme del marito) che concluse i lavori nel 1986 presentando due diverse proposte di legge che prevedevano numerosi vincoli, ma avevano anche spiragli di apertura: prevedevano ad esempio la liceità del ricorso alla donazione dei gameti in subordine a una richiesta di adozione non corrisposta entro un tempo limitato. Ci furono anche altre commissioni, promosse da differenti Ministeri (ad esempio la commissione Guzzanti, nominata il 14 gennaio 1994 dal governo Ciampi) ma nessuna delle loro conclusioni fu mai resa pubblica né presa in considerazione dalle forze politiche.

Nel travagliato periodo che va dal 1989 al 1994 ci furono vari casi clamorosi di fecondazione assistita e la stampa si divertì ad annunciare un evento scandaloso dopo l’altro. A Bologna nacque un bambino da una ovodonazione della quale aveva beneficiato una donna ultrasessantenne, cosa che da un lato sgomentò i benpensanti e dall’altro fece venire idee bislacche a molte “ragazze” non più giovani: nel febbraio 1992 la cantante napoletana Miranda Martino annunciò in una seguita trasmissione televisiva di avere deciso di fare ricorso all’ovodonazione pur essendo alle soglie dei sessanta, un annuncio che altre donne non più giovani commentarono con favore. Nel 1990, sempre a Bologna, nel corso di una serie di esperienti di perfusione extracorporea di uteri umani fu impiantato in uno di questi organi un embrione umano, il primo caso di ectogenesi che si fosse mai verificato nel mondo e che fu interrotto dopo 52 ore: la notizia ebbe eco straordinaria ma in Italia suscitò solo critiche e imbarazzo, anche perché lo stesso Pontefice, in visita a Bologna , ebbe parole di deplorazione nei confronti dei ricercatori.

In quegli anni, a dispetto dei casi clamorosi annunciati dalla stampa, sembrava che i veri problemi “seri” sul tappeto fossero ben altri: quelli della riforma del sistema pensionistico (legge 30 dicembre 1992, n. 502), ad esempio, e quelli della riforma della legge 833/78 che istituiva il sistema sanitario nazionale (30 dicembre 1992 n. 502). I temi “eticamente sensibili” come quello della fecondazione assistita, si diceva, erano “di nicchia” e potevano tranquillamente aspettare. Le elezioni del 1994, tuttavia, parvero aprire una nuova fase politica. Silvio Berlusconi si presentò come un liberale proteso a innovare la vita italiana, liberandola dai ceppi di una partitocrazia percepita come troppo impegnata a spartirsi il potere secondo regole volgari e mafiose, tra le quali sembrava brillare almeno per coerenza il famoso “manuale Cencelli” ossia la formula usata per assegnare le cariche pubbliche in proporzione al peso elettorale di ciascun singolo partito o corrente di partito. La fecondazione assistita non rientrava nel “Contratto con gli italiani” firmato da Berlusconi nell’imminenza delle elezioni, né rientrava in modo specifico nel programma elettorale, ma il tema era sempre agli onori della cronaca e ci si attendeva una risposta in linea con l’indirizzo “liberale”. Le occasioni, in realtà, non mancavano: il 17 febbraio 1994 usciva la sentenza del “caso di Cremona” che riconosceva il disconoscimento di paternità a seguito di fecondazione con seme di donatore; il 23 giugno 1994 in Liguria nasceva una bambina, Sara, da una coppia lesbica; continuavano a nascere, a seguito di ovodonazioni, bambini partoriti da donne che avevano da tempo superato l’età della menopausa, e ogni volta si ripetevano le stesse critiche: era ormai prassi, per chiunque volesse strizzar l’occhio alla Chiesa cattolica, riferirsi alla fecondazione assistita come a un far West.

Deludendo le attese, il primo governo Berlusconi non fece nulla di significativo sul tema dei problemi bioetici dei quali si occupò solo negli ultimissimi giorni del suo mandato. se non nella fase finale. Costretto a rassegnare le dimissioni il 22 dicembre 1994. dalla defezione inattesa del suo principale alleato, la lega Nord, e mentre il Paese era ancora in attesa di capire che cosa sarebbe accaduto nel nuovo assetto istituzionale maggioritario (se nuove elezioni o altro), Berlusconi rinnovò il Comitato Nazionale di Bioetica affidandone la presidenza a Francesco D’Agostino, eliminando parte dei già pochi laici (quasi tutti i superstiti si dimisero): temi importanti come quello dello statuto ontologico dell’embrione furono così affidati a un Comitato a fortissima maggioranza cattolica ( fu definito il “Comitato dei Vescovi” ), una scelta evidentemente intesa a stabilire un rapporto preferenziale con il mondo cattolico. In realtà, per la sua composizione così impropriamente omogenea, il Comitato nominato da Berlusconi si differenziò dai precedenti perché non venne più mantenuto l’equilibrio tra le diverse “anime” del paese: i commentatori politici meno ingenui ne parlarono come del banco di prova in cui l’applicazione del sistema maggioritario avviava la prassi del “piglia tutto” della maggioranza.

Il 3 febbraio 1995 in una conferenza stampa organizzata dal Movimento per la Vita venne lanciata la proposta di legge d’iniziativa popolare per la modifica dell’ art. 1 del codice civile spostando l’acquisizione della capacità giuridica dalla nascita al concepimento. La proposta venne presentata alla Camera il 20 luglio 1995 sottoscritta da circa 200.000 persone, tra le quali c’erano 400 universitari (15 rettori, 40 tra presidi di facoltà e primari ospedalieri) che avevano firmato un Manifesto diffuso a mezzo stampa e col sostegno esterno di un altro milione e mezzo di credenti. Inoltre, alcuni candidati alle elezioni si erano impegnati a ripresentarla nella successiva legislatura. Divenne subito chiaro che quello dell’embrione sarebbe stato uno dei temi centrali in una discussione parlamentare inevitabile per approvare una normativa per la fecondazione assistita. La riflessione al riguardo fu poi sintetizzata nella domanda: “embrione: persona o cosa?”, una delle frasi ad effetto della propaganda cattolica (l’altra era: “l’embrione è uno di noi”).

Il 25 marzo 1995 uscì l’enciclica Evangelium Vitae di Giovanni Paolo II dedicata ai temi della bioetica, chiudendo in modo brusco le ultime schermaglie teologiche su queste tematiche e sciogliendo ogni eventuale dubbio residuo. È sempre difficile in assenza di documenti capire le ragioni che giustificano certi atti politici, ma non v’è dubbio che l’azione sinergica che si era creata tra i vari casi clamorosi relativi a “fecondazioni sopra le righe” e la risonanza emotiva collegata all’enciclica crearono il clima che indusse il ministro di Grazia e Giustizia a nominare il 23 maggio 1995 una nuova commissione, affidata questa volta al professor Busnelli per elaborare una nuova proposta di legge sulla fecondazione assistita. La commissione concluse i lavori il 10 maggio 1996 ma la proposta, malgrado fosse estremamente moderata, non trovò alcun riscontro sul piano politico. Voci indiscrete ma ricorrenti attribuirono questa disattenzione al fatto che ancora una volta una commissione ammetteva la donazione di gameti ( limitandola naturalmente a casi particolari), una scelta che il Vaticano non poteva evidentemente condividere.

In questo contesto il 22 giugno 1996 il CNB approvò all’unanimità il Parere “Identità e statuto dell’embrione umano” in cui l’embrione cessava di essere “questo sconosciuto” per diventare “uno di noi”. Questo documento diede molta forza e credibilità alla ipotesi cattolica che considerava la tutela dell’embrione come uno dei pilastri di un’eventuale legge. Nel febbraio del 1977 il problema della tutela che doveva essere garantita all’embrione fu oggetto di un convegno che si tenne a Firenze e al quale parteciparono Francesco D’Agostino, Giuliano Amato, Antonio Baldassarre e Carlo Casini. Il giorno dopo Giovanni Paolo II rincarò la dose dichiarando che si doveva riconoscenza “al Creatore per ogni vita umana: la vita è un grande dono di Dio, da accogliere sempre con rendimento di grazie. Se mi son detto più volte preoccupato per il vuoto di valori che minaccia la nostra convivenza, oggi vorrei richiamare con forza uno di questi valori fondamentali, che vanno assolutamente recuperati, se non si vuole precipitare verso il baratro: intendo riferirmi al valore sacro della vita, di ogni vita umana, dal suo sbocciare nel seno materno al suo naturale tramonto”. Ancora, altro risalto venne dato al discorso del papa al Convegno del 14 febbraio 1997 della Pontificia Accademia per la Vita dedicato a: “Identità e statuto dell’embrione umano” (stesso titolo del Parere del Cnb!) in cui affermava che “è giunta l’ora storica e pressante di operare un passo decisivo per la civiltà e l’autentico benessere dei popoli: il passo necessario per rivendicare la piena dignità umana e il diritto alla vita di ogni essere umano dal suo primo istante di vita e per tutta la fase prenatale”. Questo cammino avrebbe segnato – sono sempre parole del Pontefice – “una nuova tappa di civiltà per l’umanità futura, l’umanità del terzo millennio”.

Il dibattito si vivacizzò ulteriormente quando, il 17 febbraio, grazie all’intervento dell’equipe di Bologna, nacque Elena, la prima bambina venuta al mondo da oociti congelati. Il cardinale Biffi censurò la cosa come un “evento bestiale”, ma il fatto rappresentava comunque altra benzina sul fuoco in una situazione che in realtà sembrava tranquilla ma che di tanto in tanto presentava casi eclatanti sui quali cui i media richiamavano l’attenzione di tutti. In questo clima, in cui le nuove tecniche erano viste come un problema concreto per la morale di senso comune, il 22 febbraio Repubblica ruppe l’embargo giornalistico sulla notizia e annunciò al mondo la nascita della pecora Dolly, il risultato di uno straordinario esperimento scientifico che aveva consentito la clonazione di un mammifero. La notizia ebbe una straordinaria risonanza e creò forti preoccupazioni, non solo tra ricercatori e scienziati: a molti sembrò che il vaso di Pandora fosse stato scoperchiato una volta per tutte, si moltiplicarono le previsioni catastrofiche e da più parti fu richiesta una sospensione degli esperimenti.

I 28 febbraio 1997 l’onorevole Cananzi presentò una interrogazione nella quale chiedeva chiarimenti su quanto stava facendo il Ministero della salute per impedire ai ricercatori italiani di praticare ricerche vergognose come quelle sulla clonazione e sugli embrioni umani. Sensibile a queste richieste, il Ministro competente, Rosy Bindi, provvide subito a preparare due ordinanze: la prima per vietare il commercio di gameti, la maternità surrogata e di qualsiasi forma di pubblicità di queste pratiche, la seconda per proibire la clonazione animale e umana al fine di impedire agli scienziati di “giocare a fare Dio”. Il 12 marzo la presidente della Commissione Affari Sociali della Camera, Marida Bolognesi (Pds), avviava i lavori per un disegno di legge unificato. C’erano 16 progetti diversi e i problemi da affrontare erano i seguenti:

a) accesso alle tecniche di fecondazione assistita: decidere se ammettere la pratica solo come rimedio alla sterilità di coppia o anche in altri casi, ovvero se la Pma riguardi solo coppie sposate o conviventi o anche donne sole, o coppie omosessuali, se sia possibile l’accesso alle coppie portatrici sane di malattie genetiche e a quelle affette da malattie virali a trasmissione sessuale .

b) tipo di tecnica utilizzata: se fecondazione fuori del corpo della donna o semplice inseminazione, intrauterina o intratubarica;

c) tipo di intervento per la fecondazione: se utilizzando solo gameti del partner o ammettendo l’uso di gameti di donatore o di donatrice esterni alla coppia, con l’ulteriore problema delle modalità di donazione dei gameti (se oblativa, con rimborso spese, o ammettendo una remunerazione );

d) tutela prevista per l’embrione: definire l’embrione; decidere se attuare o no il congelamento (crioconservazione) dell’embrione; precisare destino degli embrioni soprannumerari; stabilire i limiti delle manipolazioni sugli embrioni .

e) maternità surrogata: se consentirla o no, di che tipo e a quali condizioni;

f) indagini genetiche da eseguire sull’embrione prima dell’impianto, o sui globuli polari dell’oocita: stabilire se siano lecite e in quali casi; decidere se consentire o no una selezione in caso di malattie genetiche trasmesse ereditariamente e se consentire la ricerca delle aneuploidie; stabilire la liceità della selezione del sesso, con quali tecniche e in quali casi.

Sembrava, comunque, che la controversia restasse nei normali parametri della divergenza politica, e poca attenzione fu riservata alla lettera aperta che Carlo Casini scrisse a Silvio Berlusconi e che fu pubblicata da Avvenire il 3 giugno in una pagina interna. Il presidente del Movimento per la Vita ricordava che pochi giorni dopo (il 9 giugno) avrebbe potuto sostenere l’ammissione di Forza Italia al gruppo del Partito popolare europeo “qualora” Berlusconi e Forza Italia avessero sostenuto il diritto alla vita dal concepimento e il valore della famiglia . Il giorno seguente (4 giugno) Berlusconi rispondeva che Forza Italia aveva le carte in regola per entrare nel Gruppo del Partito Popolare europeo perché i suoi “parlamentari europei […] si sono sempre schierati in difesa dei diritti della famiglia e della vita nascente”, diversamente dal Partito popolare italiano che “ha dovuto sacrificare i suoi principi sull’altare di un’alleanza innaturale con i comunisti”.

Sempre il 4 giugno L’Osservatore Romano pubblicò un breve corsivo del direttore Mario Agnes dal titolo: “Può un cattolico ferire il progetto di Dio sull’uomo?”. Senza entrare nelle questioni di costituzionalità del progetto Bolognesi, Agnes si poneva la domanda: “può la formulazione di leggi dell’uomo prevalere sulla Legge di Dio la quale, oltre ad essere incisa sulle Tavole, è inscritta in quella inoppugnabile fortezza interiore che è la coscienza?”, precisando subito che tale termine indicava la coscienza “illuminata dalle Verità della Fede e dal Magistero del Papa e dei Vescovi in comunione con lui”. L’articolo faceva anche riferimento al “gesto esemplare” del re del Belgio, Baldovino, che nel 1989 aveva abdicato per un giorno per non firmare la legge sull’aborto, indicandolo come modello di comportamento valido anche per la fecondazione assistita.

Il giorno dopo, il 5 giugno, ebbe inizio una polemica di inusuale intensità tra Marini (segretario del Partito Popolare Italiano ) e i vescovi, per ragioni fondamentalmente banali (Marini aveva scritto che quando i vescovi parlano di politica possono sbagliare). La Cei rispose a Marini, con una forte dose di acidità, che non si trattava di mere manovre di bassa cucina e che sembrava loro inspiegabile che Marini non arrivasse a comprendere che era in gioco la “sorte degli embrioni e il rapporto tra procreazione e vincolo coniugale”. Il progetto di legge rischiava dunque di “svuotare e di stravolgere il concetto stesso di famiglia” e metteva in forse i “valori fondanti della nostra civiltà”.

Quello che accadde in quei primi giorni di giugno 1998 produsse effetti duraturi e di notevole portata, alcuni visibili immediatamente, altri emersi anche a notevole distanza di tempo. A breve termine la polemica impedì che il decreto legge fosse approvato in commissione e ne sancì il passaggio in Aula. Massimo D’Alema, leader del maggior partito della coalizione di governo, si precipitò a ribadire la “libertà di coscienza” dei parlamentari sui temi della bioetica mentre Marini riaffermò la fedeltà dei parlamentari Ppi agli orientamenti della Chiesa e il voto contrario ai punti salienti del progetto Bolognesi. Ma ci furono anche conseguenze non immediatamente visibili e destinate a emergere a lungo termine: ad esempio la polemica fece venir meno la fiducia delle gerarchie ecclesiastiche nel Ppi, e l’ingresso di Forza Italia nel Ppe stabilì accordi più solidi con Berlusconi circa la tutela della vita e della famiglia. Insomma, silenziosamente ma con molta efficacia Berlusconi assunse un ruolo simile a quello che prima era gestito dalla Democrazia Cristiana.

Per lasciar raffreddare la polemica si optò per una pausa di riflessione e si rinviarono tutte le possibili scelte. Il 9 ottobre 1998 Prodi rassegnò le dimissioni e fu sostituito da D’Alema, il quale ritenne conveniente posticipare ulteriormente ogni decisione, convinto che la stretta sorveglianza alla quale erano sottoposti i cattolici non avrebbe consentito loro di ricorrere a strategie parlamentari consolidate come la “astensione tecnica” che sarebbero invece state necessarie per non ostacolare l’approvazione della legge. Alla fine di gennaio del 1999 la proposta fu portata in aula alla Camera, e subito emersero difficoltà, col cambiamento della formulazione dell’art. 1 nel quale si faceva riferimento ai diritti dell’embrione. Quando poi il 4 febbraio fu approvato (con 251 voti favorevoli e 215 contrari) il cosiddetto emendamento Cè (che vietava le donazioni di gameti) all’art. 4 fu evidente che il disegno di legge era ormai completamente stravolto: l’onorevole Bolognesi si dimise e lasciò l’incarico di presentare il progetto di legge allo stesso Cè, un parlamentare di Lega Nord. Dopo una pausa, l’iter proseguì e il 26 maggio la Camera licenziò (266 si contro 153 no) un testo molto restrittivo che addirittura prevedeva la cosiddetta “adozione per la nascita” al fine di dare un’opportunità di vita anche agli embrioni congelati.

Passato al Senato, il nuovo relatore Carrella (Verdi) cercò di correggere almeno le incongruenze più marcate , ma la nuova maggioranza trasversale che si era creata era impermeabile a qualsiasi suggerimento e ignorò tutti i tentativi di modificare il testo. Ci fu anche un intervento del cardinale Ruini che fece ripetute pressioni altrettanto esplicite quanto illecite sui senatori, sollecitando l’approvazione della legge e che arrivò a dichiarare che la Chiesa non era contenta nemmeno di quell’obbrobrio che stava per essere approvato. Tutto lasciava credere che i giochi fossero ormai fatti , ma la mattina in cui la legge doveva essere approvata in modo definitivo , il 7 giugno, accadde uno dei fatti più strani della politica italiana degli ultimi tempi . La maggioranza dei senatori del centro destra non rispose all’appello: gli assenti si giustificarono poi dichiarando di aver avuto problemi a causa del traffico cittadino, una scusa alla quale nessuno naturalmente credette. All’ora fissata si passò alla votazione e furono approvati emendamenti che certamente la maggioranza cattolica si sarebbe ben guardata dal votare: la conclusione fu che la legge saltò e si capì che bisognava ricominciare tutto da capo. Secondo i commentatori politici del tempo se la legge fosse passata, il merito sarebbe andato al Ppi, che avrebbe guadagnato così il favore dei vescovi italiani. Ma la legge non fu approvata e nelle elezioni del 2001 la Chiesa fece una scelta (incredibile sul piano etico, ma vincente sul piano della concretezza): appoggiò e sostenne Berlusconi, e lasciò che i Popolari si dissolvessero.

Con la nuova legislatura si arrivò quasi subito all’approvazione della legge (presentata ai due rami del Parlamento come blindata, cioè chiusa ad ogni suggerimento di modifica) dopo uno scontro che fu in realtà durissimo. Approvata che fu la legge sembrò inevitabile cercare di eliminarne i punti realmente inaccettabili con un referendum, anche se molte persone del fronte laico ritenevano che questa fosse una scelta sbagliata Non mancarono comunque i tentativi di revisione, proposte che vennero da entrambe le parti, essendo diffusa la sensazione che la nuova legge non avrebbe retto a un esame critico della Consulta.

In realtà, per uno strano scherzo del destino (o per un improvviso risveglio della loro coscienza di studiosi e di medici) furono i due Presidenti delle Commissioni del Senato e della Camera che avevano competenza in materia di Sanità (il Senatore Tomassini e l’Onorevole Palumbo) a presentare le prime proposte di modifica: entrambi esponenti di Forza Italia, entrambi medici, entrambi ginecologi, entrambi esperti di terapia della sterilità, entrambi cattolici, concluso il paziente lavoro politico che aveva consentito di approvare la legge 40 con la blindatura che era stata prudentemente richiesta dalla maggioranza politica, firmarono due differenti disegni di legge, dai quali traspariva un fondamentale malumore nei confronti delle norme appena approvate.

Se questi progetti avevano colpito l’opinione pubblica, soprattutto in considerazione della parte politica che li aveva prodotti, la maggior attenzione fu certamente quella dedicata alla proposta di Giuliano Amato che rappresentò il tentativo più “alto” di mediazione di quel particolare momento storico.

Il progetto di Amato evitava di attribuire “diritti” al “concepito”, riferendosi invece al “rispetto e alla tutela della dignità umana”. Apriva quindi l’accesso alle cure alle coppie portatrici di malattie infettive e genetiche, consentiva le indagini genetiche sugli embrioni, autorizzava il congelamento degli oociti fecondati prima della formazione dello zigote ( allo stadio cioè di ootide),la produzione di un numero di embrioni superiore a quello necessario per un solo impianto, ammettendo la crioconservazione dei soprannumerari. Autorizzava poi la donazione di gameti, con la clausola di un controllo da parte di una commissione regionale che doveva confermare l’esistenza di ragioni valide prima di autorizzare l’intervento. Trovava anche modo di stabilire la liceità della ricerca scientifica sugli embrioni, equiparando quelli abbandonati alle persone in coma irreversibile, e assimilando l’uso delle cellule dei primi a quello degli organi dei secondi. La proposta di Amato rappresentò l’offerta più intelligente di mediazione presentata al mondo cattolico, ma per ragioni non chiare non incontrò le simpatie né dell’una né dell’altra parte.

I cattolici, rappresentati soprattutto dal il Movimento per la Vita , si erano molto battuti per l’ approvazione della legge 40 e avevano cercato di far passare l’idea che non si era trattato tanto di inserire norme cattoliche nel nostro ordinamento giuridico, ma di dar voce a una nuova “maggioranza silenziosa”, stanca dell’egoismo di alcuni e della follia di altri, convinta che “non tutto ciò che è tecnicamente possibile è eticamente ammissibile”. La tesi sostenuta dai vescovi, poi, era che se la Chiesa avesse veramente avuto mano libera sarebbe stato approvato un solo articolo: “Le fecondazioni assistite sono proibite” e che per la morale cattolica la legge 40 rappresentava il risultato di una opera di mediazione che meritava il rispetto di tutti i cittadini , il massimo che i cattolici potevano offrire. Ne conseguiva che per il Movimento per la Vita e per la CEI il referendum doveva fallire. La riposta dei laici a queste considerazioni non fu molto razionale sembrò ispirata soprattutto dalla rabbia: se i cattolici non andavano a votare, replicarono, doveva essere chiaro a tutti che il loro rispetto per le regole della democrazia era pressoché inesistente, considerato soprattutto il fatto che l’istituto del referendum era stato fatto resuscitare proprio da loro dopo l’approvazione della odiata legge sul divorzio.

La scelta di disertare le urne fu appoggiata dalle posizioni di Daniele Consenzi (Il foglio, 20 novembre 2004), di Sandro Magister (l’Espresso, 4 ottobre 2004) e di Carlo Casini che dichiarava che “… con la posta in gioco vale il motto per cui il fine giustifica i mezzi. “. Su posizioni simili si attestarono Giancarlo Cesana, leader di Comunione e Liberazione (“valuteremo se schierarci per il no, oppure proporre l’astensione”), Don Livio Fanzaga, direttore di Radio Maria, e Luca Marconi, del Rinnovamento dello Spirito. Diversa l’opinione di Giovanni Cantoni, di Alleanza Cattolica: “Non disprezzo chi sceglie l’astensione, ma un atteggiamento netto è più mobilitante e più catechizzante” (ma aggiungeva che “tuttavia se i sondaggi confermassero la sconfitta e una rete organizzata si mobilitasse compatta per l’astensione rivedrei la mia idea, perché bisogna vincere”).

Opus Dei, Azione Cattolica, Neocatecumenali, Focolarini e Acli dimostrarono inizialmente qualche perplessità ma trovarono ben scarsa comprensione (scrisse Francesco Agnoli che “diversi vescovi, di fronte al referendum sulla fecondazione artificiale, preferiscono il silenzio, il dribbling, il salto ad ostacoli, e sfuggono alle proprie responsabilità”).

Il 12 e il 13 giugno del 2005 andarono a votare poco più di 12 milioni e 700.000 cittadini, il 25,6% degli aventi diritto, e per nessuno dei quesiti fu raggiunto il quorum. Votarono in favore della abrogazione l’88% circa dei partecipanti al voto per tre dei quesiti; minor successo ebbe il quarto, quello relativo alle donazioni di gameti, approvato solo dal 77% dei votanti.

La scarsa affluenza alle urne venne interpretata da alcuni come un segnale di insofferenza nei confronti della democrazia diretta, considerata come un surrogato della democrazia rappresentativa e della sua incapacità di svolgere il proprio compito (Ilvo Diamanti, intervento su Repubblica Radio, 13 giugno 2005); per altri invece si sarebbe trattato del frutto “della maturità del popolo italiano, che si era rifiutato di pronunciarsi su problemi tecnici e complessi, che amava la vita e diffidava di una scienza che pretendeva di manipolare la vita” ( Camillo Ruini, Radio Vaticana, 14 giugno 2005). Diversa fu l’interpretazione dell’Istituto di studi e ricerche Carlo Cattaneo che scriveva: “sin dal 1999 è del tutto evidente che il quorum è tecnicamente irraggiungibile quando una pur piccola minoranza decide di usare lo strumento dell’astensionismo strategico, che si somma all’astensionismo naturale, progressivamente incrementato del resto dal fallimento dei referendum precedenti”.

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Le critiche del mondo cattolico

Le ragioni fondamentali della contrarietà del Magistero Cattolico nei confronti della PMA erano – o sembravano essere – soprattutto la notevole perdita di embrioni ( lo spreco, si diceva) e poi, progressivamente, i modi – ritenuti gravemente illeciti e contrari alla morale – di manipolare gli embrioni, crioconservarli, abbandonarli in frigorifero, utilizzarli come cose e non come persone.

Col passare del tempo divennero più chiari e articolati i motivi che avevano convinto il mondo cattolico a impegnarsi in una battaglia che aveva, lo si intuiva fin dagli inizi, molte probabilità di risultare vittoriosa in tempi brevi e ancora maggiori chance di finire sconfitta nella corsa prolungata. Una delle ragioni fondamentali aveva ben poco di nuovo, visto che riguardava le donazioni di gameti, iscritte nell’elenco degli atti innaturali da molto tempo da molti anni. Poi è stata la volta delle indagini genetiche e della possibilità di selezionare embrioni geneticamente normali, un fatto certamente nuovo, ma che non aveva assolutamente niente di peculiare in quanto esisteva già da molto tempo la possibilità di selezionare i feti abortendo quelli che risultavano malati alle indagini genetiche ed ecografiche prenatali. Ma la PMA si rivelò ben presto – e molti bioeticisti cattolici lo avevano previsto – una tecnica capace di moltiplicare gli atti contro natura, proponendo gravidanze per altri, terapie geniche, uteri artificiali e così via. Infine venne dai laici una proposta inattesa, che il mondo cattolico cercò invano di ignorare: smettiamo, dicevano i bioeticisti laici, di discutere delle tecniche, è in atto un vero e proprio conflitto di paradigmi ed è su di esso che dobbiamo concentrare la nostra attenzione.

Progressivamente gli attacchi alla PMA, che all’inizio erano più bruschi che malevoli (“tecniche veterinarie dedicate all’adulterio “) sono divenuti sempre più determinati e dogmatici, fino ad arrivare in pratica al rifiuto di un confronto civile e di una discussione: era così, era assolutamente così, e basta.

A questa nuova posizione fece seguito naturalmente l’abbandono della GIFT e una fase di polemiche particolarmente dure nei confronti dei medici che praticavano la PMA, il periodo nel quale la nascita della prima bambina da un oocita congelato fu salutata dall’Arcivescovo di Bologna come un “evento bestiale).

Il paradigma cattolico e la dittatura dell’embrione

I principi del “paradigma cattolico” che sono stati affermati e sui quali non si è mai consentita una discussione pacata sono dunque: il diritto alla vita dell’embrione; il valore del matrimonio e del “principio famiglia”; la contrarietà nei confronti di ogni forma, anche indiretta, di selezione, considerata come “eugenetica”.

Il tema dello statuto ontologico dell’embrione è così rilevante da indurre a pensare che questo sia il problema più importante e decisivo di tutta la bioetica, responsabile di un confronto simile a quello che opponeva tolemaici e copernicani. Non è comunque chiaro se questo sia un tema a sé stante o se faccia invece parte del più generale problema procreativo; è anche possibile che l’argomento che sta veramente a cuore ai cattolici sia in realtà quello della famiglia e che la questione dell’embrione sia meno importante di quanto può sembrare a prima vista.

Per affermare i diritti del concepito, dell’embrione “uno di noi”, persona fin dal primo incontro tra i gameti, i cattolici hanno comunque rinunciato a polemiche relative ad altri aspetti della loro dottrina. Il loro impegno ha trovato comprensione e appoggio nel Pontefice Giovanni Paolo II e in molti Cardinali ed è stato interpretato come un importante passo nel cammino dei diritti umani. Oggi è riconosciuta da tutti l’esistenza di un’eguaglianza “orizzontale”, che ci fa tutti uguali indipendentemente dalla razza, dal sesso e dal censo. Secondo i cattolici a questa eguaglianza è necessario affiancare quella “in verticale”, che riguarda tutte le fasi della vita umana dal concepimento alla morte. Ecco dunque spiegato il grido d’orrore che si leva al pensiero dell’uccisione premeditata di migliaia di embrioni nei laboratori e nei frigoriferi, un eccidio che richiama alla memoria i campi di sterminio tedeschi. Di qui, affermazioni come questa, vagamente paradossale: “gli embrioni congelati sono esseri umani in un campo di concentramento di ghiaccio (Elio Sgreccia, Il Corriere della Sera, 17/3/2004).

Gli slogan cattolici non erano né numerosi né originali, ma avevano una certa efficacia. “Il nuovo essere umano ha inizio nell’istante in cui lo spermatozoo ha cominciato ad entrare nell’oocita. Ciascuno di noi ha cominciato ad esistere in quel preciso istante”. Dunque “l’embrione è già persona umana fin dal momento della fecondazione. Vivrà fasi diverse ma in un continuum esistenziale che la scienza stessa riconosce”. C’è, come si può ben vedere, una nota affascinante di ipocrisia: scienza e religione vanno finalmente d’accordo, non c’è tra loro contrasto alcuno. Questa polemica ha comunque avuto straordinarie ripercussioni sul dibattito relativo allo statuto ontologico dell’embrione al punto che negli scontri televisivi c’era quasi sempre un cattolico che chiedeva a un laico se l’embrione era una cosa o una persona e un laico che replicava citando la Commissione di Bioetica della Società Americana di Fisiopatologia della Riproduzione, secondo la quale era possibile considerare l’esistenza di una terza categoria e che negava la correttezza del tertium non datur.

E’ bene ricordare a questo punto che all’interno del mondo cattolico esistono numerose teorie sull’inizio della vita personale e che un grandissimo numero di embriologi e di filosofi la pensano in modo assolutamente opposto. E anche necessario ricordare che le polemiche tra sostenitori di differenti paradigmi non sono sempre state corrette : ad esempio il bioeticista cattolico Elio Sgreccia ha accusato gli “inventori” del termine “ootide” di cercare soluzioni furbesche e antiscientifiche per un problema che è ormai stato risolto in modo definitivo proprio dalla scienza, accusa evidentemente priva di fondamento. Una seconda strategia usata di frequente è stata quella di interpretare la scelta delle persone che rifiutano il paradigma cattolico come il frutto di un totale asservimento a una disumana cultura della morte, di essere state influenzate da principi filosofici utilitaristici e materialistici fino ad utilizzare una vera e propria “antilingua” intesa a modificare la realtà delle cose assegnando alle parole nuovi e distorti significati. Un esempio di questa antilingua, secondo i bioetici cattolici, sarebbe l’uso del termine “pre-embrione”, introdotto solo per giustificare i lucrosi interventi sugli embrioni. In realtà, la definizione di tre differenti livelli di sviluppo (germe, embrione, feto) si ritrova proprio negli scritti di un gesuita, A. O’Maley, che risalgono ai primi anni del secolo scorso, sono stati ripresi negli anni ’60 da un altro gesuita, Angelo Boschi, si possono leggere nei libri anglosassoni di embriologia scritti a partire dal 1930: ma i bioeticisti cattolici hanno sempre ignorato queste contestazioni.

Le tesi cattoliche sullo Statuto dell’embrione

Per risalire al pensiero tradizionale del pensiero teologico e filosofico della Chiesa cattolica relativamente all’inizio della vita personale bisogna chiamare in causa Tommaso d’Aquino, che aveva aderito alla dottrina di Aristotele sulla successione delle anime nell’embrione umano e che sosteneva che l’anima razionale è infusa nel feto 40 giorni dopo la fertilizzazione. Secondo questa ipotesi il seme umano deriverebbe dall’eccesso di nutrizione e possiederebbe una sorta di virtus formativa che, aggiunta allo spirito vitale del seme e a tre forme di calore (prodotto rispettivamente dalla biologia, dall’anima e dal cielo) guiderebbe lo sviluppo dell’embrione. Questa dottrina della successione delle anime sembra ispirarsi ad antiche teorie sulla contiguità dei gradi di perfezione secondo le quali il punto più alto del grado ontologicamente inferiore tocca il punto più basso del grado immediatamente superiore, verso il quale è teleologicamente orientato. Come per Aristotele, le tre anime descritte da San Tommaso svolgono funzioni vegetative, sensitive e intellettive, e le prime due sono contenute nella terza come un triangolo è contenuto in un pentagono. Questa teoria, detta dell’animazione ritardata, non è mai stata completamente abbandonata, malgrado i molti colpi subiti dal progredire delle conoscenze e dall’interferenza di conoscenze erronee ( come quella del preformismo, che ebbe breve fortuna nel XVII secolo).La tesi dell’animazione ritardata ha avuto vari e importanti sostenitori fino a tempi molto recenti: J.Maritain, E.C.Messenger, A.Stefanelli, J Donceel e molti altri e l’ilomorfismo ha ancora seguaci tra in pensatori cattolici.

A partire dalla seconda metà del secolo scorso l’opinione dei teologi cattolici andò incontro a un progressivo mutamento: cominciò infatti a prevalere l’idea che il problema dell’inizio della vita personale non era tanto filosofico e teologico quanto etico: attribuire questa competenza ai moralisti significava molto semplicemente il riconoscimento che la risposta alla domanda relativa all’inizio della vita personale ha immediati riflessi sull’atteggiamento che deve essere tenuto nei confronti dell’aborto provocato. Il passaggio dalla teologia alla cura pastorale è stato completato dalla decisione di battezzare ogni feto abortito, purché vivo.

Le tesi della Chiesa cattolica romana sull’embrione sono costruite in appoggio alla posizione morale che difende la vita dal concepimento alla morte naturale. Esse sono basate sia su argomentazioni scientifiche che su considerazioni filosofiche. Per sottolineare l’importanza delle tesi scientifiche si sottolinea spesso il passo della Congregazione per la dottrina della fede (Dichiarazione sull’aborto procurato, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 1998, nn. 12-13) che così recita: “dal momento in cui l’ovulo è fecondato, si inaugura una vita che non è quella del padre o della madre, ma di un nuovo essere umano che si sviluppa per proprio conto. Non sarà mai reso umano se non lo è stato fin da allora. A questa evidenza di sempre (perfettamente indipendente dai dibattiti circa il momento dell’animazione) la scienza genetica moderna fornisce preziose conferme. Essa ha dimostrato come dal primo istante si trova fissato il programma di ciò che sarà questo vivente: un uomo, quest’uomo individuo con le sue caratteristiche già ben determinate. Fin dalla fecondazione è iniziata l’avventura di una vita umana, di cui ciascuna delle grandi capacità richiede tempo per impostarsi e per trovarsi pronta ad agire. Il meno che si possa dire è che la scienza odierna nel suo stato più evoluto, non dà alcun appoggio sostanziale ai difensori dell’aborto”.

In realtà, la posizione della Chiesa dei tempi più lontani si è basata assai poco sulla biologia e sulla scienza come si può ben capire se si continua a leggere questo passo, che continua così: “Del resto, non spetta alle scienze biologiche dare un giudizio definitivo su questioni propriamente filosofiche ….. come quella del momento in cui si costituisce la persona umana”. A parte il fatto, naturalmente, che “non spetta alla scienza di prendere posizione, perché l’esistenza di un’anima immortale non appartiene al suo campo”.

Se si sceglie la filosofia come terreno di argomentazione (e di scontro) si deve ammettere che la risposta al problema – quando ha inizio la vita personale – dipende dalle differenti visioni antropologiche di riferimento, e pertanto dalle diverse definizioni di persona. Si contrappongono così due distinte visioni dell’uomo, una classica (antropologia sostanzialista) e una moderna (antropologia funzionalista). Secondo la prima, la persona avrebbe inizio con la formazione di una particolare sostanza – che poi si esplica anche in funzioni e in capacità, ma è indipendente da queste – e termina con la dissoluzione della sostanza. Per la seconda, invece, per poter parlare di persona bisogna che siano presenti alcune particolari funzioni o capacità (come quella di entrare in relazione con gli altri, ad esempio) la cui perdita definitiva comporta la fine della persona. L’antropologia funzionalista richiede che il processo vitale abbia le capacità di svolgere le funzioni superiori richieste, ma non che le manifesti in ogni momento. Molti fautori dell’antropologia sostanzialista hanno sostenuto le tesi ilomorfiste – secondo le quali l’anima spirituale viene infusa quando la materia è sufficientemente formata per accoglierla – giungendo a posizioni simili a quelle dell’antropologia funzionalista. In pratica è stata richiamata l’antica definizione di Severino Boezio, secondo la quale la persona è qualcosa che ha natura razionale e sostanza individuale. Su questa posizione era uno dei maggiori filosofi cattolici, Jacques Maritain, che riteneva un’assurdità filosofica ammettere che il feto umano riceva la sua anima intellettiva in un momento in cui la materia non è ancora per nulla disposta a questo riguardo.

Oggi la maggior parte dei bioeticisti cattolici sostiene la posizione del personalismo ontologico, secondo la quale un individuo umano può possedere la natura razionale anche senza manifestare sempre tutte (e al massimo grado) le caratteristiche richieste dai funzionalisti: dunque essere persona dipende dalla natura ontologica di determinati individui.

Così, sapere quando l’embrione diventa persona dipende non più dalla riflessione filosofica, ma dai dati empirici della biologia e della genetica che studiano l’ontogenesi. Questo concetto, non solo contraddice quello della congregazione per la dottrina della fede, ma se ci pensate rovescia una situazione che le dispute di quasi un secolo avevano consolidato.

Infatti, fino a un passato neppur tanto lontano erano i cosiddetti materialisti a chiamare in causa la biologia e la scienza, affrontando questo problema, e ad essi rispondevano i teologi facendo spallucce e ricordando a tutti che la “biologia non ha alcuna voce in questo capitolo, solo la filosofia …”. Oggi, Elio Sgreccia pubblica sul Corriere della Sera un articolo che è in pratica un elogio appassionato della biologia, che conferma, che dimostra, che prova inequivocabilmente che l’embrione è uno di noi e ha la stessa nostra dignità di persona.

I bioeticisti cattolici sostengono di giungere alle loro conclusioni sempre e soltanto attraverso procedimenti razionali; esattamente come (almeno in teoria) ritiene di fare un bioeticista laico e discutere dell’inizio della vita personale è una ottima occasione per mettere alla prova questa razionalità

In realtà, come abbiamo già ricordato, esistono oggi un numero imprecisato di teorie sull’inizio della vita personale. Alcune di queste teorie sono state proposte da laici, da non credenti o da fedeli di una religione diversa da quella cattolica apostolica romana: le trascuriamo, per citare solo quelle che con il nostro cattolicesimo hanno rapporti precisi, o per essere state proposte da filosofi o bioeticisti cattolici, o per essere state accettate da personaggi del clero cattolico di qualche prestigio nel campo della filosofia, della teologia o della bioetica. La razionalità di tutte queste teorie si basa sulla pretesa di essere in qualche modo sostenute dalla biologia, una pretesa che a noi sembra molto difficile da sostenere.

Questo è un breve elenco di queste teorie, di alcune delle quali parlerò poi in dettaglio:

· la teoria dell’attivazione dell’oocita, che identifica l’inizio della vita personale con il momento in cui si modifica la membrana pellucida, inizio di un processo irreversibile i cui protagonisti possono essere soltanto quell’oocita e quello spermatozoo;

· la teoria del genoma unico, che identifica l’inizio della vita personale con l’anfimissi (la formazione di un patrimonio cromosomico diploide) detta anche teoria post-zigotica;

· la perdita della totipotenza dei blastomeri, o teoria della blastocisti;

l’attivazione del genoma embrionale;
l’impianto dell’embrione in utero;
· la comparsa della linea embrionaria primitiva e la perdita della capacità di formare gemelli;

la comparsa di cellule del sistema nervoso;
A queste ipotesi, costruite su elementi essenzialmente biologici, si deve aggiungere l’ipotesi dell’ilomorfismo, più nota come teoria dell’animazione ritardata.

Tutte queste ipotesi asseriscono di avere una base razionale e del resto non avrebbe alcun senso discutere e mettere in dubbio una teoria basata su principi di fede. Ma poiché sono la scienza e la ragione che vengono chiamate in causa, mi sento molto più a mio agio: si tratta in effetti di stabilire attraverso quali meccanismi (non dogmatici) è possibile stabilire con tanta certezza che un ragionamento è vincente su tutti gli altri possibili – e senza alcuna possibilità di dubbio – e si tratta di capire se le prove addotte da queste ipotesi sono in realtà tali.

Imbarazzo e confusione

Proviamo a trarre qualche conclusione da queste – certamente incomplete – considerazioni sullo statuto ontologico dell’embrione. Il problema, purtroppo, è complesso, e basta ben poco per alzare una polvere fittissima che non consente più a nessuno di vederci chiaro. Lo dimostra il fatto che ne hanno parlato – e ne hanno addirittura fatto un proprio cavallo di battaglia – giornalisti ignorantissimi, che hanno imparato a memoria frasi come “mi dica se l’embrione è cosa o persona” o “mi dica allora se l’embrione si può comprare”, e su queste stupidaggini hanno costruito fascino e consensi (naturalmente in televisione).

E’ possibile che il Magistero Cattolico si sia trovato spiazzato e confuso di fronte a una biologia sempre più attenta ai particolari e per niente disposta ad assumere ruoli che non le competono. Lo dimostra il fatto che all’interno del Comitato Nazionale per la Bioetica ci sono stati bruschi cambiamenti di posizione, e illustri genetisti hanno prima sostenuto un’ipotesi, poi l’hanno rapidamente abbandonata per diventare paladini dell’opposta teoria, senza una parola di giustificazione. È vero che viviamo in un periodo in cui le coscienze debbono confrontarsi continuamente con nuovi e difficili quesiti, ma in questo caso l’intervento dell’autoritas directiva externa è stato un po’ troppo esplicito.

In realtà, cosa c’entra la biologia in tutto questo non riusciamo proprio a capirlo. Chi voglia leggere quanto di meglio è stato scritto in merito al rapporto tra la biologia e la storia della nozione di vita si rivolga al bel libro di André Pichot (Histoire de la notion de vie, ed. Gallimard, 1993). Pichot, citando soprattutto Claude Bernard, conclude che la biologia moderna ignora la nozione di vita, perché una scienza sperimentale non deve dare una definizione della vita. Secondo Pichot – e secondo Claude Bernard – si tratterebbe di una definizione data “a priori” e “il metodo che consiste nel definire prima e poi dedurre tutto dalla definizione data può convenire alla filosofia, ma è contrario allo spirito stesso delle scienze sperimentali”. Ne segue che “basta intendersi sul significato della parola vita per poterla utilizzare ed è illusorio e chimerico (e ancora una volta contrario allo spirito della scienza) cercare di darne una definizione assoluta”. La biologia moderna ignora dunque la nozione di vita e si accontenta di analizzare gli “oggetti” che il senso comune le indicano come “viventi”, e la sua analisi dimostra che essi possiedono un certo numero di caratteristiche fisico-chimiche identiche. La definizione di vita, se mai viene evocata, è riportata all’infinito, come scopo e fine ultimo della biologia. In questo modo, usando un metodo esclusivamente analitico e sperimentale, si è rafforzata l’efficacia e la scientificità del lavoro del biologo: ciò ha comportato una tale “fisicalizzazione” da dare l’impressione che, per rendere scientifica la biologia, sia stato necessario negare ogni scientificità al suo oggetto.

Tutte le discipline biologiche mettono in evidenza la perfetta identità della natura della materia e delle leggi che la regolano sia per quanto riguarda gli esseri viventi che per quanto concerne gli oggetti inanimati: negli esseri viventi ci sono alcune molecole e alcune reazioni biochimiche che le riguardano che oggi non si trovano negli oggetti inanimati, c’è una tale unità di composizione che si può ammettere che le differenze che si riscontrano tra specie diverse, tra individui della stessa specie e nello stesso individuo in differenti momenti della vita non sono sufficienti per alterare l’unità del “fenomeno vivente”. Si delinea così un quadro di “essere vivente in generale” costituito da tutto ciò che di chimico-fisico c’è in comune tra gli esseri viventi e tra essi soltanto. Limitare la specificità del vivente a queste caratteristiche è come negarla, perché la si riferisce a una differenza qualitativamente analoga a quella che esiste tra due oggetti inanimati. Esisterebbe dunque solo un certo numero di oggetti che differiscono tra loro solo per le caratteristiche fisico-chimiche: ci si chiede perché dovrebbero essere divisi in due, piuttosto che in tre o in quattro classi, considerato il fatto che i criteri della ripartizione non sono né chiari né espliciti e si fondano soprattutto sul senso comune, che dice che certi oggetti con certe caratteristiche fisico-chimiche comuni debbono essere definiti come viventi. Ma non si tratta di una scelta della biologia ma piuttosto di un tentativo di giustificare dal punto di vista fisico-chimico la scelta fatta dal senso comune.

Così, la biologia considera la vita come una particolare qualità che compare a partire da un certo grado di complessità dell’organizzazione fisico-chimica e alla quale il senso comune attribuisce un nome specifico. La biologia ritiene che non esista un “fantasma” dentro alla macchina, e che comunque la specificità dell’essere vivente non risiede in quel fantasma. Ma non sa né come né quando la vita emerge dalla materia, né sa se l’emergere della vita ha un ruolo, un significato, una necessità. La biologia capisce che la definizione di essere vivente ha carattere temporale, ma non ha motivi per distinguere tra due esseri viventi temporanei e non ha alcun ruolo nella precisazione di definizioni meramente filosofiche come quella di persona, o di vita personale, o di vita individuale.

Pensiamo che esista un equivoco di fondo dunque, relativamente al ruolo della biologia, che non dimostra e non ha interesse a dimostrare alcunché in questo campo. E’ possibile che alcuni filosofi abbiano scambiato per conferme quelle che non sono altro che precisazioni, risposte a domande specifiche. Un filosofo ritiene che la vita personale abbia inizio nel momento in cui prende origine un processo unico e irreversibile, e il biologo gli dice che quel momento può essere identificato nell’attivazione dell’oocita. Ma un secondo filosofo è convinto che si possa parlare di vita individuale solo dal momento della formazione di un genoma unico, e il biologo punta il dito sull’anfimissi. Come vedete, nessuna verità, solo risposte a quesiti diretti: la verità che i filosofi vorrebbero ascoltare, oggi i biologi non la conoscono (e come dice Pichot, se la conoscessero la riprodurrebbero).

Riteniamo che i bioeticisti cattolici siano consapevoli di quanto sia fragile e priva di fondamenta la loro tesi sull’embrione: se così non fosse, non avrebbero tirato in ballo il principio di precauzione, la scialuppa di salvataggio di tutte le filosofie che si basano molto sulla metafisica e poco (o nulla) sulla ragione. Ma, come ha più volte scritto Maurizio Mori, questo argomento non vale per chi condivide la tesi di Maritain che l’embrione non è certamente persona e che crederlo sarebbe un’assurdità filosofica. Dissolto il dubbio, il principio di precauzione non ha motivi per essere applicato.

“Il principio famiglia”

Se c’è un concetto che ha subito sostanziali modificazioni nel corso degli ultimi secolo questo è certamente quello di genitorialità. Elisabeth Badinter, filosofa francese contemporanea, seguendo a distanza di tempo le indicazioni di Simone de Beauvoir ( la prima, si dice, a far esplodere le sbarre della prigione femminile rimettendo la biologia al suo giusto posto) , nel suo libro Un amour en plus, Histoire de l’amour maternel, XVIIe-XXe siècle (Flammarion – 1980) scrive che l’essere madre non è innato nella donna, che non esiste alcun istinto materno e che la maternità non ha in sé nulla di naturale. Porta l’esempio di innumerevoli donne che sono state costrette – dalla società, dalla vita, dalle circostanze – a liberarsi dei propri figli, a non farli nascere, a ucciderli appena nati, ad abbandonarli a un destino certamente infausto. Descrive la vita delle famiglie francesi del 1700 e sostiene che il concetto di amore materno si evolve nel tempo, che si tratta di un sentimento e che come tale è incerto e imperfetto, può essere presente da molto tempo o comparire solo in età avanzata, quando il desiderio di avere un figlio non può più essere accontentato, può venire ed andarsene come è venuto, può essere virtuoso o mancare del tutto di quelle che consideriamo virtù. Ci ricorda i molti motivi che sono alla base della scelta di avere un figlio – legare a sé un uomo, preparare un custode della propria vecchiezza, fornire al marito un altro paia di braccia per lavorare nei campi – e ci fa capire quante di esse sono in realtà degne di disprezzo. Cita il problema del baliatico nella Francia del XVIII secolo (la prima agenzia di nutrici per famiglie aristocratiche fu aperta in Francia nel 1200 e si generalizzò nel 1700).

La Badinter si dichiara contraria a quella che oggi sembra essere una esigenza, quella di esibire una identità religiosa, definendo se stessi in opposizione agli altri, una cosa che, dice, le ricorda il femminismo americano degli anni 80 che esaltava con termini moto simili la differenza tra uomo e donna, col potere della capacità di riproduzione che dovrebbe permettere di equilibrare il mondo virile il cui potere si basa sulla aggressività e sulla competizione. Scrive, della religione, che le riconosce le capacità di consolazione, ma che la considera una pericolosa forma di intolleranza, tanto da immaginare la fine del dominio della legge religiosa come un grande progresso per l’umanità.

Scrive ancora Elisabeth Badinter che nel 1780 il prefetto di polizia di Parigi, un signore di nome Lenoir, constatava non senza una punta di amarezza che sui ventunomila bambini che nascevano ogni anno nella città solo mille venivano allattati con latte materno a casa; mille sempre a casa da una balia bagnata; gli altri fuori, a sfidare il destino. Moltissimi morivano senza aver conosciuto la madre; quelli che tornavano a casa ci trovavano una sconosciuta. Non esiste prova che questi ritorni fossero felici e colpisce ancora di più il fatto, anche questo riferito da Lenoir, che la maggior parte dei genitori non partecipavano al funerale dei figli

Come spiegare l’abbandono di un neonato in un tempo in cui il latte materno era prezioso per sopravvivere? Come giustificare un simile disinteresse per il bambino? Come accadde che la madre indifferente del settecento si trasformò nella madre pellicano, emblema di carità e di sacrificio, dell’ottocento?

Altre prove del cattivo rapporto madre-figlio del settecento si trovano guardando a quello che succede in alcuni Paesi europei nel corso del secolo. Solo per fare un esempio, citiamo Londra, una delle grandi capitali europee, nella quale gli amministratori vennero convinti, dal grande numero di bambini trovati morti ogni mattina per le strade (uccisi dal freddo, dalla fame, dal gin, dalla violenza di uomini cattivi) ad aprire i primi brefotrofi, in un primo tempo affidati a personale di amministrazione, in un secondo tempo alle parrocchie e a donne anziane ( le “bloody tits”) solo per dover constatare che dei bambini ricoverati ne sopravvivevano meno del 25%.

Dove è dunque finito l’istinto materno che per opinione generale accomuna gran parte degli esseri viventi? Noi abbiamo oltre tutto una opinione ambigua della maternità, secondo la quale la funzione materna cessa solo quando la madre ha partorito l’adulto, l’ associazione di uno stato fisiologico particolare con una funzione a lungo termine: un preciso periodo per la gravidanza, un tempo indeterminato per allevamento ed educazione. Non è una novità, ne parlavano i medici del Settecento alludendo a un gravidanza caratterizzata in un primo tempo dalla nutrizione placentare e in un secondo tempo dalla nutrizione al seno, due impegni “naturali” ai quali nessuna donna poteva mancare e che costituivano insieme l’impegno gestazionale.

Scrive invece Elisabeth Badinter che ogni indagine sul comportamento materno non può esimersi dal considerare che la maternità è solo una delle molte dimensioni della donna, nelle cui fibre esistono una infinità di altri e differenti interessi (e propensioni, speranze, desideri, sentimenti, destini) che prescindono dalla casa, dalla famiglia e dalla prole. Del resto l’amore materno, proprio perché si tratta di un sentimento – è solo un particolare tipo di amore – non è scontato.

Sempre secondo la Badinter il mito dell’amore materno nasce alla fine del XVIII secolo: ” Alla fine del settecento l’amore materno appare come un nuovo concetto. Non si ignora che questo sentimento è sempre esistito, ma ci si compiace di ricordarne l’esistenza nei tempi passati…… Quello che appare nuovo è l’esaltazione dell’amore materno come valore allo stesso tempo naturale e sociale, favorevole alla specie e alla società” (Op.Cit.)

Le opinioni della Badinter trovano, come vedremo, un largo consenso e , naturalmente, una feroce opposizione , come se molti si sentissero personalmente minacciati da una pericolosa femminista che mette in dubbio l’amore della loro madre. Lo si capisce dal fatto che raramente gli oppositori argomentano la loro contrarietà, quello che fanno è portare esempi, e l’esemplificazione è in genere lo strumento dialogico degli imbecilli.

Secondo la Badinter le principali motivazioni di questo cambiamento sono due, entrambe in qualche modo legate all’illuminismo e agli inizi del romanticismo:

· economica: in quegli anni si sviluppa una nuova scienza, ovvero la demografia, e questo ha permesso di diventare più consapevoli rispetto all’importanza che in una nazione assume il numero dei cittadini. Se le madri dedicano più tempo alle cure del bambino, aumentano le sue probabilità di sopravvivenza, in un secolo in cui la mortalità infantile è estremamente elevata. Nel Settecento le madri, secondo la Badinter, avevano una funzione simile a quella degli allevatori o degli agricoltori. Da un punto di vista prettamente economico, cioè, una popolazione più numerosa permetteva di raggiungere una maggior ricchezza e un miglior benessere. Il bambino, in questi anni, inizia ad assumere la funzione di merce: egli rappresenta una potenziale ricchezza e quindi è da tutelare. .

Elisabeth Badinter analizza la filosofia del Settecento in Francia e individua due grandi ideali portati avanti dall’Illuminismo, ovvero l’uguaglianza e la felicità individuale. Per quanto riguarda il concetto di uguaglianza, l’autrice sottolinea come, in realtà, questo fosse rivolto più ad una uguaglianza tra uomini all’interno delle diverse classi sociali, che tra i diversi esseri umani (ovvero uomini, donne e bambini). Tuttavia ciò favorì il riconoscimento, anche se in maniera non completa, dello status sociale del bambino e della donna che, solo una volta divenuta madre veniva valorizzata e investita di una certa autonomia rispetto alla cura della prole. Il secondo ideale filosofico perseguito dall’Illuminismo, è quello di felicità: questa filosofia ha favorito uno spostamento di interesse nei confronti della vita attuale, l’obiettivo non è più quello di prepararci alla morte cercando di mantenere un’anima pura, ma vivere qui ed ora. L’uomo è fatto per essere felice e i filosofi hanno il compito di individuare gli elementi che permettono che si realizzi una “ragionevole felicità”, quella che si raggiunge nel momento in cui si è fisicamente sani, si ha una coscienza tranquilla e le condizioni di vita sono soddisfacenti. Ecco allora che se la felicità non solo è possibile, ma è pure auspicabile e il microsistema familiare diventa il contesto privilegiato per raggiungerla. Nel Settecento si prende così coscienza del fatto che i rapporti familiari (non solo tra i coniugi, ma anche tra i genitori e i figli) possono contribuire alla felicità solo se sono fondati sull’amore (non l’amore passionale soggetto ad andamenti imprevedibili, ma un sentimento amorevole più simile all’affetto). L’amore diventa, in questo modo, un diritto di ognuno e ne consegue che il matrimonio deve essere una libera scelta poiché rappresenta il luogo privilegiato della felicità, il cui culmine coesiste con la procreazione. La maternità, seguendo questa prospettiva, non è più un dovere imposto, ma rappresenta la più dolce e invidiabile attività alla quale una donna può aspirare.

L’antropologia del XVIII secolo era orientata quasi esclusivamente ad affermare la personalità dell’uomo e trascurava – come del resto faceva, nello stesso secolo, la metafisica – quella della donna, alla quale rendeva onore solo affermando che le era consentito essere l’amante dell’uomo, un modo per affermare la sua dignità umana. Il ruolo della donna era principalmente quello di piacere all’uomo e di soddisfarlo, una cosa che gli illuministi non ritenevano né sufficiente né adeguata. Fu dunque soprattutto il romanticismo a indicare il vero ( e forse unico) valore della donna nella maternità, un riconoscimento che si inquadrava nella visione romantica del mondo. La concezione della vita, quella che si considera come l’idea più universale del romanticismo, non poteva che sottolineare l’importanza della maternità, mostrando naturalmente estremo rispetto nei confronti del mistero della vita nel grembo materno. Con grande acume il romanticismo confutò la filosofia aristotelica e scolastica che considerava gli esseri viventi come caratterizzati da un binomio , quello dell’azione e quello della potenza, e distingueva su questa base l’uomo, prevalentemente attivo, e la donna prevalentemente passiva. Secondo il romanticismo la generazione richiedeva la partecipazione piena e totale della natura, perfetta in Dio e certamente imperfetta nell’uomo, tanto da richiedere la partecipazione dei due sessi

Il conflitto di paradigmi: genitorialità come responsabilità; donazioni, maternità surrogata, selezione di gameti e di embrioni, eugenetica positiva

LA MINACCIA DI UNA SCIENZA SVINCOLATA DAL CONTROLLO SOCIALE: IL CONFLITTO DI PARADIGMI

La PMA nasce come tecnica che deve risolvere dapprima le sole sterilità meccaniche femminili e in un secondo tempo anche una congerie di ipofertilità maschili inclusa quella dovuta alla impotenza coeundi. Che sia solo una tecnica vien fatto di dubitarlo quando si scopre che cosa effettivamente cambia con il suo avvento: il biologo ha in mano un embrione; lo può studiare, usare per la ricerca scientifica, trarne cellule staminali totipotenti, utilizzarlo per la clonazione, congelarlo per un uso futuro, trasferirlo a una donna che non è la sua madre biologica, dividerlo per creare dei gemelli. La ricerca scientifica si impegna in una serie di sperimentazioni che ci limitiamo a elencare:

⁃ crioconservazione di gameti e di embrioni

⁃ prelievo di embrioni dalla cavità uterina per vari scopi

⁃ selezione (di embrioni, ma anche di gameti)

⁃ maternità per altri (oblativa e remunerata)

⁃ donazione di placenta

⁃ utilizzazione di gameti fetali

⁃ ectogenesi

⁃ produzione di gameti a partire da cellule staminali;

⁃ trapianti di utero

⁃ terapia genica o gene editing;

scrittura del genoma umano;

⁃ utilizzazione delle cellule staminali embrionali

⁃ maturazione in vitro di oociti immaturi

Una delle cose che ci ha fatto capire meglio quanto e quanto velocemente dovranno modificarsi le nostre visoni del mondo- forse la meno imporrante, dal punto di vista scientifico e tecnico, tra tutte quelle che la ricerca scientifica ci ha proposto in tempi recenti – è la seguente: negli Stati Uniti sono stati approvati progetti d ricerca che consentono di portare a maturazione oociti primordiali reperiti nel materiale abortivo. Si tratta naturalmente di aborti volontari eseguiti a donne che hanno dato il loro consenso all’uso dei loro tessuti fetali a scopo di ricerca e di sperimentazione. Siamo dunque alle soglie di un novità, scientificamente non strabiliante ma di notevole impatto dal punto di vista psicologico: i medici sono ormai nelle condizioni di utilizzare questi oociti per ottenere una gravidanza e per far nascere un bambino la cui madre non è mai vissuta. Non sapremmo dire perché, ma ci sembra che questa notizia abbia una risonanza affettiva straordinaria della quale andrebbero capito meglio le cause.

In ogni caso, per capire quale straordinaria rivoluzione sia alle porte proviamo a immaginare che la scienza riesca a completare le sue esperienze sull’utero artificiale e offra alla società degli uomini l’ectogenesi, che non vuol dire solo la possibilità di liberare le donne dagli impegni di nove mesi di gestazione, significa anche senza impacci di patologia, senza aborti e parti prematuri senza tagli cesarei e complicazione puerperali e perinatali. Ebbene, in quel momento ci troveremo di fronte a una serie di interrogativi dovuti ad esempio al fatto che la figura materna e la figura paterna saranno equivalenti e non esisterà più la maternità gestazionale. Dovrà essere riequilibrata la relazione tra i sessi, si dovrà scoprire se la mancanza di un riferimento gestazionale umano crea problemi ai figli, il mondo non sarà mai più lo stesso. Ci saranno certamente delle resistenze, ma saranno resistenze inevitabilmente modeste, basate su interpretazioni metafisiche del rapporto materno fetale, mai dimostrate valide dalla ricerca scientifica: Ne elenchiamo alcune per sottolinearne l’evidente assenza di credibilità: gli ormoni del maternage, la prolattina e l’ossitocina, sarebbero in grado di realizzare il miracolo di un fusione spirituale tra la madre e suo figlio; le cellule fetali colonizzerebbero alcuni tessuti materni e interverrebbero in favore della donna nel corso di alcune malattie; esisterebbe il passaggio transplacentare di sostanze ancora ignote con il risultato di creare tra i due protagonisti della gestazione un legame affettivo privo di possibili confronti. Si tratta di ipotesi che condividono tutte l’assoluta mancanza di prove e attribuire loro un qualsiasi significato è, a die poco, disonesto.

Il problema è quello di scegliere tra due possibilità : contrastare il nuovo paradigma sulla base di argomentazioni prevalentemente metafisiche, che chiamano in causa l’abbandono e il tradimento della natura. e la possibilità di interferire con meccanismi per ora solo immaginati che sarebbero responsabili della cosiddetta umanizzazione del feto attraverso passaggi di afflati spirituali transplacentari, per ora non dimostrati ma molto cari alla metafisica querulo- romantica e piagnucolosa del cattolicesimo ( mamme ce ne è una sola, l’amore di mamma si abbevera di sacrificio e rinuncia e così via) ; gestire il cambiamento per evitare danni nella fase di transizione e ingiustizie sociali grossolane. Questa scelta in realtà dovrebbe riguardare tute le iniziative della scienza che al momento impegna il 90 per cento degli investimenti in imprese che saranno utili al cinque per cento dei cittadini.