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Il fertility day – Storia di come si diventa genitori2018-12-15T13:40:10+02:00

Il fertility day – Storia di come si diventa genitori

Giugno 2018

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Alcune necessarie premesse.

A Forlì, la città nella quale abito oggi, c’è una anziana signora – so che non è cortese scoprire che età hanno le signore , anche se sono evidentemente “non più giovani”: mi limito a dire che sta dalla parte sbagliata dei novanta anni – che da ragazza è stata staffetta partigiana e ha combattuto per la nostra libertà. Recentemente una mia amica ha raccolto una sua lunga intervista e l’ha pubblicata. Mi ha fatto leggere il testo, prima di mandarlo alle stampe, e mi sono molto agitato leggendo il racconto del suo primo ricordo di quella avventura: “era notte, scrive, pedalavo sulle strade tortuose della collina romagnola, sola, con la mia bicicletta e una sporta piena di bombe a mano che dovevo portare a un gruppo di partigiani. Sapevo dentro di me che avrei dovuto aver paura, se i tedeschi mi fermavano non mi avrebbero nemmeno processata, ma non era così, anzi: cantavo, alla luna, alla mia bicicletta, felice perché sapevo finalmente di appartenere a qualcosa”. Così ho scritto una prefazione al libro e sono andato a trovarla per portarle un romanzo che ho scritto tempo fa e che riguarda la guerra di liberazione. Ho trovato una signora in ottima salute, vispa e chiacchierina, ma ho anche scoperto che aveva perso la vista. Così il mio libro l’ho trasformato in un audiolibro, cosa che l’ha fatta molto contenta, e tra noi è nato un buon rapporto di amicizia. Alla presentazione del suo libro di memorie, organizzata in Comune, alla presenza del sindaco, a poi dato il meglio di sé, intervenendo quando non era d’accordo, correggendo gli errori, puntualizzando. E la cosa più bella che ha detto, in uno dei suoi tanti interventi è stata: ” io proprio non so quali fossero le mie idee politiche, so solo che combattevo per la mia libertà”.

Credo che questo sia l’argomento del quale dobbiamo parlare, quello della libertà delle donne e dei loro diritti, che sono ancora in gran parte disattesi.

La contrazione del numero dei nati si è verificata spesso, in differenti epoche e in vari paesi: la Gran Bretagna del periodo di transizione; l’Italia Fascista. Quello che sta accadendo oggi non ha a che fare né con l’ egoismo né con problemi economici e sociali, non si ripara facendo propaganda al fertility day (“comprate il mio specifico, per poco ve lo do” come canta Dulcamara), né premiando le famiglie numerose. E le donne non hanno il dovere di fare figli, sarà bene ricordare che la genitorialità e il desiderio di diventare madri non sono un istinto, ma un sentimento, con tutte le conseguenze che ne derivano. Come scrive E. Badinter, il desiderio di maternità è una della tante corde del violino che ogni donna si trova tra le mani nel momento di fare le sue scelte di vita, stabilire su quale delle corde suonare, sul sol o sul mi , sono fatti suoi.

Dunque, non ci confrontiamo con un problema unico, ma con diversi problemi: donne che vogliono avere un figlio ma non se lo possono permettere; donne che vogliono avere un figlio ma non ci riescono; donne che non vogliono avere un figlio oggi, domani chissà; donne che ad avere un figlio non ci pensano proprio. Quello che è certo è che spargere di miele le culle per attirare le madri potenziali, questo proprio non lo possiamo fare, non siamo qui per fare propaganda alle imprese di falegnameria. Avremo problemi sociali ed economici dovuti al calo della popolazione? Cerchiamo soluzioni, ma evitiamo la volgarità, oltretutto inutile, di comportarci come dei venditori di frigoriferi (o di tappeti, o di mutande da uomo). Oltretutto siamo in una fase storica contrassegnata da un importante conflitto di paradigmi proprio sui problemi della biologia della riproduzione, è molto probabile che le nostre preoccupazioni dovrebbero essere dedicate ad altro.

Non c’è dubbio che si tratti di un problema che riguarda anche la demografia, ed è di questo che si deve occupare l’Aied, suggerendo correzioni e interventi che vadano però in diverse direzioni: come facilitare la scelta alle donne che vogliono avere un figlio; come diminuire il numero di persone sterili e ipofertili; come mettere da parte la fertilità per gli incerti e i dubbiosi; come organizzare la società di domani in modo da togliere gli effetti negativi sul welfare che una diminuzione delle nascite può certamente determinare . Ma anche stigmatizzare in tutti i modi possibili gli attuali tentativi di ricattare le donne costruendo categorie, basate sulla dignità e su prestigio, false e bugiarde esattamente come gli dei. In ultima analisi, quello che mi turba è il fatto che si sta riproducendo nell’Italia del XXI secolo quello che ha caratterizzato per un ventennio ( sì, proprio quello “famigerato”) il nostro Paese nel secolo scorso, con una sola differenza, peraltro di non grande momento: allora i ministeri facevano carte false per costringere le nostre sventurate ragazze a produrre otto milioni di baionette, oggi (ma non saranno le stesse persone, rimaste puntigliosamente ai comandi?) l’invito, altrettanto pressante, è di produrre il più rapidamente possibile otto milioni di operai metallurgici. Ho sempre pensato che il fascismo potrebbe rinascere in qualsiasi momento dalle pieghe della borghesia tra le quali è celata la sua culla non del tutto vuota, non mi era mai venuto in mente che questa benedetta culla fosse custodita in uno dei nostri ministeri.

Introduzione

Sul Fertility Day si possono dire molte cose e sicuramente subito dopo la pubblicazione di questo documento sono comparse decine e decine di analisi , quasi tutte estremamente critiche, altre francamente stupefatte. Mi sembra comunque particolarmente interessante il fatto che la campagna pubblicitaria promossa dal Ministro della salute non abbia provocato solo critiche, ma abbia anche dato la stura a un fiume di risposte ironiche, qualcuna volgare, qualcuna no, tutte piuttosto divertenti, una reazione che non mi sembra aver precedenti. Una delle “cartoline” più contestate è stata quella che recava la scritta: “Datti una mossa! Non aspettare la cicogna”, che ha ricevuto una risposta immediata: se la cicogna non arriva no arrenderti, cambia uccello, una boutade volgare ma certamente efficace.

L’ironia è l’arma di chi non ha altra risorsa per opporsi a una prevaricazione e a una prepotenza quando capisce di non aver altre armi per esprimere la propria amarezza e il proprio sdegno, è l’arma di Pasquino, la critica di quegli impotenti che non si rassegnano e contano sul ridicolo come mezzo estremo di resistenza: il ridicolo in fondo è l’arma dei deboli e dei perseguitati, chi lo usa spera di far comprendere quanto siano stupide e velleitarie le premesse implicite nell’aggressione in atto. Nel caso specifico, che gioca sulle molte ambiguità del testo, è ben evidente il proposito di ridicolizzare il moralismo implicito nella vignetta e il suo ricorso a termini sbrigativi, usato quasi per nascondere il contenuto moraleggiante. Il commento immediato rivela il quadro concettuale “anomalo” e qui sta l’ironia della contro-vignetta. Partendo da questa sarebbe interessante uno studio teso a mettere in luce l’intera visione del mondo che ispira chi ha ideato e approvato questa e le altre cartoline. Non lo posso fare qui, ma può darsi che le osservazioni che proporrò siano un contributo al riguardo.

L’ informazione e la formazione prevista dal Fertility Day.

Come si legge nel Piano Nazionale per la Fertilità il Fertility Day aveva due obiettivi, essendo esso la «Giornata nazionale di informazione e formazione sulla fertilità dove la parola d’ordine sarà scoprire il “Prestigio della Maternità”. Le parole citate chiariscono gli obiettivi: informare e formare, termini che indicano due differenti azioni. La formazione presuppone i valori e interferisce con la strutturazione e lo sviluppo psicologico e morale degli individui, le cui condotte vengono influenzate e modificate intenzionalmente per rispondere ai valori proposti, mentre l’ informazione è avalutativa e neutrale, ed è quella che la scienza si prefigge di fornire (a prescindere dai fallimenti sempre presenti nelle imprese umane!). L’informazione è dunque propria della scienza, la quale parte dal presupposto di voler descrivere il mondo com’è, a prescindere dall’eventuale valutazione (positiva o negativa) del fatto che esamina, mentre la formazione fa parte dell’educazione, che si fonda sul presupposto di favorire pratiche e stili di vita che suppongono valutazioni della realtà.

Questa distinzione sta alla base della visione del mondo sviluppatasi in Occidente negli ultimi secoli, un quadro concettuale che informa il nostro attuale sistema accademico e culturale. Entrambe le operazioni sono valide e opportune nei rispettivi ambiti, ma presuppongono propositi del tutto diversi. Che il Fertility Day abbia come obiettivo anche la formazione è confermato dal fatto che la Giornata è stata istituita per « operare un capovolgimento della mentalità corrente volto a rileggere la Fertilità come bisogno essenziale non solo della coppia ma dell’intera società » e quindi per “celebrare questa rivoluzione culturale” derivante dal “rinnovamento culturale in tema di procreazione” prodotto dal Fertility Day stesso. Tutte queste operazioni presuppongono valori morali e valutazioni sociali, e ciò conferma l’intento formativo della Giornata.

Il punto merita di essere sottolineato perché, allo scoppiare delle polemiche, la Direzione Prevenzione e Direzione Comunicazione del Ministero, in un Comunicato ufficiale, ha subito precisato che «scopo della Giornata è informare correttamente la popolazione sui temi della fertilità, della salute riproduttiva, e sui fattori che possono metterla a rischio. Il Ministero siprefigge esclusivamente di fornire alla popolazione […] informazioni e strumenti utili a preservare la fertilità […], ferma restando la libertà di ciascuno di gestirla secondo le proprie scelte di vita». Poiché mi sembra impossibile che al Ministero non sia nota la differenza sopra citata tra informazione e formazione, debbo credere che il Comunicato abbia avuto una finalità di difesa estemporanea: colti di sorpresa da una reazione così netta e decisa da parte del popolo del web, è intervenuto il processo di negazione della realtà in modo da sviare l’attenzione e riuscire a riprendere fiato.

Anche il Ministro Lorenzin ha sostenuto questa linea, ma ha cercato anche di minimizzare osservando che si è semplicemente trattato «di una comunicazione fraintesa». A suo dire il messaggio era stato formulato male e si trattava solamente di rimodularlo al fine di conseguire lo stesso scopo. Questa diversa strategia, tuttavia, solleva un problema molto diverso dal precedente. Infatti, abbiamo tutti buone ragioni per credere che il problema non sia stato generato da una comunicazione fraintesa o da una reazione a caldo di un messaggio poco felice, ma al contrario che il messaggio valoriale sotteso al programma formativo sia stato ben compreso dal popolo del web, e che la netta e immediata bocciatura delle cartoline abbia segnalato il rifiuto della prospettiva culturale ( si fa per dire) e politica sottesa al Piano Nazionale per la Fertilità. In questo senso, quel che è accaduto nel settembre 2016 è qualcosa di analogo alle sollevazioni di piazza che in passato hanno sancito la fine di programmi politici o dato inizio a vere e proprie rivoluzioni. Si tratta ora di capire quale sia questa prospettiva e perché sia stata così sonoramente bocciata.

La prospettiva culturale e politica sottesa al Fertility Day.

Per cercare di capire la prospettiva di fondo che il Fertility Day, con la sua roboante prosopopea, ha cercato di imporci, bisogna partire dal fatto che da ormai alcuni decenni – grosso modo a partire dalla Rivoluzione sessuale del ’68, data di riferimento generale – le tradizionali agenzie morali (rappresentate “naturalmente ” in Italia dalla Chiesa cattolica romana) non riescono più a dare indicazioni dirette circa la moralità sessuale, divenuta ormai un fattore privato. Per questa ragione, chiunque desideri inviare un messaggio relativo a questi temi lo fa in modo indiretto, sottolineandone ad esempio gli aspetti positivi , quali potrebbero essere l’amore e l’inscindibilità dei corpi che a questi temi sono collegati.

Da quando poi è diventata disponibile la fecondazione assistita (1978), i messaggi indiretti sono stati usati al fine di riuscire a limitare il più possibile il ricorso alle nuove opportunità riproduttive offerte dalle tecniche. La legge 40/04 ha rappresentato il tentativo più riuscito in questa direzione, dal momento che la normativa limitava l’accesso alla fecondazione assistita solo alle coppie certificate come sterili: la tecnica veniva così stigmatizzata come una fastidiosa “seconda scelta” e non era presentata come un’opportunità positiva. Non ho difficoltà a riconoscere l’ingegnosità dell’operazione, ma va osservato anche che il suo successo si è volatilizzato presto: in pochi anni la diga eretta per limitare e contenere la fecondazione assistita si è praticamente sgretolata.

Sul piano politico (gli aspetti giuridici e gli interventi della Magistratura su questi temi meritano considerazioni diverse) si può osservare che il più energico attacco a questa prospettiva si è verificato al tempo della rottura interna al Popolo della Libertà (PdL) che ha determinato la perdita di potere e di prestigio politico di Gianfranco Fini e la nascita di una nuova formazione politica, Futuro e Libertà per l’Italia (Fli), che avvenne alla fine di luglio del 2010 : questa iniziativa si proponeva di creare un centro-destra di carattere europeo che sulla bioetica avesse aperture maggiori di quelle previste dalle prospettive offerte dall’alleanza tra Berlusconi e Ruini. Per contrastare quest’iniziativa, il 5 agosto 2010 il PdL presentò l’Agenda Bioetica del Governo al fine di riproporre e dare nuova vitalità alla linea culturale e politica che aveva consentito l’approvazione della legge 40/04 e la sua difesa nel Referendum 2005 affidata soprattutto all’Associazione Scienza & Vita, fondata proprio per scoraggiare la partecipazione al Referendum. L’Agenda Bioetica era stata presentata dai ministri Sacconi e Fazio e dal sottosegretario Roccella, e l’iniziativa era stata sostenuta con grande convinzione anche dalla parlamentare Beatrice Lorenzin, che a quei tempi militava nel partito di Berlusconi.

L’Agenda Bioetica ebbe vita breve, perché circa un anno dopo, il 12 novembre 2011, Berlusconi rassegnò le dimissioni per cedere il passo al governo Monti, che si insediò il 16 novembre. Ma Beatrice Lorenzin divenne ministro della salute nel governo Letta il 28 aprile 2013 e fu confermata nello stesso ruolo il 22 febbraio 2014 dal nuovo Presidente del Consiglio, Matteo Renzi: ciò rende conto della linea di continuità di quel programma culturale e politico, continuità corroborata dal fatto che anche i consulenti del Ministro della Salute sono rimasti gli stessi e – malgrado abbiano dato e continuino a dare pessima prova di sé – non sono mai stati sostituiti. Anzi, ora che la Magistratura ha quasi del tutto smantellato la legge 40/04 e che questa si trova senza un serio sostegno politico, quel compito sembra essere ancora più urgente di prima: come riuscire a lanciare un messaggio indiretto grazie al quale poter impedire con qualche efficacia la scelta della PMA da parte delle coppie sterili?

La strategia più opportuna pare sia stata quella di mettere in luce il pericolo dell’inverno demografico che starebbe portando all’estinzione dell’homo italicus, in modo da poter sollecitare il ricorso alla riproduzione naturale come rimedio a questo terribile rischio e ricollocare la riproduzione assistita nella sua vocazione di nicchia. L’idea dell’inverno demografico è da tempo accettata (non sempre con entusiasmo) da larghi settori del mondo cattolico ed è esplicitamente sostenuta da Scienza & Vita. Ciò spiega il motivo per il quale la presidenza del Tavolo consultivo che ha elaborato il Piano Nazionale per la Fertilità è stata affidata a una delle fondatrici di quest’Associazione e alcuni rappresentanti di spicco sono stati chiamati a farne parte. Si giustifica così anche la relazione del ministro Lorenzin al xiv Convegno nazionale di Scienza & Vita sul tema: “Nati da donna. Femminilità e bellezza” organizzato «in sinergia col Piano nazionale per la fertilità» e che si è tenuto a Roma il 27-28 maggio 2016. Il Convegno ha anche lanciato un «appello al mondo sanitario» affinché esso si impegni «nella ricerca di vere soluzioni ai crescenti problemi della fertilità, senza limitarsi alla messa a punto di “scorciatoie” tecnologiche (come molte delle tecniche di procreazione medicalmente assistita), poco efficaci e contraddittorie rispetto al significato profondo e personalistico della procreazione umana».

Per forza di cose il Piano Nazionale per la Fertilità non poteva lanciare un messaggio tanto esplicito, ma il suo riferimento a quella che definisce «una autentica rivoluzione culturale calata nella vita di tutti i giorni di tutte le persone e attenta […] al bisogno […] di salute piena ed integrale dei cittadini» che altro è? Si insiste sulla riproduzione naturale come privilegio e dovere dei giovani (quasi un invito a ripetere le antiche feste pagane della fecondità!) e la si indica come il vero antidoto al ricorso alle tecniche di riproduzione assistita presentata come un rimedio poco affidabile dal momento che tra l’altro i suoi «effetti sulla salute restano in parte sconosciuti» [sic!].

Basta leggere il testo di questo messaggio per rilevare una forte e continua (direi quasi ossessiva) ostilità nei confronti della fecondazione assistita. Già nelle prime pagine della sintesi iniziale, per il solo fatto che oggi molte persone hanno «convinzioni errate» in materia perché ritengono che «sia possibile avere un figlio anche in età avanzata semplicemente attraverso le tecniche di PMA», si conclude che «è necessario […] un progetto nel quale le redini della informazione e della formazione siano tenute da esperti »: non si capisce come mai una simile proposta non sia avanzata anche nel caso dello sport, della storia, della finanza, ecc., tutti campi nei quali sono diffuse false informazioni e le persone hanno convinzioni errate! Mi rincuora il fatto che il Piano non precisa che questi “esperti” debbano tassativamente essere nominati dal ministro della salute …!

Continuando a leggere, trovo che «l’obiettivo qualificante di partenza» delle unità di medicina della riproduzione è quello di ” riportare l’attenzione, la ricerca, le risorse sulla priorità della tutela e del ripristino della funzione riproduttiva naturale-.

È forse opportuno fermarsi a riflettere su questa frase: l’obiettivo qualificante di un’unità di medicina della riproduzione è promuovere la tutela della funzione riproduttiva naturale! Ancora una volta ,mi chiedo come mai non si affermi che l’obiettivo qualificante di un’unità di chirurgia vascolare è promuovere la tutela delle funzioni circolatorie naturali e non tanto rimediare ai problemi creati dalla patologia. Sicuramente tra i vari compiti di un’unità di chirurgia vascolare c’è anche quello di promuovere stili di vita salutari per tutelare la circolazione naturale, ma l’obiettivo qualificante è l’altro, quello di saper mettere by-pass o di sostituire una valvola cardiaca mal funzionante. Solo un atavico pregiudizio circa la medicina della riproduzione può portare a una simile affermazione, la quale tuttavia spiega il passo successivo in cui l’ostilità verso la riproduzione assistita si palesa con ancora maggior forza utilizzando tesi completamente prive di fondamento.

Il Piano afferma infatti che «le tecniche di fecondazione assistita hanno avuto uno straordinario sviluppo nell’ultimo decennio [sic!] e consentono attualmente soluzioni riproduttive prima inimmaginabili. Tuttavia, paradossalmente, quella che era nata come risposta terapeutica a condizioni di patologia specifiche e molto selezionate, sta forse assumendo il significato di un’alternativa fisiologica. Non bisogna tuttavia dimenticare che i costi economici ed emotivi della fecondazione assistita sono elevati e gli effetti sulla salute restano in parte sconosciuti». Le parole messe in corsivo servono per evidenziare i passaggi più significativi di questo ragionamento: dopo aver dato per scontato (con ammirevole souplesse ) che il compito primo e qualificante della medicina della riproduzione è la tutela della funzione riproduttiva naturale, si osserva che solo nell’ultimo decennio le tecniche hanno avuto uno straordinario sviluppo: si dimenticano così i tre decenni precedenti, e si lascia intendere che la fecondazione assistita è ancora una tecnica giovane e soprattutto sperimentale. Inoltre, oggi essa consente soluzioni prima inimmaginabili, forse perché in origine era stata escogitata come terapia per curare casi eccezionali, mentre ora sembra essere sfuggita di mano ai suoi mentori e sta diventando una modalità riproduttiva alternativa a quella naturale. A fronte di questa tendenza il Piano sottolinea che non bisogna dimenticare che i costi economici ed emotivi della fecondazione assistita sono elevati e che i suoi effetti sulla salute restano in parte sconosciuti, lasciando così intendere che esistono ancora seri dubbi sulla sicurezza stessa delle tecniche riproduttive, i cui effetti restano in parte sconosciuti.

È un fatto gravissimo che un Tavolo di esperti o addirittura di super-esperti nominati dal ministero della salute in un documento ufficiale instilli il dubbio che la fecondazione assistita possa “far male” e avere effetti dannosi per la salute del nato o della donna! Se così fosse, infatti, il ministero della salute dovrebbe provvedere a proibire la pratica. Ancora più grave è che questa tesi sia riaffermata più avanti quando il tema delle terapie dell’infertilità viene esaminato nel dettaglio . Ed è una gravissima accusa alla Medicina tutta affermare che non sono bastate sei milioni di nascite per capire se le fecondazioni assistite rappresentano una fonte di felicità per le coppie sterili o sono piuttosto una enorme mina che sta per deflagrare e che sconvolgerà la vita e la salute delle future generazioni.

Per ora mi limito a rilevare che le affermazioni che ho riportato consentono di capire la ratio sottesa alla prima pagina del Piano, in cui si parte mettendo in luce l’esigenza di «invertire la tendenza al declino delle nascite» e subito dopo si osserva che “anche le nuove tecniche di procreazione assistita […] rappresentano un’opportunità, ma non sono la soluzione. Manca ancora, purtroppo, una vera cultura della fertilità, nell’opinione pubblica, in un certo numero di medici e nei processi comunicativi di massa, una cultura capace di promuovere un momento riproduttivo consapevole e nelle migliori condizioni biologiche possibili”. Possiamo ora capire che la «vera cultura» della fertilità è quella che promuove «un momento riproduttivo consapevole e nelle migliori condizioni biologiche possibili» che si realizza con la riproduzione naturale e non ricorrendo alle «”scorciatoie” tecnologiche» che, come affermato da Scienza & Vita nel comunicato sopra ricordato, sono «poco efficaci», onerose e contrarie al «significato profondo e personalistico della procreazione umana».

L’analisi dei problemi specifici della fecondazione assistita.

Nel momento in cui comincia ad esaminare la riproduzione assistita in modo specifico (cfr. pp. 85 – 115), il Piano Nazionale distingue tra le tecniche di I livello, più semplici e poco invasive perché la fecondazione avviene nel corpo della donna, e le tecniche di II e III livello, che sono invece più complesse in quanto la fecondazione avviene in vitro e quindi fuori dal corpo della donna, in modo pericolosamente innaturale. Passa poi a osservare che «le linee guida della L.40/2004, la legge che regola la PMA in Italia, prevedono l’utilizzo in prima istanza delle opzioni terapeutiche più semplici e meno invasive»: pur di distaccarsi il meno possibile dalla riproduzione naturale il Tavolo si appella alle linee guida (stabilite dal Ministero!), che assumono valore di legge anche dopo che questa è stata sconfessata a più livelli!

In questa prospettiva ci si lamenta della «crescente popolarità nel mondo delle tecniche di procreazione medicalmente assistita (PMA)», che avrebbe «determinato una errata percezione della fertilità femminile» lasciando credere che le «tecniche di PMA possano superare i “limiti” fisiologici, legati all’età». Contro questa falsa percezione, «le pazienti devono sapere che la PMA non è la panacea di tutti i problemi di sterilità e poco può fare nei confronti dei danni strutturali conseguenti all’invecchiamento oocitario». I media, d’altro canto, «devono altresì dare minore o nessuna importanza a notizie di gravidanze straordinarie ottenute in donne di età avanzata (ottenute nella quasi totalità dei casi mediante tecniche di ovodonazione)». In breve: poiché le linee guida prevedono il ricorso alle opzioni più semplici e meno invasive, si deve combattere l’idea che le tecniche possano superare i limiti fisiologici legati all’età, e i media non dovrebbero dare rilievo alle gravidanze in età avanzata, perché queste, nella quasi totalità dei casi, sono ottenute mediante l’ovodonazione, ossia una porcheria tanto palese e innominabile che sicuramente non merita di essere promossa!

Queste posizioni chiariscono l’orientamento ispiratore del Piano e il programma informativo e formativo che ne deriva, e gettano luce sulle tesi sostenute circa le tecniche di riproduzione assistita che passiamo a esaminare. Per non dilungarci troppo, concentriamo l’attenzione solo sul § 5.2.8 «Outcome PMA e follow up dei bambini» (pp. 99 – 102), il cui incipit è il seguente: «La valutazione degli esiti della PMA […] contempla gli eventuali esiti a lungo termine dei bambini nati da PMA, in termini di [1] anomalie congenite, [2] disturbi di crescita, [3] sequele neurologiche, [4] alterazioni dello sviluppo puberale, [5] disturbi cognitivi, [6] disturbi comportamentali, [7] disordini dello spettro autistico, [8] alterazioni dell’imprinting genomico, [9] patologie tumorali, [10] sindrome metabolica ed [11] altre patologie croniche. Oltre alle tecniche impiegate, potenziali danni al prodotto del concepimento derivano dalla condizione di infertilità, sia per le patologie che la determinano sia per i fattori di rischio collegati (età avanzata, uso di farmaci che incidono sulle prime fasi dello sviluppo dell’embrione)», cui sono da aggiungere alcune serie complicanze come [12] sindromi da iperstimolazione ovarica, [13] aumento di rischi chirurgici di vario tipo, [14] di gravidanze plurime, [15] di gravidanze ectopiche, [16] di parti cesarei, [17] di nati pretermine, [18] di nati di basso peso, e forse l’elenco è più lungo. Il quadro tracciato è così cupo da scoraggiare chiunque avesse un minimo di buon senso ad avvicinarsi alla pratica. Anzi, avendo il ministero della salute il compito di tutelare la sicurezza dei cittadini, viene da chiedersi come mai ancora permetta tecniche i cui ” effetti sulla salute restano in parte sconosciuti” e che sembrerebbero essere molto pericolosi per la salute della donna e del nato.

Se prendiamo in esame le argomentazioni utilizzate dal documento ci troviamo di fronte a una tecnica retorica di modestissimo respiro, che consiste nel dare per dimostrata l’esistenza dei gravi danni e degli importanti effetti collaterali sfavorevoli utilizzando riferimenti altrettanto generici quanto vaghi e privi di credibilità, per poi sostenere che per il momento potrebbero anche non confermare l’assunto iniziale e la sua plausibilità, ma solo se fosse palesemente negato da fatti acclarati. Il risultato è una serie di considerazioni contorte che servono solo ad indurre sentimenti di incertezza e di insicurezza nei confronti delle tecniche riproduttive e che non hanno nulla a che vedere con la cristallina analisi scientifica. Così al punto “Accrescimento e stato di salute” si legge: «Non sono stati riportati dati di anomalie dell’accrescimento corporeo e dello stato di salute nei bambini nati in seguito a PMA; tuttavia alcuni autori hanno riportato un incremento del tasso di ospedalizzazione, ma è controverso se questo sia dovuto allo stato di salute o al maggior ricorso dei genitori a strutture mediche. Una maggiore incidenza di deficit di crescita è documentata anche in rapporto alla gemellarità e alle alterazioni che ne conseguono». Come si vede, si parte prendendo atto che non ci sono dati (o meglio che non sono (ancora) stati riportati dati!) di anomalie al riguardo, contro l’assunto sottinteso che però prima o poi verranno scoperti. Si osserva che tuttavia qualche difficoltà c’è e è già stata riportata, e che comunque è documentato qualche serio deficit.

All’interno di un’analisi strutturata in questo modo, ci permettiamo di segnalare due “perle” di un certo peso. La prima riguarda le «Anomalie congenite. Alcuni studi hanno riportato una più alta incidenza maggiore di anomalie congenite maggiori nei nati da PMA rispetto alla popolazione generale; tuttavia non tutti gli studi hanno considerato i possibili fattori confondenti» che possono ribaltare la gravissima affermazione iniziale che i nati da fecondazione assistita sarebbero meno robusti e a maggior rischio di anomalie congenite rispetto ai nati da fecondazione naturale. Ancora una volta l’argomento è di una genericità disarmante perché si usa la tecnica della vaghezza per generare sospetto. Su temi come questi è doveroso essere molto puntuali nei riferimenti, anche perché nella letteratura si trovano tesi molto diverse e alcune poco attendibili, come evidenziato da un’importante meta analisi del 2012 che ha mostrato come dei 925 studi esaminati solo 56 (il 6.05%), fossero meritevoli di attenzione mentre delle altre 869 (!) pubblicazioni non era possibile tener conto a causa di un disegno sperimentale inaccurato e sorretto o addirittura della falsificazione dei dati clinici riportati. Il generico e vago riferimento ad “alcuni studi” o a “uno studio” senza alcun riferimento bibliografico puntuale (che consentirebbe di verificare l’eventuale validità dello studio!) serve solo per instillare dubbi e sospetti al fine di screditare la fecondazione assistita. A quanto è dato di sapere, i dati empirici più recenti e attendibili che abbiamo a disposizione sembrano sconfessare apertamente l’affermazione sconcertante del Piano sopra riportata, che così come è stata articolata non può che squalificare il Tavolo consultivo.

L’altra “perla” riguarda il tema ancora più delicato delle “Sequele neurologiche”. Il testo osserva che: «Alcuni autori non hanno rilevato anomalie di sviluppo neurologico durante l’infanzia e l’adolescenza associate al ricorso a PMA (a parte le differenze dovute alla maggior incidenza di condizioni di rischio come la prematurità), anche se tali studi sono stati condotti su campioni poco numerosi». Ancora una volta ci troviamo di fronte a una modalità di comunicazione contorta e nebulosa e ad allusioni che una commissione composta soprattutto da eminenti ricercatori non avrebbe in alcun caso dovuto permettersi: l’assunto è che la fecondazione assistita comporti sequele neurologiche, che però per ora non sono state ancora accertate («alcuni autori non hanno rilevato anomalie»), perché gli studi fatti sono stati condotti su campioni poco numerosi – con il sottinteso che queste sequele emergeranno non appena ci saranno studi più completi. Del fatto che la grande maggioranza degli studi non lo confermi, non una parola. Pensiamo che in questo momento il grande sociologo della scienza Robert Merton, il quale aveva rilevato che nella ricerca scientifica vigono regole come quella dello scetticismo organizzato e della trasparenza, si stia rivoltando nella tomba.

Abbiamo visto sopra che il Tavolo del Ministero ha ravvisato la necessità che sul tema della riproduzione assistita «le redini della informazione e della formazione siano tenute da esperti» al fine di evitare la diffusione di convinzioni errate. Ora che abbiamo chiarito il tipo di informazione e di formazione che gli esperti del Tavolo intendono proporre ribadiamo il nostro fermo e pacato “Preferisco di no!” a questa proposta: preferiamo che l’informazione e soprattutto la formazione resti libera e ci auguriamo che non venga mai il giorno in cui essa venga messa in mano agli esperti ministeriali che hanno elaborato e confezionato il Piano Nazionale in esame.

5. Il significato del fallimento della campagna del Fertility Day.

Una volta esaminati alcuni dei tratti salienti del Piano Nazionale e messa in luce la filosofia che informa sia il programma formativo che quello informativo (quello cioè scientifico) sottesi al Fertility Day, dovrebbe essere chiaro che la campagna delle cartoline non è fallita per «una comunicazione fraintesa», come ha sostenuto Il ministro Lorenzin. Le cartoline, almeno nel loro complesso, esprimono bene gli obiettivi previsti dal Piano Nazionale che, come abbiamo visto, sono in linea con la visione della Chiesa cattolica e di Scienza & Vita, una visione che solo qualche anno fa era riuscita a boicottare il Referendum per la legge 40. Non potendo più lanciare messaggi diretti per riproporre il valore della “dignità della procreazione (naturale)”, con divieti specifici del tipo: “la contraccezione è illecita! L’adulterio abominevole!”, si è pensato di raggiungere l’obiettivo attraverso messaggi mediati e indiretti che per un verso incentivano certe condotte sottolineandone la bellezza (è bello essere genitori giovani, è bella la “procreazione naturale”, è bello essere “genitori naturali” ) e per l’altro scoraggiano il ricorso alle tecniche di fecondazione assistita dalla medicina presentandole come dannose e contrarie alla dignità umana. Questa nuova strategia è più impegnativa e talvolta costringe i suoi sostenitori a far ricorso a aspetti marginali (come aggrapparsi alle linee guida promosse a faro che illumina la normativa!) o a bugie piccole o grandi (come quelle che limitano i progressi delle tecniche unicamente all’ultimo decennio o quelle circa i danni che, in medicina non si può mai essere sicuri di niente, le tecniche potrebbero provocare) pur di segnare il punto. Tutto questo in qualche modo è entrato a far parte di questa peculiare campagna pubblicitaria e il rifiuto netto e secco di questi messaggi da parte del popolo del web è un evento storico di enorme importanza perché in modo immediato e istintivo sancisce la bocciatura di quella linea programmatica. È come se le persone fossero scese in piazza per urlare: “Basta, non ne possiamo più di queste ipocrisie e di queste astuzie: sul tema riproduttivo decidiamo noi e non vogliamo né predicozzi né interferenze!”. La piazza è un po’ brutale e non va troppo per il sottile, ma è proprio per questo che quanto è accaduto col Fertility Day è stato di portata storica: non un mero, passeggero evento sociologico, ma un cambiamento profondo del paradigma concettuale e della filosofia che informa la vita sociale italiana.

L’inverno demografico è davvero un “inverno”? E in che senso?

Si può controbattere che, al netto di tutti i difetti e di tutte le ingenuità del Piano Nazionale e della campagna delle cartoline, resta il merito innegabile di aver richiamato l’attenzione sul problema vero, reale e grave del cosiddetto “inverno demografico” che starebbe portando alla morte del paese, destinato, ormi senza possibilità di salvezza, al languore catatonico della premorienza. Si potrà dire – sempre secondo questa tesi – che la Giornata ha fallito circa i mezzi per giungere all’obiettivo e circa i valori particolari, ma sul punto di fondo ha colto nel segno: la denatalità è una difficoltà importante e reale alla quale bisogna porre rimedio.

Può darsi che sia così, ma prima di rispondere è interessante esaminare le ragioni addotte a sostegno di questa tesi di fondo, che oltretutto viene data come scontata al punto da non richiedere neanche qualche parola di spiegazione. Il Piano Nazionale, che ha scelto di muoversi in questa direzione con tutta la fretta e l’energia possibili , senza porsi troppi problemi, si precipita ad affermare che occorre «promuovere una consapevolezza nelle persone e un cambiamento culturale che porti negli anni ad invertire la tendenza al declino delle nascite». L’unica ragione addotta al riguardo sembra essere che «l’attuale denatalità mette a rischio il welfare» perché non consente il ricambio generazionale. In altre parole la persistente denatalità rimette “in discussione la sostenibilità degli attuali equilibri economici e sociali del nostro Paese» perché non ci saranno più “risorse sufficienti per affrontare i bisogni sociali e sanitari di tutte le generazioni che si troveranno a coesistere, così come trovano risposta nell’attuale sistema di welfare».

Se becapisco bene, i nostri esperti hanno rispolverato la vecchia tesi del figlio “bastone per la vecchiaia dei genitori”, i quali sembrano purtroppo aver dimenticato che per essere sicuri di ricevere l’attenzione necessaria dei figli è necessario farne molti. Pensavo che il progresso civile avesse fatto abbandonare questa tesi, che è comunque priva di coerenza e di credibilità persino ad una prima analisi superficiale, se solo consideriamo il grande numero di genitori che sono abbandonati a se stessi non potendo contare su una prole disattenta, ingrata ed egoista. Ad ogni buon conto, sul piano morale mi sembra che si tratti di una proposta indecente, perché identifica nel figlio un mero mezzo di sostentamento dei genitori. Un tempo i figli “arrivavano” sia come effetto incontrollato dell’impulso sessuale, sia perché tanto si sarebbero poi “arrangiati a vivere comunque”, perché – come in Cuore il padre del giovane protagonista, Enrico, dice circa i poveri – “a loro basta di non morire […] mentre tu [Enrico] vuoi essere felice” e avere progetti di vita significativi e densi. Sono convinto che da un punto di vista morale la responsabilità genitoriale impone alle famiglie di predisporre adeguate premesse per una vita felice dei figli (questo in fondo è il concetto di genitorialità basato sulla responsabilità) e pertanto il controllo delle nascite mi pare quanto mai opportuno. In realtà, non appena cerchiamo di esaminare la ragione principale che sostiene il paventato spettro dell’inverno demografico ci dobbiamo rendere conto della sua assoluta mancanza di razionalità.

A prescindere da queste considerazioni, c’è chi replica che la ragione vera della diminuzione della natalità che il nostro Paese deve registrare non ha niente a che fare con la mancanza di lavoro, ma che è vero il contrario, che cioè il lavoro manca a causa della denatalità . Ebbene, pur non essendo esperto di materie come la demografia e l’economia non posso lasciar passare sotto silenzio il fatto che qualche giorno dopo il Fertility Day il Rapporto della Fondazione Migrantesci ha fatto sapere che nel 2015 gli italiani espatriati sono stati 107.529, il 6,2% in più rispetto all’anno precedente, e che a lasciare il nostro Paese sono stati soprattutto i giovani tra i 18 e i 34 anni (36,7%), cioè proprio quelli in età fertile che dovrebbero provvedere a scongiurare l’inverno demografico. Non capisco come mai si ponga così tanta attenzione alle “culle vuote” e così poca alle “emigrazioni piene”, che tra l’altro sono una perdita economica ingentissima, perché i giovani espatriati sono stati educati a costo nostro e ora vanno a portare ricchezza all’estero. Vorrei anche sottolineare che, da civiltà nutrita di superstizioni fin dai suoi esordi, sacrifichiamo a Nettuno un notevole numero di aspiranti “nuovi cittadini”, sappiamo bene come il Mare nostrum sia sempre stato avido di carne umana.

Queste considerazioni mi portano ad esaminare un ultimo dubbio: questo tanto paventato inverno demografico riguarda l’estinzione del “gene italico” o di ciò che possiamo chiamare la “societas italica” ? Si tratta di due possibilità radicalmente diverse e che non debbono essere confuse tra loro Non prendo neanche in considerazione l’ipotesi che le preoccupazioni riguardino il “gene italico”, una ipotesi che tutti dovremmo considerare assurda e obsoleta. Se invece esse riguardano la “societas italica”, allora bisogna precisare che è auspicabile la rapida estinzione di certi tratti di questa societas, come l’assuefazione al clientelismo, alla corruzione, all’adulazione del vincente e via dicendo. Non esiste una societas italica chiaramente definita attraverso il tempo e gli eventi e altrettanto chiaramente immutabile, la nostra società muta e si modifica continuamente, ne abbiamo prove quotidiane. Se si considera questo fatto, ha davvero poco senso l’ipotesi di una estinzione: si potrà dire che in futuro i cambiamenti saranno più significativi e più rapidi di quelli del passato, o che cambieranno interamente tenore, ma ciò per via della straordinaria trasformazione dei modi di vita che si sono sovrapposti a quelli tradizionali , e non certamente a causa della pigrizia riproduttiva delle giovani coppie. Il dubbio che l’inverno demografico sia davvero un’esiziale difficoltà da scongiurare rimane, e anzi si rafforza la convinzione opposta.

Per cercare di capire la ragione per cui nel Piano si dà per scontato che esista un consenso unanime sulla lotta all’inverno demografico, c’è un ultimo punto da considerare. Come abbiamo visto l’estensore del Piano Nazionale tende ad aggrapparsi a dettagli e a particolari marginali per affermare poi tesi di grande rilievo, che lascia prudentemente sullo sfondo. Se si tiene conto di questo modo di ragionare, allora non va sottovaluta l’affermazione tesa a sottolineare che «la teoria malthusiana del XVIII secolo […] ha perso progressivamente terreno in considerazione dell’importanza del progresso tecnologico nell’agricoltura e della diffusione sempre più accentuata delle tecniche di controllo delle nascite». Si può convenire che l’originaria formulazione della teoria malthusiana sia stata poco precisa, ma resta il fatto che il problema del controllo della popolazione è reale (anzi, più reale che mai) e che su questo Malthus non ha affatto sbagliato. Al contrario il Piano Nazionale sembra dare per scontato che, una volta assodato l’accantonamento della teoria malthusiana (nella sua prima formulazione), l’intera questione malthusiana debba essere considerata fallace e che si possa tranquillamente dire che non esiste alcun problema di sovrappopolazione e di responsabilità genitoriale nel controllo delle nascite. Di qui l’idea di sollecitare la riproduzione naturale e di proporla come un dovere sociale alle persone più giovani in modo da evitare il più possibile il ricorso alle tecniche (in particolare a quelle più complicate!). Non potendo più scoraggiare o vietare le tecniche in modo diretto, si paventa il pericolo dell’inverno demografico per suggerire in modo indiretto di evitarle: ecco la filosofia alla quale si ispira il Fertility Day.

Il problema della sovrappopolazione è invece più grave che mai. In realtà è persino possibile che il fatto che l’Italia abbia un basso tasso di natalità debba essere considerato un evento positivo, che potrebbe proporci come esempio di un nuovo e moderno modello di responsabilità genitoriale che anche gli altri Paesi dovranno inevitabilmente imitare in avvenire e non ci dispiace immaginare un futuro in cui la riproduzione umana sarà mediata dall’ausilio delle tecniche – una ipotesi che certamente atterrisce e sconcerta molti dei componenti del Tavolo consultivo. Anche se questa evenienza non dovesse verificarsi, resta comunque il fatto che la capacità di controllare la riproduzione ci impone un radicale ripensamento degli schemi mentali che ci vengono trasmessi dalla tradizione in merito al modo e al significato dell’aver figli. Gli schemi tradizionali sono stati invece pedissequamente recepiti dal Tavolo consultivo e stanno alla base del Fertility Day: il totale fallimento di questa iniziativa rappresenta la miglior prova possibile di come la società abbia respinto con un netto rifiuto la riproposizione di quegli schemi mentali, una risposta che ha un profondo significato morale e che ci riempie di soddisfazione.

Il maschilismo delle donne e il nuovo clerico-fascismo

Dunque, il 31 agosto 2016 mi arriva sul tavolo un documento del Ministero della Salute intitolato “Piano nazionale per la fertilità” a firma del Ministro Lorenzin e di un folto gruppo di studiosi di varie discipline, un documento che inneggia alla fertilità, annuncia un “Fertility day” (speriamo vietato ai minori) e indica quello che da oggi in avanti dovrà essere l’obiettivo della donna che ha a cuore la propria dignità e il proprio prestigio: “Difendere la sua fertilità, preparare una culla nel suo futuro”. Detta così sembrerebbe la pubblicità di una cooperativa di falegnami, ma il documento non ha pietà per nessuno e continua in questo modo:

“Per favorire la natalità, se da un lato è imprescindibile lo sviluppo di politiche intersettoriali e inter-istituzionali a sostegno della Genitorialità, dall’altro sono indispensabili politiche sanitarie ed educative per la tutela della fertilità che siano in grado di migliorare le conoscenze dei cittadini al fine di promuoverne la consapevolezza e favorire il cambiamento. Lo scopo del presente Piano è collocare la Fertilità al centro delle politiche sanitarie ed educative del nostro Paese. A tal fine il Piano si prefigge di:

1) Informare i cittadini sul ruolo della Fertilità nella loro vita, sulla sua durata e su come proteggerla evitando comportamenti che possono metterla a rischio

2) Fornire assistenza sanitaria qualificata per difendere la Fertilità, promuovere interventi di prevenzione e diagnosi precoce al fine di curare le malattie dell’apparato riproduttivo e intervenire, ove possibile, per ripristinare la fertilità naturale

3) Sviluppare nelle persone la conoscenza delle caratteristiche funzionali della loro fertilità per poterla usare scegliendo di avere un figlio consapevolmente ed autonomamente.

4) Operare un capovolgimento della mentalità corrente volto a rileggere la Fertilità come bisogno essenziale non solo della coppia ma dell’intera società, promuovendo un rinnovamento culturale in tema di procreazione.

5) Celebrare questa rivoluzione culturale istituendo il “Fertility Day”, Giornata Nazionale di informazione e formazione sulla Fertilità, dove la parola d’ordine sarà scoprire il “Prestigio della Maternità”.

Il lavoro del “Tavolo consultivo in materia di tutela e conoscenza della fertilità e prevenzione delle cause di infertilità” ha documentato il profilo multidisciplinare del tema delineando alcuni punti sostanziali per l’elaborazione di un Piano Nazionale per la Fertilità.

L’attuale denatalità mette a rischio il welfare. In Italia la bassa soglia di sostituzione nella popolazione non consente di fornire un ricambio generazionale. Il valore di 1,39 figli per donna, nel 2013, colloca il nostro Paese tra gli Stati europei con i più bassi livelli. Questo determina un progressivo invecchiamento della popolazione. In un passato relativamente recente la fecondità tardiva riguardava la nascita del terzo o quarto figlio.

Negli ultimi anni la maternità ad età elevate accade sempre più frequentemente per la nascita del primogenito. Il peso della cura dei bambini è molto rilevante per le donne più istruite e con lavori di responsabilità che si confrontano con alti costi opportunità e si trovano a dover ridurre la loro attività lavorativa. Il ritardo alla nascita del primo figlio implica un minor spazio di tempo, ancora disponibile, per raggiungere il numero desiderato di figli. La combinazione tra la persistente denatalità ed il progressivo aumento della longevità conducono a stimare che, nel 2050, la popolazione inattiva sarà in misura pari all’84% di quella attiva. Questo fenomeno inciderà sulla disponibilità di risorse in grado di sostenere l’attuale sistema di welfare, per effetto della crescita della popolazione anziana inattiva e della diminuzione della popolazione in età attiva. Va evidenziato che la contrazione della fecondità riguarda tutti gli Stati UE. Anche i Paesi anglosassoni, la Francia e i Paesi del nord Europa, che hanno attuato importanti politiche a sostegno della natalità, restano comunque al di sotto della soglia di sostituzione (2.1,comunemente definito “numero medio di figli per donna”, che consente a una nazione di fornire un ricambio generazionale) con differenze di pochi decimi di punto rispetto alla media UE, pure se registrano più alti tassi di natalità rispetto all’Italia o alla Germania.

Il nostro Paese si pone quindi all’interno di una tendenza comune nel continente, dovuta non solo a fattori sanitari ed economici ma anche e soprattutto culturali e sociali, la cui analisi dettagliata esula dal presente Piano della Fertilità; fattori che comunque meriterebbero di essere approfonditi con attenzione.”

Artefici di questo documento, secondo logica e buon senso, dovrebbero essere tutti uomini (patriarchi, maschilisti e oppressori ) e invece no, sono quasi tutte donne, cosa che mi ha ricordato che esistono anche donne maschiliste, orribile ma vero. Ma non ho il tempo, in questa sede , di occuparmi del maschilismo femminile, lo indico solo come fenomeno da reprimere a tutte le altre donne che di questa aberrazione pagano i conti, spero che sappiano come fare per liberarsi di questa anomalia.

Come ho cercato di spiegare molte occasioni sono contrario (diciamolo pure, molto contrario) a questi tentativi di ritrasformare le donne in uteri che camminano, ricacciandole nell’angusto spazio che si ricava per loro, in tutte le case, tra la cucina e la nursery, quello spazio dal quale sono sgattaiolate fuori con tanta fatica e sono ancor più contrari a questa storia del dare prestigio alla maternità (chissà come riderebbe Rita Levi Montalcini) vestendo del saio delle penitenti le donne che di figli non ne vogliono avere ( e il diritto alla autonomia?) o non ne possono avere, così sono andato a verificare nel lungo testo accluso le critiche al nuovo paradigma: non una parola. E sono altrettanto contrario (molto contrario) alla bufala del paese che piange perché le culle sono vuote, ho già sommessamente suggerito ai nostri amministratori di annegare un minor numero di nuovi potenziali cittadini nel mare nostrum, non ritengo che sia poi tanto difficile. Mi è sembrato un po’ strano che illustri studiosi proponessero una teoria abbastanza peculiare senza tener conto delle posizioni contrarie, così che ritengo di poter affermare che quello diffuso dal Ministero non è un documento scientifico, è propaganda fidei. A questo punto avrei potuto anche evitare di commentare questo finto documento, ma mi ricordava cose del passato che mi fanno ancora paura, un commento lo ho ritenuto necessario: perché il Fertility day nasce nello stesso brodo culturale nel quale si è formato tutto il pensiero clerico fascista sulla donna. Dunque, lasciatemi fare qualche commento a questo peculiare linguaggio che è stato scelto per scrivere il “documento” e poi parlerò brevemente della massaia rurale, la donna ideale secondo il fascismo.

Le parole

La prima cosa che salta agli occhi leggendo questo testo è l’assoluta mancanza di alcune parole che tutti siamo abituati ad usare , parole che fanno parte del lessico della laicità come autodeterminazione della donna, libertà riproduttiva, diritti . Questa non può certamente essere una svista, si tratta di una scelta fatta per presentare il documento per quello che è, l’espressione di una forma ben nota di paternalismo di stato, qualcosa della quale, in un’epoca contrassegnata profondamente e irrevocabilmente dall’ autonomia dei cittadini, non sentiamo certamente la mancanza, ma della quale gli autori del documento sembrano compiacersi. E’, è vero, un paternalismo un po’ diverso da quello al quale erano assuefatte le nostre ave, se non altro perché prevede anche la partecipazione di donne, magari quelle più “maschili”, arroganti e molto interessate al potere, ma resta comunque un atteggiamento inutile e controproducente: oggi lo sviluppo delle democrazie passa attraverso i diritti dei cittadini e il loro coinvolgimento diretto nelle scelte che li riguardano, e certamente non attraverso politiche istituzionali paternalistiche.

Tra le parole usate ci sono invece termini problematici, quali “Rivoluzione Culturale”, che già ai tempi di Mao Zedong venivamo educati a usare con cautela e che oggi bisognerebbe usare con prudenza; “enfasi” (per arginare il pericolo della denatalità), un termine negativo applicato alla rovescia che si condanna da solo; “innovazione” , lemma da matita rossa se usato per parlare di azioni note, come la formazione dei cittadini; si parla poi dei consultori come se ne parlava nel lessico dei quartieri, “fonti di promozione di cultura” si diceva nel gergo del territorio prima che il Ministero della Salute ( proprio lui, ministro Lorenzin) ne facesse scempio.

E poi l ‘idea più indifendibile, l’idea di costituire servizi di Medicina e Chirurgia della Fertilità, in assoluta controtendenza con quanto, sul piano della organizzazione di servizi sanitari, accade nel mondo, ( sarà bene che gli amministratori della salute preparino un piano previsionale di fattibilità, che osservi con attenzione i costi di questa idea così originale), e alla faccia di tutto quello che la medicina sta finalmente cercando di costruire, meglio tardi che mai, una visione olistica della salute, che consideri la donna come persona e non come una portatrice di organi specifici dedicati alla riproduzione (e il sesso?) e che si occupi della sua salute, cioè anche della sua dignità, delle sue speranze e dei suoi sentimenti (uno dei quali, ripeto, solo uno dei quali è il desiderio di maternità).

Il documento affronta, poi, il problema della divulgazione scientifica, della informazione, dei media, argomento importante, e come se fosse colpito da una improvvisa crisi di follia chiama in campo, ex abrupto, in modo a mio parere superficiale, la promozione della fiducia, come se la fiducia fosse una merce, un prodotto culturale qualsiasi e non una componente essenziale delle relazioni sociali che è terribilmente difficile promuovere e che deve essere guadagnata dagli operatori mettendo in campo azioni rivolte ai cittadini ai quali, in cambio, richiedono fiducia. La fiducia è un tema delicato e complesso, centrale in tutte le relazioni sociali, punto nevralgico della crisi sociale, di sistema, che, in aggiunta ai problemi della globalizzazione, il nostro paese sta vivendo. Occuparsi di individuare “azioni positive” utili per il recupero di un bene collettivo cruciale, come la fiducia sociale, la colla che ci tiene insieme tutti, è un tema molto serio, temo che le Giornate della Fertilità non siano lo strumento più adatto, a meno di non voler considerare i cittadini italiani come ” minori a vita” e le donne come serbatoio di stabilità sociale. La fiducia sociale non è più, purtroppo, preventiva, anzi è vero il contrario, regna la diffidenza preventiva. Per guadagnare la fiducia dei cittadini e delle donne in particolare , l’intervento davvero risolutivo riguarda il mercato del lavoro, riguarda le politiche di sostegno economico alla formazione delle nuove famiglie, la conciliazione tra lavoro domestico e lavoro professionale esterno: è questo che frena davvero sia l’indipendenza dei giovani dalle famiglie, (dalla quale ha origine una accelerazione della formazione dei nuovi nuclei sociali), che la possibile anticipazione delle scelte di genitorialità.

Richiamare la “bellezza” della genitorialità e il suo prestigio sociale, non sembra proprio una strada adatta, rivisita vecchi percorsi che la storia ha già bollato duramente, si pensi ad iniziative analoghe in epoca fascista.

Le strade per incidere sulla cultura esistente, qualunque essa sia, sono molto più complicate, e anche volendo riconoscere a questa iniziativa delle “buone intenzioni”, sembra proprio che essa manchi della profondità analitica necessaria. Ci si potrebbe fermare qui, ma va ricordato che i tentativi istituzionali di regolazione dei comportamenti dei cittadini possono essere anche pericolosi, inutili o persino controproducenti, con singolari effetti contro-intuitivi . Si pensi alle conseguenze della circolare Degan, che volendo regolare le donazioni di gameti nel sistema pubblico diede il via al sistema privato, o alla legge 40, che volendo essere uno strumento di conservazione e di coercizione della libertà dei cittadini, ha chiarito bene che questa strada, in un sistema democratico costituzionale, è impossibile da percorrere.

Infine, ammetto di essere un po’ perplesso a proposito di come il documento viene presentato perché non esiste il minimo accenno all’esistenza di posizioni contrarie, un riferimento indispensabile se si pensa all’enorme numero di dissensi che questo progetto inevitabilmente farà scendere in campo. Mentre scrivo, sui social media sale già la marea di critiche, la campagna stampa è stata ritirata e chissà cosa altro succederà. In definitiva la scelta di un fertility day per risvegliare l’istinto naturale della maternità nelle donne italiane si inquadra perfettamente nel conflitto di paradigmi del quale ho più volte accennato e che riguarda la proposta di un nuovo concetto di genitorialità che sostituirà inevitabilmente quello tradizionale , che viene sollecitato dalle nuove conoscenze e dagli straordinari progressi della scienza in campo riproduttivo e che costruisce la sua autorità soprattutto sul fatto che è ormai comune acquisizione che non esiste un istinto di genitorialità ma esistono solo sentimenti, variegati, spesso pieni di incertezze, mutevoli e, come spesso accade ai sentimenti, contraddittori.

Ho già spiegato come i conflitti di paradigmi vedano d’abitudine tre differenti protagonisti: coloro che difendono il paradigma antico, coloro che combattono per far vincere il nuovo e i cosiddetti mediatori, che in realtà sono affezionati all’antico , ma riconoscono almeno alcune delle verità contenute nel nuovo e cercano di diminuire i danni e di attenuare il dolore della sconfitta, limitando i riconoscimenti al minimo indispensabile con nuove ipotesi che generalmente li riempiono di ridicolo.

Nella antica disputa tra coloro che sostenevano il sistema eliocentrico copernicano, il nuovo paradigma, e quanti ritenevano che questa rivoluzione non solo contraddicesse il modello geocentrico, nato dalla sintesi del sistema cosmologico di Aristotele con quello astronomico di Tolomeo, ma addirittura cercasse di togliere credibilità al Libro del Libri, l’Antico Testamento, si propose d come mediatore Tycho Brahe , sostenitore convinto del geocentrismo, ma disposto a riconoscere che qualcosa di vero c’era anche nella teoria di Copernico: il suo sistema, il cosiddetto sistema ticonico, prevedeva un modello del tutto inedito ( e anche molto ridicolo, la stessa sorella di Brahe ne sembrava divertita) in cui i pianeti giravano intorno al sole, ma poi se lo portavano con sé in corteo e tutti insieme giravano intorno alla terra. Ebbene possiamo immaginare che gli estensori del documento siano i moderni Tycho Brahe e continuino a ritenere che il sole gira intorno alla terra ( la genitorialità è un istinto, il ruolo della donna è quello assegnatole dalla natura, fare figli e occuparsi delle faccende domestiche, fare figli è l’unico mezzo col quale una donna può assicurarsi dignità e prestigio), fingendo di apprezzare anche qualche ipotesi del nuovo paradigma, rinunciando al concetto di “dignità della procreazione”, accettando l’importanza della prevenzione e, di conseguenza della informazione ( ammettendo obtorto collo l’ importanza dell’ educazione sessuale) convinti che per sconfiggere l’alito del demonio bisogna rassegnarsi a mangiare qualche caramella di menta.

Guarda un po’ chi si rivede!

Era nato, nella prima metà dell’Ottocento, un nuovo movimento filosofico, definito da Henry de Saint Simon “il positivismo”, che ebbe poi modo di diffondersi nella seconda metà dello stesso secolo in tutta l’Europa e che influenzò la nascita del “verismo” in Italia e del “naturalismo” in Francia. Simile per alcuni aspetti all’illuminismo, del quale condivideva la fiducia nella scienza e nel progresso, e per altri aspetti al romanticismo e alla concezione romantica della storia, il positivismo si presentò inizialmente come un progetto di rinnovamento e di superamento della crisi politica e culturale che era seguita alla Rivoluzione francese per poi proporsi come elaborazione ideologica della borghesia industriale e progressista caratterizzandosi soprattutto per il tentativo di applicare il metodo scientifico a tutte le sfere della conoscenza e della vita dell’uomo. Il pensiero positivista si confrontò inizialmente con una visione romantica della donna, considerata un essere sentimentale e irrazionale, emotivo, fragile e psicologicamente instabile e, lungi dal criticarla, la confermò, basandosi sui fondamenti scientifici che venivano utilizzati per dimostrare che la donna era un essere umano “inferiore”, un convincimento che comunque era straordinariamente diffuso. Non va dimenticato che in quegli stessi anni si elaboravano teorie – apparentemente convalidate da esperimenti pseudo-scientifici – che giustificavano il razzismo. Le discipline scientifiche maggiormente accreditate – come la medicina, la biologia e la neonata psicologia – diffusero l’immagine di un essere irrazionale e isterico, “uomo mancato” (ricordate Tommaso?) che aveva assoluto bisogno di dipendere dall’uomo in quanto, se lasciato a se stesso e lasciato libero di agire e di scegliere poteva risultare socialmente pericoloso.

E’ molto probabile – e lo diceva già Engels nella sua “Origine della famiglia” – che questa particolare attenzione al ruolo della donna nella società fosse da ricercare nel fatto che il processo di industrializzazione, la cosiddetta fase di transizione sociale, aveva chiamato la donna a gestire un ruolo maggiormente attivo nella realtà sociale ed economica , consentendole di entrare (con qualche esitazione e molti maltrattamenti) nel mondo del lavoro salariato. Ciò rappresentava, per gli uomini, un nuovo pericolo al quale non erano preparati: quello di un nuovo equilibrio sociale, certamente meno vantaggioso per loro, e contemporaneamente accelerava nelle donne la consapevolezza della propria condizione e la formazione di una coscienza politica. Diventò dunque indispensabile elaborare nuove teorie scientifiche che confermassero l’inferiorità del genere femminile nei confronti di quello maschile, un problema che fu inizialmente (e solo in parte) risolto da scienziati come Paul Julius Möbius e da intellettuali come Otto Weininger. Le teorie di Möbius, basate soprattutto sul confronto tra il volume del cranio degli uomini e quello delle donne, non avrebbero in effetti dovuto godere di alcun credito, ma non fu così. In Italia, solo per fare un esempio, Cesare Lombroso e Guglielmo Ferrero dimostrarono “scientificamente” che le donne avevano una minor sensibilità nei confronti del dolore e che ciò era dovuto a una “minore reazione psichica agli stimoli interni”; elaborarono così una teoria secondo la quale esistevano in pratica soltanto tre tipi di donna – la delinquente, la prostituta e la femmina normale – tutti comunque inferiori all’uomo soprattutto per quanto riguardava le capacità cognitive nel loro complesso. Anche in questo caso le teorie dei due studiosi erano giustificate in modo assolutamente puerile: il cervello femminile pesava indubbiamente meno di quello maschile e da ciò nascevano le molte debolezze mentali e psicologiche della donna, alla quale dovevano pertanto essere riservati ruoli facilmente gestibili, come quello di madre e di sposa, svolti con relativa efficacia e comunque sempre minacciati dalla forte inclinazione femminile alla menzogna e alla crudeltà. Del resto, anche le tesi di Weininger (che aveva scritto in tutte lettere che le donne si distinguevano soprattutto per le loro mancanze e i loro difetti, poca memoria, nessun senso dell’etica, carenza assoluta di logica, e venivano apprezzate solo per le potenzialità riproduttive, nelle quali non era comunque possibile riconoscere alcun valore morale) furono più tardi riprese da Julius Evola, una peculiare figura di filosofo fascista che ne trattò addirittura nel 1958 ( Metafisica del sesso, Atanòr, Todi-Roma). Fu in definitiva ancora una volta la diversità biologica a legittimare l’idea dell’inferiorità femminile: si finì addirittura col trasformare uomini e donne in entità simboliche nelle quali si riconobbero rispettivamente i principi della ragione e della sottomissione, inutile precisare chi fosse l’essere umano ragionevole e chi il sottomesso.

Un matrimonio inevitabile: l’ideologia fascista e la cultura cattolica

Se si vuol capire la relazione che si creò tra l’ideologia fascista e la cultura cattolica per quanto riguarda l’atteggiamento e le scelte che dovevano essere tenute nei confronti del ruolo delle donne nella società, è sufficiente leggere il Sillabo e dare una rapida occhiata ai documenti del Concilio Vaticano I: il terreno d’incontro è molto grande e si può facilmente comprendere come il fascismo fece di tutto per non perdere l’occasione di fondere la sua politica patriarcale e misogina con le posizioni più conservatrici della Chiesa cattolica. I risultati di questa anomala fusione (che si potrebbe definire eterologa, visto che ne stiamo parlando come di un processo chimico) si ritrovano ancor oggi nei molti documenti che i sacerdoti cattolici più reazionari continuano a mettere in rete. Ne riportiamo brevi parti di uno, molto recente, che da un sacerdote particolarmente prolifero, don Curzio Nitoglia (La dottrina sociale al Concilio Vaticano I. www.doncurzionitoglia.net, 22 luglio 2013):

” L’unico vero rimedio ai mali della questione sociale è lo spirito cristiano: “cercate innanzitutto la santità e la vita eterna ed il resto vi sarà dato in sovrappiù”. Purtroppo lo Stato moderno liberale o comunista ha laicizzato, ha eliminato l’influsso del Vangelo sulla polis e la societas ed ha abolito le Corporazioni religiose degli artigiani ed operai, ha impoverito il mondo dell’artigianato, della agricoltura a favore della grande industria, ha scoraggiato il risparmio a favore dei “bankster”, (una parola che nasce dalla crasi tra banchiere e gangster e che fu proposta per la prima volta da Léon Degrelle, uomo politico belga, fascista e giornalista, nel 1937, come termine derogatorio per indicare gli operatori dell’alta finanza) che hanno reso il popolo massa pronta per essere fagocitata dal marxismo e dal liberismo; ha favorito il lavoro delle donne, dei bambini, ha disprezzato il riposo domenicale, il giusto tempo da dare a se stessi, alla famiglia e a Dio. Quindi ha rivoluzionato la società, la famiglia e l’individuo, non più ordinati e finalizzati a Dio, ma al denaro e al benessere materiale su questa terra, la quale non è più a misura d’uomo ma l’uomo è diventato una rotella dell’ingranaggio industriale anonimo ed economico/finanziario. Naturalmente questa terra è diventata un campo di battaglia, la guerra di tutti contro tutti in cui vince il più forte (che non sempre è il migliore moralmente, ma solo il più prepotente fisicamente).

Oggi (2001-2013) la rivoluzione liberale e quella socialista si sono unite e dominano il mondo dando il peggio che portano in sé: 1°) il liberalismo concede la licenza assoluta e il consumismo amorale, che portano al caos anarchico dei poteri forti e ricchi; 2°) il socialismo è sempre pronto a fomentare disordini e guerre civili, ed inoltre non concede più al cittadino quel certo ordine sociale e civile che davano i regimi forti nel passato: avendo sposato il liberismo libertario e libertino è diventato fonte di anarchia dei poveri; 3°) infine, dopo aver tolto la Fede e la Speranza soprannaturali all’uomo odierno ed averlo illuso per decenni sino al 2008/2009 su un’era di pace, ricchezza, benessere fisico, hanno lasciato sprofondare il mondo intero (2009/2013) in uno stato di povertà e crisi economica, che si ripercuote sulla sussistenza economica e sulla salute dei cittadini, i quali sono non solo in preda alle malattie (data la natura umana che per definizione è corruttibile), ma non ricevono più i sussidi per curarsi e non hanno di che vivere decentemente, per cui cadono nella disperazione e talvolta si suicidano.

Lo Stato o il Governo deve garantire innanzitutto l’ordine interno della Società civile e la tranquillità dei cittadini. Il laicismo deruba la Società e i cittadini dell’uno e dell’altra, inoltre toglie loro anche Dio e l’aldilà, promettendo a parole un “paradiso” in terra (sovietica o americanista), ma trasformando in realtà la terra in un inferno (Gulag e libertarianismo/freudiano alla Milton Friedmann).

Il grande pericolo che sovrasta la vecchia Europa è l’invasione od occupazione da parte di masse enormi inviate dall’Africa e dall’Asia, le quali in sé hanno ricchezze enormi ma che i “poteri forti” non lasciano sfruttare agli indigeni, che rappresentano la nuova manovalanza della Rivoluzione del “proletariato” (senza neppure la prole) o meglio “extra-comunitariato” sbandato e pronto alla guerra di classe, di razza e di religione. Gli uomini di Chiesa, che dovrebbero insegnare la Dottrina sociale, son diventati con il Vaticano II delle marionette nelle mani dei poteri forti o massonici ebraico/americani e vanno a Lampedusa o dall’on. “Luxuria” a Genova ad incoraggiare coloro che metteranno a ferro e a fuoco un’Europa diventata un’enorme Sodoma e Gomorra.

Oggi vi è un razzismo all’incontrario: se prima l’occidente ha schiavizzato l’Africa (nel Brasile la schiavitù è stata abolita solo nel 1888) oggi è l’Africa a dominare l’occidente ed anche l’Europa che è diventata una costola della “Magna America”. Non esiste una “Magna Europa” (come pretende “Alleanza Cattolica”), che si estende culturalmente sino in nord-America, ma esiste un’America del nord la quale si è estesa sino alla vecchia Europa e ne ha disseccato le radici e divelto le fondamenta culturali, morali, religiose, spirituali e civili. Siamo tutti “americani” e gli Stati che si ostinano a restare se stessi (Russia, Libia, Tunisia, Egitto, Siria, Libano, Palestina) vedono improvvisamente delle rivoluzioni colorate o primaverili nascere “spontaneamente” teleguidate dalle tre forze che reggono gli Usa: il Calvinismo, la Massoneria e il Giudaismo talmudico.

Di fronte a un caos talmente profondo e universale solo l’Onnipotenza divina può mettervi rimedio, noi dobbiamo fare il nostro dovere quotidiano, dedicarci alla “preghiera e penitenza” come ha raccomandato la Madonna da Lourdes a Fatima ed aspettare il castigo che ci siamo ampiamente meritato per aver apostatato da Dio ed avergli preferito l’Uomo, che è diventato “l’asso piglia tutto” dell’epoca moderna, come scriveva acutamente padre Cornelio Fabro”.

L’angelo del focolare è espulso dal lavoro

Tra i molti punti d’incontro tra la politica del fascismo e il messaggio della religione ci sembra particolarmente interessante quello relativo alla volontà di espellere le donne dal lavoro salariale per obbligarle a concentrarsi sul proprio ruolo “naturale” di casalinghe. Così, Chiesa e regime si adoperarono insieme per esaltare la maternità e la cosiddetta “vera femminilità”, per richiamare le donne ai loro compiti fondamentali di educatrici e di “angeli del focolare”, in aperto contrasto con i movimenti che privilegiavano la cosiddetta “modernizzazione”, l’attivismo politico e l’odiato “femminismo”. Sia da parte politica che da parte religiosa vennero persino predisposti momenti di gestione del tempo libero che si basavano su organizzazioni e associazioni di vario genere e avevano lo scopo di esaltare la maternità, la “buona e virtuosa femminilità” e la difesa della famiglia e delle sue tradizioni. Del resto le due organizzazioni dimostravano la stessa ostilità (diversamente motivata) nei confronti dell’aborto, della contraccezione, della vita sessuale extramatrimoniale e di molte dottrine politiche e sociali ispirate alla cultura liberale e marxista. Pio IX, l’autore del Sillabo, aveva indetto nel 1870 il Concilio Vaticano I, con il quale la dottrina della Chiesa cattolica diventava un concreto progetto politico e sociale e aveva scritto due encicliche – Quanta Cura, alla quale era allegato il Sillabo, e Quod Apostolici Muneris – che condannavano tutte le ideologie politiche moderne, dal liberalismo al socialismo, criticavano la Rivoluzione francese e il Risorgimento italiano e facevano riferimento alla libertà di pensiero che aveva caratterizzato l’illuminismo come alla libertà di “perdere se stessi”. Nell’Enciclica Quod Apostolici Muneris, pubblicata nel 1878, c’è una lunga e minacciosa critica al socialismo, al marxismo e al materialismo storico che non poteva che entusiasmare, più di 40 anni dopo la sua pubblicazione, l’animo fortemente anticomunista dei fascisti:

“Già dall’inizio del Nostro Pontificato, secondo quanto richiedeva la natura dell’Apostolico ministero, con Lettera enciclica a Voi indirizzata, Venerabili Fratelli, segnalammo la micidiale pestilenza che serpeggia per le intime viscere della società e la riduce all’estremo pericolo di rovina; indicammo contemporaneamente i rimedi più efficaci per richiamarla a salute e per salvarla dai gravissimi pericoli che la sovrastano. Ma nel giro di poco tempo crebbero talmente i mali che allora deplorammo, da sentirci ora costretti a rivolgervi di nuovo la parola, come se alle Nostre orecchie risuonasse la voce del Profeta: “Grida, non darti posa; alza la tua voce come una tromba” (Is 58,1). Comprendete facilmente, Venerabili Fratelli, che Noi parliamo della setta di coloro che con nomi diversi e quasi barbari si chiamano Socialisti, Comunisti e Nichilisti, e che sparsi per tutto il mondo, e tra sé legati con vincoli d’iniqua cospirazione, ormai non ricercano più l’impunità dalle tenebre di occulte conventicole, ma apertamente e con sicurezza usciti alla luce del giorno si sforzano di realizzare il disegno, già da lungo tempo concepito, di scuotere le fondamenta dello stesso consorzio civile. Costoro sono quelli che, secondo le Scritture divine, “contaminano la carne, disprezzano l’autorità, bestemmiano la maestà” (Gd 8), e nulla rispettano e lasciano integro di quanto venne dalle leggi umane e divine sapientemente stabilito per l’incolumità e il decoro della vita. Ai poteri superiori (ai quali, secondo l’ammonimento dell’Apostolo, conviene che ogni anima si tenga soggetta, e che da Dio ricevono il diritto di comandare) ricusano l’obbedienza e predicano la perfetta uguaglianza di tutti nei diritti e negli uffici. Disonorano l’unione naturale dell’uomo e della donna, rispettata come sacra perfino dai barbari, e indeboliscono e anche lasciano in balìa della libidine il vincolo coniugale per il quale principalmente si mantiene unita la società domestica. Presi infine dalla cupidigia dei beni terreni, che “è radice di tutti i mali, e per amore della quale molti hanno traviato dalla fede” (1Tm 6,19), impugnano il diritto di proprietà stabilito per legge di natura, e con enorme scelleratezza, dandosi l’aria di provvedere e di soddisfare ai bisogni e ai desideri di tutti, si adoperano per rubare e mettere in comune quanto fu acquisito o a titolo di legittima eredità, o con l’opera del senno e della mano, o con la frugalità della vita. Rendono pubbliche queste mostruose opinioni nei loro circoli; le consigliano nei libercoli; le diffondono nel popolo con un mucchio di gazzette. Pertanto si è accumulato tanto odio della plebe sediziosa contro la veneranda maestà e l’impero dei Re, al punto che scellerati traditori, sdegnosi di ogni freno, più volte a breve intervallo di tempo, con empio ardimento rivolsero le armi contro gli stessi Sovrani”.

C’era dunque grande diversità tra la morale di riferimento del genere maschile e quella del genere femminile, per gli uomini era certamente essenziale l’impegno civile, per le donne era dirimente la vocazione alla maternità insieme alla capacità di reprimere i propri impulsi sessuali. Lo scriveva, all’inizio del XX secolo, uno dei più famosi pedagogisti cattolici, Friedrich Wilhelm Förster:

“La donna non può dimostrare in modo più degno la sua superiorità e il suo ritegno di fronte all’egoismo della passione puramente carnale se non appunto attenendosi incrollabilmente alla forma matrimoniale consacrata. Anzi, si può affermare che nella donna appunto la maternità, che la eleva al di sopra dell’uomo, deve riposare sopra queste garanzie del vincolo tra i due sessi, vincolo che deve essere reso più solenne coll’intervento della religione e della tradizione; perché appunto dalla maternità la donna è messa in rapporto più vivo e profondo con l’avvenire e in più intimo e misterioso contatto con il creatore che non l’uomo, la cui azione è limitata al presente” ( Il problema sessuale nella morale e nella pedagogia. Discussioni coi moderni riformatori. Sten, Torino, 1910).

Una politica piena di contraddizioni

In realtà non è semplice decifrare e ricostruire la politica del partito fascista nei confronti del genere femminile, una politica altrettanto disomogenea e contraddittoria quanto lo fu l’ideologia sulla quale si fondava. Quello che determinava le maggiori contraddizioni era il fatto che le stesse basi teoriche sulle quali il movimento fascista doveva fondarsi, identificavano l’immagine della donna con quella, alquanto anacronistica, dell’angelo del focolare, una persona quasi asessuata dedicata alla procreazione e all’educazione dei figli, mentre il partito si doveva pragmaticamente confrontare, sul piano economico, con una fase di transizione piena di difficoltà e difficile da interpretare: era oltretutto necessario risolvere il problema dell’inurbamento di molte famiglie contadine, richiamate nelle città dalla industria appena nascente, un evento che aveva già creato grandi scompensi nelle famiglie di molti paesi europei. Tutto ciò al termine di una guerra mondiale che aveva notevolmente impoverito la popolazione, riempito il paese di debiti, modificato abitudini e rapporti sociali, un momento certamente assai poco adatto a prefigurare una società pre-capitalistica che avrebbe dovuto contare, in teoria, su donne disponibili a sacrificarsi impegnandosi contemporaneamente a produrre un gran numero (otto milioni, questa era la richiesta di Mussolini) di future baionette e a dare una mano ai mariti nel lavoro extra-moenia. La classe dirigente del partito si dovette rendere conto del fatto che produrre gli otto milioni di baionette sui quali il Duce sperava di poter contare era fuori dalla portata delle nostre coppie (che al contrario facevano sempre meno figli) e cercò di riparare come poteva: la propaganda fascista fece tutti gli sforzi possibili per inculcare nella testa delle donne che fare figli era la missione che era stata loro assegnata (una missione alla quale il loro patriottismo doveva impegnarle allo spasimo) e che dovevano lasciare il lavoro al quale si erano finalmente adattate per ritornate tra le mura domestiche. Nei giornali fascisti del tempo (Critica fascista, La stirpe, La difesa della razza, Giovinezza, Il Secolo fascista) si potevano leggere enfatiche dichiarazioni destinate a esaltare il ruolo materno:

“La donna fascista deve essere madre, fattrice di figli reggitrice e direttrice di vite nuove…. Per essa occorre una intensa evoluzione spirituale verso il sacrificio, l’oblio di sé, l’anti-edonismo individualistico….”.

“La donna veramente donna non ambisce eguaglianze, non sogna indipendenza, non chiede diritti maschili, ma è dolcemente fiera dei suoi doveri femminili…. Coloro che aspirano ad emanciparsi, coloro che per l’ingegno, per l’attività, per la volontà si sono acquistata una reputazione più o meno legittima hanno nell’aspetto fisico come nella fisionomia morale qualcosa di mascolino… ed è per questo che noi dobbiamo imparzialmente riconoscere che la maggior parte delle donne superiori che furono grandi per se stesse o come ispiratrici di uomini celebri appartengono non al tipo delle mogli oneste e delle madri feconde ma al tipo di Aspasia…”.

Persino la sessualità femminile fu privata della sua dimensione più intima e divenne un fatto pubblico, sottoposto a norme, regole e controlli. Lo stesso Giovanni Gentile, “il” filosofo del fascismo, scrisse che ” la donna è colei che si dedica interamente agli altri fino a giungere al sacrificio e all’abnegazione di sé; la donna è soprattutto idealmente madre , prima di essere tale naturalmente. … Madre per i suoi figli, per gli infermi, per i piccoli affidati alla sua educazione: in ogni caso per tutti coloro che possono trarre beneficio dal suo amore e attingere a quella sua innata, originaria, essenziale maternità” (La donna nella coscienza moderna, In: La donna e il fanciullo. Sansoni, 1934).

Come era naturale, per poter confinare le donne alle loro funzioni naturali e primarie – quella di madri, di spose e di reggitrici della casa – fu indispensabile impedire loro di svolgere qualsiasi tipo di attività che potesse distrarle dagli obiettivi che coscienza e amor di patria indicavano loro: fu così per il lavoro extra-moenia e fu così ugualmente per l’istruzione.

Ferdinando Loffredo – uno dei più interessanti e meno conosciuti ispiratori della politica sociale e della famiglia del fascismo, morto centenario nel 2008 – scriveva: “Sarà fatale che il fascismo affronti e risolva questo problema fondamentale nella creazione della nostra civiltà, realizzando la negazione teorica e pratica di eguaglianza culturale tra uomo e donna che può alimentare uno dei più dannosi fattori della dannosissima emancipazione della donna” ( Politica della famiglia, Bompiani, Milano, 1938). A questo scopo il regime cercò di accentuare al massimo le differenze tra i sessi utilizzando un modello di “pedagogia differenziale” che veniva applicato fin dalla primissima infanzia. Alla base di questa politica stava la convinzione che la donna era comunque (e da qualsiasi lato la si considerasse) inferiore all’uomo e che se era diversa lo era anche in termini qualitativi, anche se, per fortuna, le sue capacità cognitive erano sufficienti a consentirle di svolgere i compiti per i quali era nata. Da ciò la costruzione di percorsi didattici del tutto particolari, adatti alle sue caratteristiche, rispettosi delle sue peculiarità, sufficienti a fare di lei la collaboratrice tenera e affettuosa dell’uomo , sempre e comunque “secondo natura”. Insomma, la donna poteva affrontare percorsi culturali severamente separati da quelli maschili che le consentivano di raggiungere un certo livello di istruzione ma in grado di impedirle di entrare in competizione con l’uomo.

La politica del fascismo nei riguardi dell’istruzione femminile fu molto confusa e disordinata agli esordi, ma a partire dal 1930 sfociò in una serie di provvedimenti più razionalmente ordinati, che mantennero la stessa apartheid degli esordi ma presentarono anche alcuni aspetti positivi, come ad esempio l’istituzione di Scuole femminili quali furono le Scuole femminili di avviamento professionale, il Magistero e le scuole superiori per maestre rurali, assistenti sociali e insegnanti di economia domestica. Le donne rimanevano, invece, escluse da tutti gli insegnamenti fondamentali dei Licei e fu loro persino impedito di partecipare ai Littoriali della cultura e dello sport.

Il Governo italiano investì molte energie nello sforzo di impedire alle donne di accedere ai livelli superiori di istruzione, più energie di quante – se consideriamo i dati di quel periodo storico relativi alla scolarità – sarebbero comunque state necessarie. Nell’anno scolastico 1934-1935 le bambine che frequentavano le scuole elementari in Italia erano l’88% rispetto agli scolari di sesso maschile, ma questa percentuale era solo pari al 69% nelle scuole medie e al 16% negli Istituti superiori e nelle Università. In definitiva il fascismo era riuscito a consolidare una cultura (certamente già esistente da secoli) che scoraggiava le donne a continuare gli studi e le convinceva che una eventuale carriera professionale avrebbe certamente ostacolato la loro “missione” naturale che con quegli studi e quelle carriere non aveva niente a che fare.

Chi voglia saperne di più può leggere il libro di Loffredo, Politica della famiglia, nel quale l’Autore dichiara, tra l’altro, di “essere favorevole della restaurazione della demograficamente necessaria sudditanza della donna all’uomo” e condanna “quel fenomeno morboso e malsano che si sintetizza nell’emancipazione dell’individuo femmina”. Loffredo era convinto che le cause del calo demografico potevano essere identificate nella crisi dell’istituto familiare e riteneva necessario favorire la formazione di nuove famiglie facendo nascere nelle persone il desiderio di crearsi una discendenza , un sentimento che si era innaturalmente e progressivamente affievolito nei cittadini a causa dell’emancipazione femminile e della diffusione del materialismo individuale. Il nemico giurato di questa crisi dell’istituto familiare, sempre secondo Loffredo, doveva essere identificato nell'”individuo liberale”, un soggetto chiuso nel suo benessere e nel suo egoismo, interessato solo ai beni materiali , dimentico di ogni valore spirituale e religioso.

Avendo constatato che matrimoni e nascite erano soprattutto in calo nei luoghi nei quali era maggiormente diffuso il benessere materiale, Loffredo proponeva di diminuire il tenore di vita degli italiani che vivevano e lavoravano nel nord del Paese e di favorire invece la vita dei contadini nelle campagne, un luogo che considerava ancora una rilevante risorsa demografica. Ammetteva però la scarsa rilevanza di questo suo progetto e identificava la reale causa della crisi che stava attanagliando il Paese nel successo che in alcune parti di esso arrideva all’emancipazione della donna, e al progresso culturale professionale e psicologico di una parte della popolazione femminile, tutti pericoli costanti per la società in quanto capaci di generare famiglie moralmente corrotte. Secondo Loffredo la donna italiana era stata assorbita dalla mentalità edonistica e individualista dell’inizio del secolo che l’aveva distratta e allontanata dal suo destino naturale, quello della vita domestica e del lavoro dei campi. Di qui la necessità di evitare per lei ogni occasione di emancipazione, di qui il bisogno di percorsi educativi differenziati , il divieto di dedicarsi a lavori extra-domestici e a ogni genere di attività sportiva.

Su questa necessità di tenere le donne lontane dallo sport ( oltre che, naturalmente, da una istruzione che non fosse elementare) Loffredo ebbe molte occasioni di intervenire. Le attività sportive, affermava, erano semplici pretesti per abbandonare le pareti domestiche e occasioni per considerare con maggior attenzione il proprio corpo. Quello che si poteva concedere alle femmine era, al massimo, l’esercizio fisico, l’attività fine a se stessa: nessuna concessione invece all’agonismo, responsabile oltretutto della perdita del pudore, una delle maggiori virtù femminili. E in ogni caso, concludeva Loffredo, sia lo sport che il lavoro salariato erano responsabili di una mentalità anti-generativa e di una destrutturazione del nucleo familiare che si corrompeva e perdeva la sua capacità di aggregazione.

Analizzando i vari problemi proposti dall’occupazione femminile Loffredo sottolineava come non tutte le attività fossero egualmente negative: le operaie, ad esempio, non modificavano in modo significativo il loro atteggiamento nei confronti della riproduzione e della maternità, cosa che accadeva invece comunemente alle impiegate, al punto che si poteva dichiarare che “la macchina da scrivere era lo strumento che distruggeva la famiglia”. La conclusione inevitabile di tutto ciò era che la donna aveva una assoluta necessità di essere tutelata e che questa protezione non poteva essere applicata “nel lavoro” ma doveva molto semplicemente escluderla “dal lavoro”.

Almeno in apparenza alcuni dei suggerimenti di Loffredo furono ascoltati. Il regime limitò in molti modi l’occupazione femminile, ad esempio escludendo e donne dall’insegnamento di materie come lettere e filosofia nei licei (1926) e non ammettendole ai concorsi per le amministrazioni statali (1933); in seguito fu regolata l’assunzione del personale femminile negli impieghi pubblici, limitando al 5% la presenza delle donne nei ruoli direttivi e al 20% quella nei ruoli di minor prestigio. Nel 1938 nuove norme imposero una quota massima del 10% di assunzioni femminili nelle aziende di media grandezza, le più numerose nel Paese. Il Regime non escluse mai del tutto le donne dal lavoro nelle fabbriche e nelle piccole imprese, ma le tenne generalmente lontane dai ruoli impiegatizi: in ogni caso durante tutto il ventennio le donne non superarono mai il 25% del personale occupato nelle fabbriche.

Le teorie di Ferdinando Loffredo – un economista che, lo ripetiamo, è considerato un importante ispiratore della politica del fascismo in campo sociale – possono risultare stupide, odiose o anche solo ridicole a molti di noi, ma certamente piacquero al partito politico che ha governato l’Italia per molti anni dopo la caduta del fascismo, la Democrazia Cristiana. Si può trovare in rete una intervista rilasciata dallo stesso Loffredo a Giuseppe Brienza nel 2002 nella quale racconta le sue vicissitudini di reduce: tornato in Patria nel 1945 (la guerra lo aveva sorpreso in Germania) fu subito contattato da Amilcare Fanfani, già allora un leader della DC, che gli chiese di collaborare con il suo partito ( che era alla ricerca di esperti in materia di politiche sociali. Loffredo gli espresse le sue preoccupazioni: il suo passato lo esponeva con assoluta certezza a un processo per collaborazionismo (aveva aderito oltretutto alla Repubblica Sociale) e aderire a un partito politico non gli sembrava una buona idea, almeno in quel momento. Fanfani lo tranquillizzò, gli disse che sarebbe stato sufficiente attendere qualche mese e che poi avrebbe potuto accasarsi nel partito dei cattolici. Non ho trovato tracce di processi per collaborazionismo nella storia di Loffredo, che comunque chiese a Fanfani di essere presentato a Gedda, allora presidente dell’Azione Cattolica, incontro fortunato perché Loffredo ne uscì con l’incarico di Presidente (o direttore) del “Fronte della Famiglia”, una delle molte associazioni collegate con la Democrazia Cristiana che aveva, tra i suoi compiti, quello di fare propaganda contro il divorzio. Tenne questo incarico per alcuni anni, durante i quali fu avvicinato da numerosi dirigenti democristiani che gli fecero ” tutta una serie di offerte di incarichi di responsabilità ( ben remunerati) in enti e in aziende del sottogoverno e del parastato”; poiché era sottintesa la sua adesione al partito, Loffredo le rifiutò tutte. Può essere interessante ricordare che uno dei suoi ultimi saggi in materia di sicurezza sociale (pubblicato nel 1958 su Previdenza sociale) riguardava scritti e documenti di PIO XII in materia di dottrina sociale della Chiesa, una dottrina che Loffredo dichiarava di apprezzare enormemente. Debbo anche dire che personalmente, nelle discussioni che ho avuto con interlocutori cattolici, mi sono reso conto che molti di loro non erano riusciti a liberarsi completamente della dottrina che avevano condiviso con il fascismo, della quale continuavano ad essere permeati e che camuffavano in modo maldestro e contro voglia.

Le donne magistrato

Ho già più volte accennato alle difficoltà che incontrano le donne che si propongono di ottenere , dalla società nella quale vivono, le stesse opportunità che vengono concesse agli uomini (difficoltà che l’esistenza di un Ministero per la pari opportunità conferma completamente, il Ministero non avrebbe ragione di esistere se le opportunità fossero le stesse per i due sessi). A titolo di esempio, prenderò in esame quello che è successo in Italia a proposito dell’ingresso delle donne nella Magistratura, una storia certamente degna di essere raccontata. Per farlo, assumo come riferimenti bibliografici gli scritti di Giuseppe Di Federico e Angela Negrini ( La Donna nella Magistratura Ordinaria. Polis, 2 agosto 1989); di Gabriella Luccioli (La presenza delle donne nella Magistratura italiana. www.donnemagistrato.it); L.Barzilai ( La donna magistrato. In: Rassegna dei magistrati, Giuffrè 1962); A.Candian ( Donne nei Collegi Giudiziari? Istituto Editoriale Cisalpino, 1956); B. Veca ( Primi cenni sula incostituzionalità della legge che ammette le donne nei pubblici uffici. Editoriali House Books Italian Divulgations, 1968); E.Ranelletti ( La “donna giudice” ovverosia la “Grazia” contro la “Giustizia”. Giuffrè, 1957).

E’ molto probabile che, per capire le ragioni che hanno tenuto lontano le donne dalla professione di magistrato sia necessario andare molto lontano nel tempo, fino a quando cioè Paolo di Tarso (I Timoteo, 2,8-15) scriveva la sua prima lettera a Timoteo e gli diceva: “Voglio dunque che in ogni luogo gli uomini preghino alzando al cielo mani pure, senza collera e senza polemiche. Allo stesso modo le donne, vestite decorosamente, si adornino con pudore e riservatezza, non con trecce e ornamenti d’oro, perle e vesti sontuose, ma come conviene a donne che adorano Dio, con opere buone La donna impari in silenzio, in piena sottomissione. Non permetto alla donna di insegnare né di dominare sull’uomo; rimanga piuttosto in atteggiamento tranquillo. Perché prima è stato formato Adamo, e poi Eva; e non Adamo fu ingannato ma chi si rese colpevole di trasgressione fu la donna che si lasciò sedurre. Ora lei sarà salvata partorendo figli, a condizione di perseverare nella fede, nella carità e nella santificazione, con saggezza”.

In realtà, Paolo non fa che ribadire quanto è scritto nella Genesi (3,16) : ” Alla donna disse: moltiplicherò i dolori del tuo parto e delle tue gravidanze; con dolore partorirai i tuoi figli e i tuoi desideri dipenderanno da tuo marito, ed egli dominerà su di te”. E se è vero che la concezione biblica ha formato il codice culturale dell’Occidente, si può capire come per secoli l’idea di essere giudicati da una donna provocasse negli uomini un forte senso di contrarietà. Ma vediamo come andarono le cose nel nostro Paese.

La legge 1176 del 1919 che ammetteva le donne all’esercizio delle professioni e degli impieghi pubblici le escludeva esplicitamente dall’esercizio della giurisdizione. L’articolo 8 dell’ordinamento giudiziario del 1941 definiva in questo modo i requisiti necessari per accedere alle funzioni giudiziarie: “essere cittadini italiani, di razza ariana, di sesso maschile e iscritti al PNF” fu oggetto di un ampio dibattito in seno alla Assemblea Costituente , dibattito del quale si trovano molte tracce nei documenti relativi alle riunioni della seconda sezione della seconda commissione della Commissione per la Costituzione, e in particolare in quelli che riguardano le sedute del 10 gennaio 1947. Era in discussione l’Articolo 20 del progetto Calamandrei, quello che riguardava i requisiti necessari per essere ammessi ai concorsi e che scriveva in modo esplicito che le donne non potevano essere discriminate per la sola appartenenza al genere femminile.

Credo che per capire quanto forti fossero le preoccupazioni e i timori che la figura di una donna-magistrato sollecitavano sia necessario leggere almeno alcuni degli interventi dei partecipanti alla discussione. Tra gli oppositori più energici alla norma suggerita da Calamandrei deve essere citato Giuseppe Cappi, democristiano, secondo il quale ” nella donna prevale il sentimento sul raziocinio, mentre nella funzione del giudice deve prevalere il raziocinio sul sentimento”, tanto che ” le donne avrebbero potuto essere utilizzate in determinati giudizi, senza la possibilità di accedere alla carriera giudiziaria e diventare magistrati”. A sostegno di questa opinione, l’onorevole Giuseppe Codacci Pisanelli ( anche lui esponente democratico cristiano) dichiarava che ” soprattutto per i motivi addotti dalla scuola di Jean-Martin Charcot ( il neurologo che diresse per 33 anni la Salpêtrière) riguardanti il complesso anatomo-fisiologico, la donna non può giudicare”. Contrario, ma in modo più cauto, anche l’onorevole Salvatore Mannironi, democristiano anche lui, favorevole “per principio “ai diritti delle donne, ma convinto, per l’esperienza acquisita nel campo dell’avvocatura, che le donne non avevano le attitudini necessarie per lavorare nella magistratura in quanto mancanti di quel potere di sintesi e di equilibrio indispensabili per sottrarsi all’influenza delle emozioni. Tra le altre voci contrarie la più articolata mi sembra quella di Giovanni Leone, il futuro presidente della repubblica, che affermò: “Si dichiara che la partecipazione illimitata delle donne alla funzione giurisdizionale non sia per ora da ammettersi. … Negli alti gradi della magistratura, dove bisogna arrivare alla rarefazione del tecnicismo, è da ritenere che solo gli uomini possano mantenere quell’equilibrio di preparazione che più corrisponde per tradizione a quelle funzioni”.

La decisione finale dei Padri Costituenti fu quella di non menzionare il problema della partecipazione femminile alle funzioni giurisdizionali e di stabilire invece gerarchicamente , all’articolo 51, che “tutti i cittadini dell’uno e dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge”. Solo con l’articolo 1 della legge costituzionale 30 maggio 2003 n.1 fu aggiunta una seconda parte a questo comma: “A tal fine la repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini”.

Prima che il comma dell’articolo 51 fosse completato, almeno secondo la prima interpretazione ufficiale, la Costituzione consentiva al legislatore ordinario di prevedere l’appartenenza al genere maschile tra i requisiti necessari per accedere ai concorsi per la magistratura, in deroga al principio di parità tra i sessi, il che naturalmente rinviò di molti anni l’ingresso delle donne nelle funzioni giudiziarie. In ogni caso la polemica sulle “pretese” delle donne non si placò mai completamente. Nell’agosto del 1948 l’avvocato Orfeo Cecchi, docente nella Università di Milano, scriveva, nel “Mondo Giudiziario”, queste parole: “Alla donna che si discosta dalle soavi funzioni dell’amore e della maternità abbiamo il sacrosanto dovere di dire tutta la verità senza stupidi riguardi e senza goffe e masochistiche ipocrisie. La donna è uno stadio intermedio tra il bambino e l’uomo , come si rileva anche dalla fisionomia, dalla mancanza di peli sul viso , dal tono della voce, dalla debolezza organica e dalla psicologia a base istintiva , sentimentale e spesso capricciosa. Ha soprattutto, quando è giovane, scarsissimi scrupoli e freni morali. Ha spiccatissime attitudini per l’intrigo, per la simulazione, per il mendacio e per lo spionaggio. E’ tremenda nell’odio e nella vendetta. Orbene è a un essere simile, dominato e sopraffatto dalla simpatia o antipatia sessuale, che si vogliono affidare anche le difficilissime e delicate funzioni di magistrato.”

La Legge 27 dicembre 1956 consentì una presenza minoritaria di donne in qualità di giurati nei Collegi giudicanti delle Corti d’assise con la precisazione che in ogni caso almeno tre giudici dovevano essere di sesso maschile. Un accorato appello contro l’ammissione delle donne alle funzioni giudiziarie comparve immediatamente in un libro di Eutimio Ranelletti ( La donna giudice, ovverosia la “Grazia” contro la “Giustizia”. Giuffrè, 1857) nel quale si poteva leggere, tra le numerose motivazioni che impongono di escludere le donne da una funzione che richiede intelligenza, serenità ed equilibrio, che la donna, al contrario, ” è fatua, è leggera, è superficiale, emotiva, passionale, impulsiva, testardetta anzichenò, approssimativa sempre, negata quasi sempre alla logica e quindi inadatta a valutare serenamente, obiettivamente, saggiamente, nella giusta portata, i delitti e i delinquenti”. Secondo Ranelletti, un Magistrato di grande prestigio, destinato a diventare Presidente della Corte di Cassazione, l’inferiorità delle donne nelle materie giuridiche era ben conosciuta dai professori universitari, in quanto “la studentessa di giurisprudenza ripete quasi sempre a memoria, incapace di penetrare l’essenza dell’istituto giuridici su cui è interrogata”. Insomma, questo era l’orientamento più diffuso in Italia, un orientamento che non si poteva considerare il frutto di isolate bizzarrie ma solo il risultato di un solido e radicato pregiudizio. Era lo stesso pregiudizio che aveva fatto scrivere a Bruno Villabruna, deputato del Partito Liberale e Padre Costituente, che ” le donne hanno un modo di vedere, di sentire, di ragionare che molto spesso non si concilia con quello degli uomini. E allora, il giorno che avrete affidato la Giustizia ad un corpo giudiziario misto, cosa avrete ottenuto? Avrete portato nel sacro tempio della Giustizia un elemento di più di confusione, di dissonanza, di contrasto”.

La legittimità costituzionale della legge 1441/1956 fu riconosciuta dalla Consulta con la sentenza 56 del 1958 nella quale si affermava che la legge era nel giusto in quanto aveva tenuto conto – nell’interesse dei pubblici servizi – delle differenti attitudini proprie degli appartenenti a ciascun sesso e che questo sarebbe stato sindacabile solo nel caso che ne fosse risultato un danno al canone fondamentale dell’eguaglianza giuridica. Nel 1960 la Corte Costituzionale, con la pronuncia n 33, dichiarò parzialmente illegittimo l’articolo 7 della legge 1176 / 1919, nella parte nella quale stabiliva l’esclusione delle donne da tutti gli uffici pubblici che implicavano l’esercizio di diritti politici; il 9 febbraio del 1963 il Parlamento approvò la legge n 66 con la quale le donne erano ammesse ad accedere a tutte le cariche, professioni e impegni pubblici, magistratura inclusa. Dall’entrata in vigore della Costituzione erano passati più di 15 anni e si erano svolti sedici concorsi per uditore giudiziario ( per un totale di 3127 vincitori) dai quali erano state illecitamente escluse le donne. Il primo concorso aperto alla partecipazione femminile fu bandito il 3 maggio 1963: 8 donne risultarono vincitrici e tutte entrarono in ruolo il 5 aprile del 1965.

Questa è solo parte della storia che le brave persone che hanno avallato il documento del Ministro Lorenzin avrebbero dovuto conoscere prima di firmare . Adesso, compiuto il mio dovere, mi metto alla finestra, voglio vedere di che pasta sono fatte le donne italiane. Per chiarezza, scommetto su di loro.

CONCLUSIONI

Le occasioni per stabilire che un nuovo paradigma è stato scelto, che cioè la società ha accettato un nuovo modello di comportamento e una modificazione di grande rilievo nelle scelte di vita, non sono sempre segnate da eventi storici rilevanti o da episodi in grado di lasciare un chiaro segno nella memoria di tutti. Non è così per il tema che ho trattato, un tema che riguarda la sterilità, la genitorialità, la famiglia, un paradigma che in un Paese come il nostro, che ha sempre dovuto patire le interferenze del cattolicesimo nella vita pubblica e privata dei cittadini, ha molto stentato ad affermarsi. L’occasione per emergere il nuovo paradigma l’ha avuta – e questo sembra proprio uno scherzo del destino – a seguito di un esagerato impeto di ribellione del mondo cattolico che ha reagito alla proposta di applicare una nuova e per alcuni rispetti sconvolgente tecnica riproduttiva, come l’Inquisizione reagiva all’alito di Satana dei riformisti, costruendo roghi. Posso dunque immaginare che la legge 40 del 2004 sia stata l’ultimo rogo della moderna Inquisizione, un rogo costruito (piuttosto maldestramente) allo scopo di liberarsi per sempre della modernità e delle sue diavolerie. In realtà si è trattato di autocombustione di una legge stupida e maldestra, altri fuochi non ne sono stati accesi e comunque se dovesse mai accadere, se si presentasse alle soglie della nostra società qualche nuovo incendiario, ci penserebbero il buonsenso e il desiderio di libertà e di laicità dei cittadini a mortificarne le velleità, magari rivolgendosi molto semplicemente alla Magistratura, corpo ormai presidiato saldamente dalle donne. Quello che sta accadendo oggi, incluso il Fertility Day della signora ministro Lorenzin, è un infelice connubio tra la malacopia del clerico-fascismo del famigerato ventennio e le convulsioni terminali degli sconfitti, reazioni isteriche, generalmente di breve durata. Niente di cui preoccuparsi, mettiamoci tutti a sedere e aspettiamo, non meritano attenzione.

Maggiore attenzione dovremmo invece porre, tutti noi, alle profonde modificazioni alle quali sta andando incontro la società: negli ultimi decenni abbiamo assistito a profondi cambiamenti del concetto di salute degli esseri umani, mutamenti che hanno profondamente cambiato il significato e gli scopi della medicina; contemporaneamente si è fatta strada l’idea che queste nuove definizioni dovessero adattarsi alle differenze di genere fino a diventare specifiche per i due sessi. Nel campo del progresso delle conoscenze si è poi affermata la necessità che ogni investimento, ogni proposta di studio e di investigazione dovessero ottenere un consenso sociale informato, con le inevitabili ricadute sulla promozione di cultura proprie di tutti i consensi informati, sulle modalità di preparazione dei nuovi protocolli di ricerca scientifica e sui criteri etici che li debbono regolare, secondo il principio che vuole che la regola morale derivi direttamente dal sentire comune e non dalle dottrine.

In modo più specifico si è sviluppato il conflitto di paradigmi che ho cercato di descrivere in questo testo, un conflitto che riguarda soprattutto la vita riproduttiva e il rapporto della società con le unità di convivenza sociale e affettiva. Del primo sono responsabili le straordinarie trasformazioni consentite dal progresso delle conoscenze e che riguardano la riproduzione e la genetica; il secondo ha invece a che fare con la moltiplicazione delle famiglie, legittimata in quasi tutti i Paesi Europei dalle rispettive legislazioni.

Non c’è mai stata, in passato, una richiesta di mutamento altrettanto straordinaria quale quella che i cittadini chiedono alle scienze biologiche e mediche. La definizione di malattia più comunemente accettata oggi non ha più niente a che fare con il concetto di “assenza di malattia” ma si basa piuttosto sull’esistenza di un equilibrato benessere fisico psicologico e sociale rispettoso della dignità, della autonomia e dei diritti delle persone. Viene contemporaneamente richiesta una attenzione particolare al concetto moderno di dignità, interpretata come una sorta di cenestesi dello spirito capace di garantire qualità all’esistenza solo se incentrata sul rispetto dell’autonomia, basato a sua volta sull’aiuto della società a realizzare le proprie speranze e le proprie inclinazioni. E’ in effetti convincimento comune il fatto che nell’animo femminile non esistano istinti naturali e specifici che indirizzino tutte le donne verso la maternità, ma solo sentimenti, come tali variegati e incostanti, più o meno virtuosi, più o meno pressanti, in ogni caso incapaci di contribuire a crescere o diminuire prestigio e dignità. Ho già ricordato che Elisabeth Badinter scriveva a questo proposito che nell’animo femminile esistono molte più virtù, molti più destini e molte più speranze di quanto gli uomini possano immaginare e capire. Mortificare queste virtù, questi destini e queste speranze con l’ipotesi del “fertility day”, è un insulto alle donne italiane.

Appendice

Come cambia il significato delle parole.

DA ORIONE ALL’UTERO ARTIFICIALE, STORIA DI COME SI DIVENTA GENITORI

L’ORIGINE DELLA FAMIGLIA

La nostra specie è dotata di capacità cognitive particolari che fanno di noi qualcosa di diverso da tutti gli altri organismi viventi. Per questo, concepire un figlio trascende l’ordine biologico per accedere all’ordine del senso, quello al quale ci riferiamo in quanto esseri umani, il che peraltro comporta una serie di conseguenze che non possiamo ignorare.

La prima è che affibbiarci un istinto di genitorialità diminuisce la nostra natura di uomini.

La seconda è che non esistono altri genitori al di fuori di quelli culturalmente definiti, cioè quelli che una certa cultura in un certo tempo attribuisce a un certo bambino; dobbiamo anche ammettere che molte cose relative al modo in cui si è venuto progressivamente strutturando il modello di famiglia ( ma forse sarebbe meglio parlare al plurale, cioè di famiglie) e si è precisato il nostro rapporto con la genitorialità ci sono in gran parte sconosciute: possiamo avere intuizioni, citare esempi, ma non riusciamo a definire tempi e modalità dei cambiamenti. Come dice un noto sociologo, possiamo solo affermare, guardando al passato, che il modello più detestabile era quello che considerava la gravidanza come una punizione divina e il più auspicabile, guardando al futuro, potrebbe essere quello in cui gli adulti saranno anche i genitori dei bambini, tutti gli adulti genitori di tutti i bambini. Dobbiamo ricordare che ragionare a proposito dei problemi relativi alla genitorialità, significa anche esaminare le ragioni che hanno consentito la nascita della famiglia e ne hanno determinato i mutamenti nel tempo: compito pressoché impossibile.

La paleo – antropologia ipotizza che la nascita della famiglia nucleare sia la conseguenza di una riduzione della taglia degli animali (che potevano essere cacciati da un piccolo numero di persone), ma non sa in effetti come considerare i nuclei sociali di dimensioni analoghe che si formavano anche all’interno delle grandi caverne o dovunque le prime comunità di uomini decidessero di vivere insieme. Enormi periodo di tempo, vuoti di conoscenza incredibili.

La più antica testimonianza di una famiglia umana è la famiglia di Enlau in Sassonia, una tomba datata 4600 anni che contiene i resti di un uomo, di una donna e di due bambini morti di morte violenta. Ma quell’epoca i Sumeri avevano già una civiltà che consentiva loro di elaborare miti di straordinaria complessità e fantasia e, tanto per dirne una, i loro dei erano tutti sposati, anche se poi erano altrettanto spesso infedeli al loro coniuge. Recentemente Margherita Mussi, che lavora nel Dipartimento di studi sul mondo antico della Università della sapienza di Roma, ha scoperto, in Etiopia, a Melka Kunture, un gruppo di bambini che 700.000 anni or sono avevano accompagnato degli adulti in una caccia e si muovevano intorno ai genitori, impegnati a macellare la carcassa di un ippopotamo. Si trattava di ominidi (homo heidelbergensis, antenato nostro e dell’uomo di Neanderthal, vissuto tra 700.000 e 100.000 anni sono ): esisteva dunque una parvenza di famiglia anche in epoche tanto lontane ma come poi si arrivi alla famiglia descritta da Aristotele come il nucleo fondamentale della società e il suo primo mattone costitutivo non lo sappiamo, come non sappiamo in che modo si definiscano al suo interno, ruoli, poteri, compiti, privilegi, priorità.

È possibile, forse addirittura probabile, che sia esistita, in molte parti del mondo e certamente nelle parti bagnate dal Mediterraneo, una fase di matriarcato, i cui caratteri sono difficili da definire: lo dice l’esistenza in molte culture del ricordo di una Grande madre, analoga alla Potnia della civiltà cretese: come poi il potere di Po-ti-ni-ja sia stato frammentato, indebolito e sostituito da un potere maschile, con caratteri del tutto diversi (che sono poi quelli del patriarcato ) è molto complesso e può essere considerato il regno delle ipotesi. Con il patriarcato sono giunte e sono diventate dominanti alcune caratteristiche di comportamento sociale che assegnavano significati valore diverso ai due generi, il maschile e femminile. Nel periodo in cui le tribù si ammucchiavano nei rifugi rappresentati dalle case comuni, in genere le caverne, si delineò il problema della discendenza, problema che nasceva probabilmente dal desiderio dei maschi di avere certezze circa la loro paternità. In queste circostanze, che la società fosse patrilineare o matrilineari dipendeva soprattutto dal quoziente di mortalità dei maschi adulti che in media era simile a quello delle grandi scimmie e talora arrivava al 30% per anno. In queste circostanze poteva accadere che fosse necessaria l’esposizione di un maggior numero di femmine fuori dall’ingresso delle caverne, come pasto per gli animali feroci, ponendo così le basi per una carenza relativa di femmine: ne conseguiva di necessità il fatto che la stessa donna aveva rapporti sessuali con più maschi, così che la matrilinearità diventava impossibile. Ciò non incideva sulla attribuzione del potere che restava affidata al sesso maschile. Naturalmente questo poteva accadere solo nelle società che riconoscevano nel rapporto sessuale la causa della nascita di un figlio, cosa che era distribuita in modo molto irregolare. C’erano società che ritenevano che i figli fossero in realtà da attribuire al vento del cosmo, allo spirito degli antenati, agli dei, ed esistevano in proposito molti miti che toglievano valore qualche volta alla maternità e qualche volta alla paternità. Mi vengono in mente le storie di bambini trasparenti che secondo la leggenda abitavano dentro il corpo delle donne australiane e mi viene in mente Orione, concepito da quattro divinità che eiacularono hanno tutte insieme in un sacco formato di pelle bovina riempito di sterco. Contemporaneamente la mitologia dava per scontata l’importanza del seme, pensate al mito di Zarathustra o a quello di Enki nei quali appare chiaramente come popolazioni vissute molti secoli prima di Cristo già attribuissero all’eiaculato la responsabilità delle gravidanze e della nascita di un bambino. Ci sono comunque molte cose di quei tempi lontani di cui sappiamo pochissimo. Pensate alla scomparsa dell’estro nella femmina dell’uomo dell’homo sapiens: è possibile che inizialmente anche le nostre progenitrici potessero approfittare della diapausa per far nascere i loro figli in tempi favorevoli alla sopravvivenza, la diapausa ( quello occasionale ) è stata osservata anche nella fecondazione assistita.

La prima ipotesi razionale sul ruolo della donna nella procreazione la si deve perciò ad Aristotele, ed è una teoria, l’ilomorfismo, che, più volte rielaborata, fu privilegiata per secoli: ricorderete tutti di le Eumenidi e la difesa che Apollo fa di Oreste: la donna non è madre, è semplicemente il terreno fertile che accoglie e difende il germe dell’uomo, perché un dio non lo colga. L’uomo, si, lui è padre, perché d’impeto coglie.

Ma questo non fa più parte del mito e della leggenda, questa ormai è storia.

I MOLTI SIGNIFICATI DELLA GENITORIALITÀ

Gli antropologi e i sociologi si trovano prevalentemente d’accordo nel dire che il nostro modello tradizionale di genitorialità (che è, tra l’altro, da tempo in crisi per ragioni culturali) non è certo l’unico possibile, come numerose ricerche empiriche hanno da tempo confermato. Nelle varie società umane sono rintracciabili modelli differenti di iscrizione sociale del dato biologico, modi diversi di pensare a come si può essere padre e madre ed è possibile immaginare che su questo tema sia attualmente in atto uno scontro di paradigmi, con le conseguenze che sono abituali in queste circostanze: la protesta di chi è fedele al vecchio, le pressioni di chi sostiene il nuovo, i molti (quasi sempre inutili) tentativi di mediazione. A guardar bene, in effetti, l’unica cosa che la maggioranza delle culture in quasi tutte le epoche hanno dimostrato di prediligere è l’organizzazione di una struttura famigliare basata sul patriarcato: che siano esistite società matriarcali è possibile, ma non dimostrato e alcune delle supposte prove di una tale esistenza si riferiscono in effetti a società matrilineari nelle quali le donne erano relegate a gestire ruoli del tutto secondari.

Antropologi e sociologi affermano, in sostanza, che l’istituto naturale della maternità e della paternità è discutibile, tanto da mettere in dubbio persino l’esistenza di un vero istinto genitoriale, espresso in termini puramente biologici e riteniamo piuttosto che esso rappresenti semmai un mito che l’occidente ha enfatizzato. Questo mito si incentra su una determinata visione dell’uomo e pretende di definire, in base ad essa, la nostra identità. In realtà, immaginare di poter derivare, da eventi biologici, definizioni che hanno carattere esclusivamente simbolico si è rivelato, come è noto, del tutto errato.

Se è vero che il concetto di genitorialità è prevalentemente simbolico, bisogna accettare l’idea che i genitori di un bambino siano quelli che la società indica. Per molti secoli, ad esempio, è prevalsa l’idea aristotelica secondo la quale la madre era solo ‘il fertile terreno’ nel quale l’uomo piantava il suo seme, il germe del maschio che lei era tenuta a custodire ‘perché un dio non lo colga’, per usare le parole di Eschilo. E tutta la difesa che Apollo fa di Oreste nelle Eumenidi è ispirata a questa sprezzante valutazione del ruolo materno (‘lui, sì, è padre, che d’impeto prende’) che addirittura cancella il matricidio dall’elenco dei crimini.

1- I bizzarri percorsi biologici dei miti

Se non fosse per l’esistenza di un certo numero di divinità sessualmente molto indaffarate, sino talora a configurare vere e proprie forme di patologia, e che hanno riempito la terra della loro progenie, utilizzando magari i più assurdi travestimenti, ma poi ricorrendo agli strumenti naturali della riproduzione, se non fosse per loro, ripetiamo, nella mitologia la normale utilizzazione del sesso per fare figli sarebbe quasi completamente ignorata. Gli dei, gli eroi e le figure fondamentali dei miti, si riproducono nei modi più bizzarri, qualche volta senza altro apparente scopo se non il bisogno di distinguersi dai comuni mortali, qualche volta per esprimere concetti simbolici, che poi la gente comune tendeva a fraintendere o a ignorare. Insomma, si faceva strada l’idea che il sesso e la riproduzione, così come gli uomini li hanno sempre intesi e sperimentati, erano fondamentalmente banali e volgari, tanto che “coloro che contano” ne immaginavano e ne praticavano altri, di ben diversa qualità. Anche da queste storie esce una figura di donna diminuita e rattrappita, causa prima del legame dell’uomo con una vita miserabile e priva di interesse e di valore, nella quale resta intrappolato, schiavo di bisogni e di piaceri che egli stesso disprezza . Proviamo a spiegare meglio questa asserzione con qualche esempio.

L’antica religione di Brahma non è contagiata dall’antropomorfismo che è costantemente presente nel politeismo greco, così che le allegorie che la riguardano non hanno quella costante connotazione di “umanità” che è sempre presente nei miti ellenici. Prendiamo ad esempio l’allegoria del mondo, creato da un coito senza confini tra “nahaman” e “lingam”, una sorta di organi sessuali femminili e maschili cosmici, interpretato dalla gente comune come il congresso carnale che genera il mondo e dagli spiriti eletti (che nel caso specifico corrispondono agli intellettuali) come la fusione simbolica dei principi di Brahma, la potenza creativa, divisa nelle due parti, quella maschile e quella femminile, che riunisce in una sola figura la doppia qualità di padre e di madre. I poeti rappresentano queste due figure umane come due splendide divinità, il dio Nara e la dea Nari. Il ligam e il nahaman producono un uovo che ha lo stesso aspetto dell’oro e come l’oro luccica, e da quest’uovo nasce Brahma, la prima persona della trimurti indiana, che si rivela per la prima volta sotto forma di un dio che è uomo da un lato e femmina dall’altro.

Il mito ha aggiunto dettagli a questa storia. Brahma nasce con quattro teste, ma tutto il suo corpo è grembo di figli. Dal suo volto nasce suo figlio Brahman, a sua volta padre dei preti e dei sapienti; dalle sue spalle nasce Kchtatria, i cui figli saranno i guerrieri; dalle cosce, Vaicia, generatore dei mercanti; dai piedi Sondra, padre degli artigiani. E poi Anghira dal suo naso e undici semidei, i Rondras, dalla sua fronte.

Ma la cosmogonia indiana è complessa e si basa su una mitologia piuttosto confusa. Visnù sarebbe nato, secondo un racconto, da un uovo deposto da sua madre Diti 500 anni prima; secondo un’ altra leggenda, sarebbe invece comparso (un po’ misteriosamente) trasportato sulle acque insieme alla moglie Lakmi: dal suo ombelico spuntò una pianta di loto che subito fiorì, e nel calice di questo fiore nacque Brahma. Ma altre storie fanno nascere Brahma, Shiva e Visnù insieme, da tre uova covate insieme da Bravani.

Altre storie ancora. La madre di Visnù, Devagi, concepì un altro figlio, Balarama, che fu trasferito dal suo ventre a quello di una sua ancella, Rogani, una storia molto simile a quella del Mahavira, che ebbe anche lui due madri e che subì lo stesso trasferimento per poter nascere da una regina. E poi c’è la storia di Andiani, la bellissima Andiani, che partorì da un orecchio la scimmia miracolosa Hanouman, e infinite altre leggende di concepimenti e di nascite bizzarre.

Anche il buddismo, nato nel VII secolo avanti Cristo come una semplice raccolta di insegnamenti e di regole morali, si appesantì nel tempo di numerose fantasie, molte delle quali riguardano la nascita di Budda. Tra le storie più raccontate c’è quella che vuole Budda nato da una vergine, che l’avrebbe concepito in particolarissime circostanze che comunque non hanno niente a che fare con un rapporto sessuale. Ma questa idea di dei, semidei, eroi o anche più semplicemente fondatori di religioni è cosa frequente, tanto da essere stata inserita da Lord Raglan ( ricordate la Carica dei seicento?) al primo posto della sua scala che comprende 22 punti che sembrano comuni a questi particolari super-uomini. Lord Raglan inserì questa scala nel suo libro “The Hero” e poi fece un elenco di coloro che avevano il più alto punteggio, da Edipo a Ercole, da Mosè a Gesù Cristo. La scala, indicata con punteggi decrescenti, era la seguente:

1- La madre dell’eroe è una vergine

2- Il padre è un re e spesso è

3- Un parente stretto della madre, ma

4- Le circostanze del concepimento sono inusuali e

5- Lo si considera quasi sempre figlio di un Dio.

6- Alla nascita qualcuno cerca di ucciderlo. Ma

7- Egli viene miracolosamente salvato e

8- Viene allevato dai genitori adottivi in un paese lontano.

9- Non sappiamo niente della sua infanzia, ma

10- Quando diventa adulto torna nel regno che deve conquistare.

11- Dopo aver sconfitto il re di questo regno (che può essere anche un drago o un gigante)

12- Sposa una principessa e

13- Diviene re.

14- Per un po’ regna serenamente e

15- Impone leggi sagge e giuste, ma

16- Nel tempo perde il favore degli dei (o del suo popolo) e

17- Va incontro a una morte violenta o misteriosa

18- Spesso sulla cima di un colle o di un monte.

19- I suoi figli non gli succedono.

20- Il suo corpo non viene sepolto, ma malgrado ciò

21- Egli ha uno o più sacri sepolcri.

La classifica stilata secondo questi criteri vede in testa Edipo, seguito da Teseo, Mosè, Bacco, Gesù, Romolo, Perseo, fino a Zaratustra e ad Alessandro in Grande

Stramberia per stramberia, anche il Lamaismo – il buddismo tibetano – ha i suoi concepimenti strani: Tsédent, padre di Gné-tsedent, mise al mondo suo figlio partorendolo da una tumescenza che gli era comparsa su una spalla, e a sua volta, Gné-tsedent mise alla luce uno dei suoi figli facendolo uscire da una delle sue anche. E nello Snaiter, il libro sacro della casta dei mercanti, è descritta la storia di come un diluvio distrusse il primo mondo con tutti i suoi abitanti, e come ad un sol uomo fu dato l’incarico di ripopolarlo: costui provò violenti dolori, poi il suo corpo si gonfiò tutto e infine si aprì, lasciando uscire dai suoi lati due gemelli, maschio e femmina, che nacquero con corpi di adulti e subito si misero all’opera (finalmente!). E Zaratustra – a parte di essere, per quanto si sa, l’unico bambino nato ridendo, e a parte il fatto d’essere nato il 25 dicembre – fu profeta di un dio, Mitra, che nacque da una vergine e fu chiamato il buon pastore, ebbe 12 compagni, fece molti miracoli e risorse tre giorni dopo la morte. E poi c’è l’interminabile storia di Ahriman (o Arimanius, o Angra Mainya), la prima personificazione del diavolo nella religione di Zaratustra. Non ve la racconteremo: ci limitiamo a ricordare che Abudad, il toro primigenio creato da Ormuzd, fu ucciso proprio da Ahriman, che aveva preso la forma del serpente. Dal fianco sinistro del toro morente, uscì l’uomo primigenio, Kaioomortz, mentre dal resto del corpo furono generate le piante. Anche qui, di madri eventuali non c’è traccia.

Con la nascita di Lao-Tze (intorno al 600 a.C.) ritorniamo, se non altro, a un’impresa della quale è protagonista una donna. Una vergine – ancora una – fu resa madre da una bolla che conteneva l’essenza del sole e la sua gravidanza durò 81 anni; dopo una così lunga attesa, dal suo fianco destro nacque un bambino con la testa bianca che scelse di chiamarsi col nome dell’albero sotto al quale era avvenuta la sua nascita (in realtà Lao-Tze o Lao-Tzu significa “il giovane vecchio”). In Giappone, secondo la leggenda scintoista, Bunsio affidò alle acque del fiume Rio-Sa-Gava cinquecento uova che ella stessa aveva prodotto: le uova furono raccolte da un pescatore, che le mise in un forno fino a che si schiusero e lasciarono uscire 500 bambini.

Nei miti egizi, numerosi e pieni di fantasia, c’è la storia straordinaria di Osiride, fratello gemello e sposo di Iside, che si unisce a lei e la ingravida quando sono ancora nel ventre della loro madre, cosa fisiologicamente impossibile, ma almeno naturale. Poi i miti si confondono, tanto che alcune divinità greche, dopo aver preso dimora a Roma, finiscono con l’attraversare il mediterraneo per mescolarsi con i miti egiziani. È il caso di Rea e di Cronos, che in Egitto diventano Rea e il Sole. Rea, sposa di poca virtù, andò a letto con Cronos e rimase gravida. Il Sole, quando se ne avvide, la maledì: non avrebbe potuto partorire in nessuno dei dodici mesi dell’anno, una maledizione “gravida” di conseguenze sgradevoli. Ma Rea, donna bella oltre che leggera, piaceva molto a Mercurio, che le fece profferte amorose che la donna, incorreggibile, accettò. Mercurio, informato della maledizione, trovò modo di rimediare. Giocò a dadi con la luna, vinse e vinse e vinse, finché la luna, non avendo più posta da giocare, accettò di scommettere la settantaduesima parte di ogni giorno dell’anno. Perse anche questa, e Mercurio si trovò a possedere cinque giorni complementari che regalò a Rea, la quale li utilizzò per partorire i suoi cinque figli, Iride, Osiride, Horus, Neftè e Tifone.

Torniamo alle procreazioni impossibili con Astarte, la più importante delle divinità fenice: era nata da un uovo caduto dal cielo nel mare, un uovo che i pesci portarono fino alla spiaggia più vicina dove alcune colombe lo covarono fino alla sua schiusura. È il mito ripreso dai greci per raccontare la nascita di Afrodite “figlia dell’onda amara” (e il perché di questa amarezza bisogna chiederlo a Esiodo).

Certo che i primi Dei ellenici avevano un concetto molto singolare della famiglia. Urano, racconta Esiodo nella sua Teogonía, era figlio di Gea, la Terra, che lo aveva concepito senza che vi fosse, nell’Universo, un principio maschile. Urano, fertile fino dalla nascita, andava a trovare ogni notte la madre e la fecondava con metodi assolutamente naturali: così da lei ebbe una lunga serie di figli ( tra i quali i Ciclopi e gli ecatonchiri) che odiava e che incatenava in una nascosta e profonda cavità della terra. Di tali, malvage azioni, dice Esiodo, Urano gioiva. Gea, che aveva anche dato alla luce – si fa per dire – Ceo, Crio, Giafeto, Iperione, Rea, Teti e altri ancora, chiese al più giovane dei suoi figli, Cronos, di mettere fine alle cattive azioni di Urano. Gea gli diede una falce affilatissima, con la quale Cronos recise i genitali di Urano, e li gettò in mare (e nel mare essi fecondarono la schiuma delle onde, e così nacque Afrodite). Dall’ultimo sangue di Urano che aveva bagnato la terra nacquero anche i Giganti e le Erinni. Cominciò l’era di Cronos (Saturno per i romani), il tempo che inghiotte e divora ogni cosa. A Cronos era stato annunciato che sarebbe stato detronizzato da uno dei suoi figli, e così tutti quelli che sua sorella Rea concepì per lui, Cronos li mangiò (i loro nomi – Plutone, Poseidone, Era, Demetra, Ezia – ci sono tutti famigliari. Ma Rea partorì Giove in un luogo nascosto (a Creta o, forse, in Arcadia) e lo nascose in una grotta e costui, appena fu in condizione di farlo, costrinse il padre a vomitare i figli che aveva trangugiato e insieme a loro mosse guerra agli zii, i Titani. Liberò così tutti quelli che erano stati prigionieri nel Tartaro, e nello stesso Tartaro incatenò Cronos e i Titani; dopo qualche tempo si rappacificò co Cronos (il sangue non è acqua) e gli concesse di vivere nell’isola dei Beati.

Giove era un dio sbarazzino ( un po’ come Enki, una delle principali divinità sumeriche) ebbe molte amanti ma tenne sempre d’occhio la legalità, così che ne sposò un certo numero. La sua prima moglie fu Meti, la mente, e divenne così padre di Atena; poi sposò Demetra, dalla quale ebbe Persefone e ancora si maritò con Mnemosine, la memoria, che gli generò le nove muse; le ultime due mogli furono Leto, madre di Apollo e di Artemide, e Era. La vita coniugale può essere complicata anche per le divinità, e quella di Giove ne è una prova. Quando era ancora alle prime nozze, un oracolo gli aveva predetto che essa avrebbe avuto un figlio destinato a diventare sovrano dell’Universo. Giove non ne fu per niente soddisfatto, tanto che – seguendo le tradizioni di famiglia – si fece della povera Meti un sol boccone senza tener conto del fatto che Meti era gravida e che nel boccone era compresa anche la loro figlia, Minerva, un feto che continuò a svilupparsi nel corpo di Giove ma che, completato lo sviluppo, ebbe qualche difficoltà per trovare il modo di uscire all’aperto, aperture naturali delle quali servirsi non ce ne erano. Giove cominciò a patire di vari disturbi e probabilmente ritenne inizialmente che si trattasse di cattiva digestione, cosa che trattandosi di una moglie era verisimile: poi, improvvisamente si trovò alle prese con una terribile cefalea un dolore pulsante che gli dava la sensazione che qualcuno volesse uscire dal suo cranio. Affidò le cure del suo mal di testa al figlio Efesto, ottimo fabbro, medico improvvisato. Molti poeti greci e latini hanno raccontato questo episodio, anche se ci sembra che il racconto più divertente sia quello di Luciano (è l’ottavo “Dialogo degli Dei”). Per farla breve, Efesto gli aprì il cranio con un’ascia affilata, e sotto “alla membrana del cervello” c’era Atena, vestita di tutto punto, che sbraitava e agitava la sua lancia (Ovidio, I Fasti, Libro 3, 840-845: “si dice che, priva di madre, balzasse fuori da un bernoccolo della testa paterna già con lo scudo in mano”). Quello praticato da Efesto fu in effetti un taglio cesareo molto particolare, ma non l’unico della mitologia: quando Perseo tagliò la testa della Medusa, dal di lei fianco mutilato uscirono Pegaso, il cavallo alato, e Crisaor, il padre di Gerione.

È bene sapere che più tardi, Era, forse per puro spirito di emulazione, decise di fare anche lei un figlio senza il contributo del marito, e così poté nascere Marte. Sentite ancora Ovidio (Fasti, V, 229-256):

Persino Marte, se lo ignori, fu generato per opera mia:

ma prego che Giove non lo sappia, come non lo seppe finora.

La sacra Giunone, essendo nata Minerva priva di madre,

si dolse che Giove non avesse avuto bisogno di lei.

E andava per lamentarsi con Oceano dell’azione dello sposo;

affaticata dal cammino si fermò sotto la nostra soglia.

Appena la vidi, dissi: “O Saturnia, che cosa ti ha spinta fin qui?

Essa mi espone verso qual luogo si dirige,

e aggiunse il motivo. Io cercavo di consolarla con parole amiche.

“Il mio affanno” dice, “non si può consolare con parole.

Se Giove è diventato padre senza congiungersi con la sposa,

e da solo si è appropriato del nome dell’uno e dell’altra,

perché io devo disperare di essere madre senza marito,

e di partorire restando casta, senza virile contatto?

Proverò tutte le misure esistenti sulla vasta terra,

a costo di esplorare fin i mari e gli abissi del Tartaro.”

Ero sul punto di parlare; ma avevo il volto di chi esita.

Mi disse: “Non so cosa, o ninfa, ma mi sembra che tu possa qualcosa.”

Tre volte volli prometterle aiuto, ma tre volte la lingua si arrestò:

l’ira di Giove era la grande ragione del mio timore.

Disse: “Aiutami, ti prego: il soccorritore rimarrà segreto,

e mi sarà testimone il dio della palude stigia”.

“Ciò che chiedi” risposi, “lo darà un fiore che mi giunge

dai campi olenii; esso è unico nei miei giardini;

chi me lo ha dato disse: “Se tocchi con esso una giovenca sterile,

diverrà madre”: la toccai e senza indugio diventò madre.”

Subito con il pollice colsi il fiore ben radicato; con esso

tocco Giunone, ed ella nel grembo toccato concepisce.

A dire il vero, questa versione della nascita di Marte si trova solo in Ovidio, che probabilmente è debitore di Esiodo (la nascita di Efesto-Vulcano, Teogonia, 927). La conseguenza di questa storia non è di poco conto: priva Giove della paternità di Marte e lo esclude dalla linea genealogica che avrebbe portato a Romolo. Ma passiamo ad altro.

Bacco era figlio di Giove e di Semele, ma la sua povera e ingenua madre, su istigazione di Era gelosa, aveva voluto vedere il vero volto di Giove – cosa consentita solo agli Dei – ed era stata incenerita dal suo fulgore. Giove le aveva tolto il figlio dal grembo e lo aveva cucito all’interno di una coscia, dalla quale lo tolse solo quando la gestazione fu completata. Issione, che oltretutto aveva ottenuto il perdono degli Dei per aver ucciso il padre della sua promessa sposa, invitato a un banchetto da Giove, cercò di insidiare la sposa del suo ospite, Era. Giove lo seppe e modellò una nuvola perché prendesse la forma di Era, e con questa nuvola Issione giacque. Da questo amplesso (molto utilizzato dagli autori di satire, che dopo questa particolare esperienza con Nefele -la nuvola- Issione si fosse innamorato di un banco di nebbia) furono generati i centauri. Issione fu punito terribilmente: legato mani e piedi a una ruota infuocata, fu costretto a rotolare senza sosta nel cielo.

Di concepimenti miracolosi nella mitologia greco-romana ce ne sono moltissimi, vi basti pensare a quelli ai quali costrinse innocenti fanciulle Giove, tramutato in qualche strambo animale ( concepimenti ai quali soltanto spetta il diritto di essere definiti eterologhi, cioè tra specie diverse). Il rapporto amoroso tra Leda e Giove è stato cantato da molti poeti che hanno attinto da miti diversi. Secondo la versione più diffusa, si sarebbe trattato di un caso di superfetazione, perché i due gemelli, Castore e Polluce, sarebbero stati concepiti, a breve intervallo di tempo, dal legittimo sposo di Leda, Tindaro, e dal di lei amante, Giove. Naturalmente per poter gioire delle attenzioni del suo divino amante, che si è trasformato in un cigno Leda si trasforma in oca, e dopo nove mesi partorisce un uovo che quando si schiude consente ai due famosi gemelli di vedere la luce. Leda, o l’unico mammifero oviparo di cui siamo a conoscenza.

Non solo dagli uccelli sono nati esseri umani, ma anche dalle piante. È il mito di Mirra, un po’ diverso da quello raccontato nella tragedia di Vittorio Alfieri. La storia è trasformata in straordinaria materia poetica da Ovidio nelle Metamorfosi e abbiamo la fortuna di poterle leggere nella splendida traduzione di Italo Calvino. Mirra si innamora del padre, Cinira, re di Cipro, ed è un amore lungo, incestuoso. “Scelus est odisse parentem: hic amor est odio maius scelus”. Questo amore che la fa impazzire e la conduce quasi al suicidio impietosisce la sua nutrice che si piega a favorirlo : « Vive, ait haec, potiere tuo… et non ausa “parente” dicere ». (Vivi, avrai tuo… e non osa dire “padre”). Così, per la festa di Cerere, quando per nove notti le mogli disertano il letto coniugale, la nutrice racconta di questo disperato amore a Cinira, solo celandogli il nome della fanciulla. E gliela mette nel letto, esitante ma incapace di sottrarsi al suo destino. “Accipe, dixit, ista tua est, Cinyra. Devotaque corpora iunxit”. Rapidi, tragici, terribili versi.

Ma dopo molte notti di rapporti incestuosi ( e nulla manca alla costruzione dell’abominio, nemmeno i nomi, perché lui la chiama figlia e lei geme ” padre” in risposta) Cinira vuol vedere il volto della sua amante e accende una luce. La riconosce e, colmo di sdegno e di paura vuole ucciderla, ma Mirra riesce a fuggire, anche lei quasi folle di dolore: suo padre l’ha ingravidata e il suo cammino si fa sempre più difficile e tormentato. Mirra, allora, si rivolge, implorante, agli dei. Chiede una fine misericordiosa, chiede di essere cacciata sia dal regno dei vivi che da quello dei morti. E gli dei la trasformano in una pianta. Leggete questi pochi versi, nella traduzione di Calvino: “E già la pianta crescendo ha fasciato il ventre gravido e ha sommerso il petto e sta per coprire il collo: non tollerando più indugi ella si lascia scivolare giù, incontro al legno che sale, e il suo volto scompare sotto la scorza. Ma benché col corpo abbia perduto anche la sensibilità, continua a piangere. Dalla pianta trasudano tiepide gocce. Anche le lacrime possono essere onorate; le sue, che stillano dal tronco, hanno da lei il nome di Mirra, e celebri saranno in eterno”. Da questa pianta, con l’assistenza di Lucina, che dirà la formula del parto impietosita dai gemiti di quell’arbusto, nascerà il figlio, Adone, lo splendido Adone destinato a incontrare Venere. Ma la sfortunata, terribile vicenda umana di Mirra continuò a vivere nel cuore e nelle opere dei poeti. Ricordate Dante?

Ed egli a me: quell’è l’anima antica

Di Mirra scellerata, che divenne

Al padre, fuor del dritto amore, amica.

Come potete vedere, in molte di queste storie c’è inizialmente un concepimento, ma poi sono le gravidanze e il parto che diventano innaturali. In altri casi è evidente l’incredulità di molte persone rispetto a un ruolo rilevante degli uomini nella nascita dei loro figli. L’uomo? Cosa c’entra l’uomo? E perché poi dovrebbe avere un ruolo qualsiasi in una materia così squisitamente femminile?

Altre volte ancora, è messa invece in dubbio la necessità di un ruolo femminile. Questo è il caso della nascita di Orione, raccontata in differenti miti in modo simile, ma mai perfettamente identico. Secondo il racconto più noto, tutta questa vicenda si svolge in Beozia, in un luogo che, sembra, gli abitanti chiamavano Uria, o Ouria ( nella radice di molte delle parole di questo mito c’è, comunque, la pipì). Un brav’uomo del luogo – Gere, per alcuni, Urico per altri – ospitò a casa sua, con molta cortesia e umiltà, tre divinità (Giove, Poseidone e Mercurio) che erano in viaggio per andare a consultare un oracolo. Riconoscenti, i tre dei gli concessero di esprimere un desiderio. Gere – se questo era il suo nome – chiese di avere un figlio maschio :sua moglie è morta recentemente e con le sue ultime parole gli ha chiesto di non avere mai più una donna dopo di lei. E’ possibile avere un figlio senza dover coinvolgere una moglie, una amante, una concubina? Questo vecchio uomo, gentile, spaventato e fedele piace agli dei che decidono di accontentarlo: immolano un bue, lo scuoiano e con la pelle fanno un sacco, che riempiono di sterco e dentro al quale eiaculano (“semen in illud effuderunt”, e “in pellem bovinam semen iniecerunt” sono due versioni latine di quanto dice Palephate nel suo “Trattato delle storie incredibili”, α̉ πεσπέρμησαν ε ̉ις αυ̉ τὴ ν : seme dunque, e non urina, come qualche versione vuole inopportunamente cercare di farci credere (non c’è limite alla volgarità!). Però il resto del mito qualche dubbio lo insinua; il sacco viene interrato e in capo a 10 mesi Gere può estrarne il figlio, un bel bambino sano e ben formato: in un primo tempo vorrebbe chiamarlo σπέρμα, semen, ma poi cambia idea e finisce col chiamarlo Orione, da ου̃ρον, urina (anzi, secondo alcuni mitologi, addirittura Urione): così, su come sia stato concepito questo bambino preferiamo sospendere il giudizio. In ogni caso è proprio lui, l’Orione che è poi diventato una costellazione (naturalmente piovosa, scrive G.J. Witkowski, nella sua Histoire des accouchements chez tous les peuples, edito a Parigi da G. Steinhere nel 1887).

Nessuno pensi che la fantasia degli uomini, chiamati a sbizzarrirsi sui meccanismi della riproduzione, finisca qui, ci sono ben altri protagonisti : il vento, ad esempio.

Per sua natura il vento è indiscreto e sbarazzino, si intrufola e accarezza, senza vergogna e senza pudore (e senza lasciare molte possibilità di difesa alle vittime che sceglie). Ha dunque senso il fatto che gli siano state attribuite molte paternità. Ovidio, nelle Metamorfosi, racconta l’avventura di Borea, che rapisce Orizia nascondendosi in una nuvola di polvere: “pulvereamque trahens per summa e acumina pallam verrit humum pavidamque metu, caligine tectus, Orityian amans fulvis amplectitur alis” . Orizia (o Oritia) è una figura della mitologia greca, figlia del re Eretteo e di Prassitea e sorella di Creusa, di Ctonia e di Procri. Si narra che questa giovane donna fu rapita da Borea, il vento del Nord, mentre raccoglieva fiori sulle rive del fiume Cefiso: Borea la sposò e la portò in Tracia, cosa che la salvò dalla morte ( le sue tre sorelle furono sacrificate affinché Atene potesse vincere la guerra contro Eleusi). Sarà proprio andata così? Molti commentatori insinuano che è proprio della poesia personificare gli oggetti e che se una donna si trova ingravidata dal vento, nulla è più naturale di fare di quel vento un dio e imputare tutto a un elemento sovrannaturale. Così mi sembra che vada interpretato il racconto di Flora e del suo incontro con Zefiro, secondo gli splendidi versi di Ovidio (I Fasti, libro V, 201 e seguenti):

Ver erat, errabam: Zephyrus conspexit, abibam.

Insequitur, fugio: fortior ille fuit,

et dederat fratri Boreas ius omne rapinae

ausus Erecthea praemia ferre domo.

Era primavera, vagavo

Zefiro mi vide, mi inseguì, fuggii: ma egli fu più veloce.

E Borea che aveva osato rapire la preda dalla cas di Eretteo

Aveva dato al fratello piene licenza di rapina.

Abbiamo ritenuto opportuno riportare anche la versione originale, per via di quel fortior che ha suscitato molte polemiche tra i latinisti: più veloce? Più agile? O veramente più forte ( nel qual caso Zefiro diventa un volgare violentatore di ragazze, ben diverso da quel giovane uomo descritto da John Milton che ne fa il vivace protagonista de “L’allegro”:

:

“Or wether as som Sager sing

The frolick Wind that breathes the Spring

Zephir with Aurora playing,

As he met her once a Maying

There on Beds of Violets blew,

And fresh-blown Roses washt in dew,

Fill’d her with thee a daughter fair

So bucksom, blith, and debonair”

L’inglese di Milton non è semplicissimo, e ricorro a una traduzione molto rispettata dagli esperti, quella di Carlo Izzo, (Ode alla Natività ad un concerto sacro, Allegro, Pensieroso, Arcadi, Como, Licida, Sansoni editore, 1958) :

O forse, come pensano

Altri più saggi, il lieto

Vento di primavera,

Zefiro capriccioso,

con Aurora scherzando,

uscita a spigolare,

sopra le vaghe aiuole

di mammole azzurrine

e pur fiorite rose

cosparse di rugiada,

di te lei fece pregna

figlia gentile e bella,

sì beata, ridente e scapigliata.

Il frutto di questo incontro fu Eufrosine, sorella di Aglaia, e di Talia, che alcuni ritenevano figlia di Giove, e i più informati attribuiscono ai lombi di Bacco , che l’avrebbe generata con “il capo incoronato d’edera”. Eppure, vien da pensare, qualcuno avrebbe pur dovuto chiedersi come mai certe ragazze, quando soffiava un vento gentile, avevano un enigmatico sorriso sul volto. In ogni caso, le due versioni del canto offerte da Milton in merito alla nascita di Eufrosine se le è inventate lui.

Ma il vento sbarazzino e vitale non crea problemi solo alle donne. Sentite dal libro III delle Georgiche di Virgilio:

“Continuoque avidis ubi subdita flamma medullis

vere magis quia vere calor redit ossibus-illae

ore omnes versae in Zephyrum stant rupibus altis,

exceptanque levas auras et saepe sine ullis

coniugiis vento gravidae-mirabile dictu !-

saxa per et scopulos et depressas convalles

diffugiunt non, Eure, tuos, neque solis ad ortus,

in Borean Caurumque aut unde nigerrimus Auster

nascitur et pluvio contristat rigore caelum.

Hic demum Hippomanes vero quod nomine dicunt

Pastores, lentum destillat ab inguine virus ;

Hippomanes, quod saepe malae legere novercae

Miscueruntque herbas et non innoxia verba”.

Soggetto della poesia è la furia amorosa delle cavalle, poiché Venere stessa diede loro quel carattere, quando le cavalle di Potnia consumarono tra le mascelle le membra di Glauco. Vi propongo, come atto di insopportabile presunzione, una versione molto libera dei bellissimi versi di Virgilio.

“E’ il desiderio che le costringe a galoppare frenetiche, che le sprona a superare con slancio monti, vallate e fiumi impetuosi, finché giunge la primavera, con i primi tepori che scaldano le ossa e riaccendono la passione nel lombi. Allora, avide di piacere, le giumente frenano la loro corsa e si dispongono – ora sono immobili come statue – sugli aspri dirupi più esposti alle carezze voluttuose di Zefiro , finché nelle loro narici dilatate penetrano gli afri odori che i maschi ancora lontani hanno affidato alla brezza. E’ così che alcune di loro restano pregne, pur non avendo conosciuto il maschio, e sono queste che subito si scuotono come colpite dal fulmine per precipitarsi verso le vallate percorse dai venti- Borea, Cauro e il nero Austro – nei quali è disciolto il loro destino. E mentre galoppano selvagge la loro vagina secerne quel liquido che i pastori chiamano ippomane , lo stesso liquido che le maghe più esperte mescolano a erbe profumate, per preparare pozioni che avvelenano l’animo degli uomini”.

Questa storia dell’ ippomane, in verità, è alquanto confusa. E’ vero – speriamo che qualcuno se lo ricordi, non è possibile che nessuno legga più D’Annunzio – che questa storia dell’umore vaginale che eccitava sessualmente uomini e donne che lo ingerivano è arrivata quasi intatta e comunque senza modifiche sostanziali fin quasi ai giorni nostri ( parean recarmi il sentore degli ippomani favolosi), ma è altresì vero che la maggior parte delle favole racconta che l’ippomane è una escrescenza scura sulla fronte del puledro che la madre, subito dopo il parto, stacca con un morso e divora. Le ragioni di questo gesto sono anch’esse poco chiare: secondo alcuni, lo scopo è di consentire la nascita, nella giumenta, dell’istinto materno; per altri si tratterebbe invece di un dono di Atena (o di Poseidone) senza il quale la razza equina giungerebbe a distruggersi in preda a frenesia amorosa. Correva anche voce – voce certo calunniosa – che alcuni proprietari di cavalli usassero l’ippomane a fini sessuali strappandolo al puledro – con grande sgomento della cavalla – e conservandolo in uno zoccolo. Gli effetti della somministrazione di questa secrezione (un ferormone?) a un essere umano sono stati descritti da Eliano con grandi e repellenti dettagli. Di questo afrodisiaco scrive comunque più volte Virgilio – sia nell’Eneide che nelle Georgiche – e allo stesso accennano Teofrasto e Plinio. Giovenale, in una delle sue satire (Contro le donne) accusa Milonia Cesonia, la quarta moglie di Caligola, di “aver fatto trangugiare tutta intera l’escrescenza frontale di un puledrino ancora incerto sui garetti” al”marito (Tamen hoc tolerabile , si non et furere incipias ut avunculus ille Neronis cui totam tremuli frontem Caesonia pulli infudit, quae non faciet quod principis uxor) e conclude scrivendo : “tanto ci costa il parto di una cavalla, tanto una sola avvelenatrice” ( Tanti partus equae, tanti una venefica constat!).

Secondo Esiodo e Teocrito, invece, l’ippomane sarebbe un’erba che, brucata, fa infuriare i cavalli, La cosa è piuttosto peculiare perché esiste in effetti un’erba velenosa, della famiglia delle Euforbiacee, della quale esistono tre specie (Hippomane glandulosa, Hippomane biglandulosa e Hippomane mancinella) originaria dell’America centrale e dei Caraibi, i cui frutti sono estremamente velenosi per i mammiferi – uomo incluso – ma non per i rettili, che se ne cibano abitualmente.

Ma torniamo ai peculiari attributi dei venti sbarazzini. Omero, nell’Iliade ( XX,222) scrive:

Di Dardano fu nato il re d’ogni altro

Più opulente Erittónio. A lui tre mila

Di teneri puledri allegre madri

Le convalli pascean. Innamorossi

Borea di loro, e di destrier morello

Presa la forma alquante ne compresse,

Che sei puledre e sei gli partoriro.

Queste talor ruzzando alla campagna

Correan sul capo delle bionde ariste

Senza pur sgretolarle; e se co’ salti

Prendean sul dorso a lascivir del mare,

Su le spume volavano de’ flutti

Senza toccarli.

Aristotele, che probabilmente si ispira anche a Omero, nella sua Storia degli animali ritorna sulle virtù sessuali del vento, ma sembra mescolare differenti storie fino a crearne una nuova, confusa e mal combinata, che riportiamo:

Si dice che le cavalle in calore vengano ingravidate dal vento; per evitarlo i Cretesi non le separano dagli stalloni. quando però accade che il vento abbia la meglio, allora fuggono la vicinanza degli altri cavalli e si comportano come le scrofe quando hanno l’estro. Fuggono e vanno a nord e a sud, mai a est o a ovest, senza lasciarsi avvicinare da nessuno, e corrono finché non crollano sfinite o giungono al mare, dove si sgravano. Espellono una cosa che chiamano ippomane, come l’escrescenza che si trova sulla fronte del puledro alla nascita: assomiglia all’umore vaginale della scrofa ed è ricercato soprattutto da coloro che si occupano di magia.

Dunque Aristotele non se la sente di dar troppo credito alla storia della gravidanza procurata del vento e il suo racconto sembra piuttosto far riferimento a una gravidanza isterica ( povere cavalle) determinata da stimoli assai poco virtuosi. Del resto Aristotele era un osservatore attentissimo del comportamento degli animali e immagino che non fosse semplice imbrogliarlo. Ecco, ad esempio, la sua descrizione dell’estro delle cavalle:

Quando è giunto il momento della monta si toccano spesso il muso tra loro, agitano la coda e nitriscono in modo diverso dal consueto. Dalla loro vulva cola un liquido simile allo sperma del maschio, ma molto più fluido, che viene chiamato ippomane, così come ippomane viene chiamata l’escrescenza che si trova sul muso dei puledri alla nascita. Questo liquido cola goccia a goccia ed è perciò difficile raccoglierlo. E’ vero anche che quando le cavalle sono in calore orinano spesso e giocano tra loro.

Cercando altri richiami letterari al vento sbarazzino abbiamo trovato un riferimento di Plinio il Vecchio nella sua Naturalis Historia alla folle corsa delle cavalle gravide, che si dirigono verso nord se hanno concepito un maschio, verso sud se sono in attesa di una femmina. L’avremmo ignorata se non contenesse anche un riferimento – uno dei tanti – ai drammatici effetti dell’impurità del ciclo mestruale: se vengono cavalcate da una donna mestruata, le cavalle gravide abortiscono. Sempre.

Un’ultima cosa: l’idea che l’uomo non abbia niente a che fare con la nascita dei suoi figli è molto antica e ha avuto credito in molte epoche e in molte culture. Le ragioni di questa convinzione sono molte, ma la più importante ha certamente a che fare con il fatto che nella nostra specie le femmine sono disposte ad avere relazioni sessuali anche se non ovulano, così che il rapporto tra coito e gravidanza diventa particolarmente vago. Ne è evidentemente nata la necessità di immaginare una procreazione svincolata dalla sessualità, cosa che molte culture hanno fatto. Ci sono popolazioni che sono persuase che i figli entrino nel corpo delle donne trasportati dall’aria, e spesso identificano in queste minuscole creature gli spiriti degli antenati; secondo altri, i bambini entrano nel corpo delle donne passando attraverso le dita dei piedi e abitano in continuazione le loro ospiti, che li costringono a nascere solo in condizioni di necessità. In alcune isole del Pacifico una cultura animista ha imposto l’avuncolato, un tempo diffuso anche in Europa, togliendo ogni significato alla parola “padre” (diventata sinonimo di colui che gioca con la madre e la fa ridere). In una pubblicazione di F. Martin-Cano Abren ( Creencia arcaica en la ausencia de poder fecundador del varon) che potete trovare su Internet se cercate contraandrocentrismo/procreacion) sono citati un centinaio di nomi di dee, appartenenti a differenti Panteon, alle quali il mito attribuisce il ruolo di “madri vergini di figli divini” e che secondo i racconti erano vergini nel senso tecnico del termine, cioè non avevano rapporti con gli uomini e concepivano da sole le loro creature. La stessa autrice cita anche una quarantina di dee considerate “madri ancestrali” di differenti popoli, e delle quali si ignora se abbiano avuto bisogno di un uomo (ma di padri ancestrali il mito non fa menzione). Queste ultime pagine sono dedicate invece a mostrare ai lettori come quelle che oggi consideriamo fantasie un po’ folli di scienziati moralmente instabili siano sempre vissute nei sogni dei nostri antenati. Abbiamo scelto due leggende, entrambe originarie dall’Asia, entrambe relative alla possibilità che una persona possa avere un numero di genitori superiore a quello che la natura indica. La prima di queste storie riguarda la nascita del Mahavira (che si suppone essere avvenuta intorno al 560 a.C.), il “meraviglioso”, probabile fondatore del Jainismo. L’arrivo del Mahavirasulla terra era atteso da generazioni, masi trattava di un evento straordinario che poteva aver luogo solo in una condizione di assoluto equilibrio di tutto l’Universo, un evento che si verificava con estrema rarità. L’attimo in cui finalmente il Mahavira poté essere concepito, c’era una sola coppia in tutto il mondo che stava conoscendosi sessualmente, Rana e sua moglie Prassala, e Rana era un commerciante di vasi e sua moglie una donna di casa, così che un rapido e silenzioso sorriso serpeggiò tra gli dei perché il fondatore di una religione, il portatore di una verità, l’Atteso, non poteva nascere da gente del popolo, non poteva essere scritto così, il fato doveva aver letto male le istruzioni. Fu per riparare a questo errore che, quando Prassala fu giunta a metà della gravidanza, un inviato degli dei la visitò mentre dormiva, estrasse il bambino che si stava formando dal suo ventre e lo andò a deporre nel grembo della regina Devananda, che fu ben felice di accoglierlo e di partorirlo. Fu così che il Mahavira fu educato (si fa per dire) da due madri e fu così che quando il messaggero torno per guidarlo fino alle strade polverose dove si incontrano gli uomini, portò con sé quella che lui considerava la sua vera madre, Mestra, la balia che si era sempre presa cura di lui.

La seconda storia è presa da una leggenda indù della quale ha anche scritto Heinrich Zimmer ( il re e il cadavere) e parla dell’incontro casuale di un ladro e di una vedova. Il ladro è stato sorpreso mentre rubava e gli abitanti del villaggio, un po’ per punirlo e un po’ per divertirsi, lo hanno impalato sulla cima di una collina, in mezzo a un cimitero. La vedova fugge dai suoi parenti che l’accusano di aver ucciso il marito in realtà vogliono impossessarsi della eredità) e porta con se nella fuga la sua piccola figlia; il ladro soffre le pene dell’inferno, ma la sua è una lunga agonia, non ha figli e quindi nessuno può chiedere agli dei di abbreviare il suo martirio. La vedova è terrorizzata , non ha denaro, non è riuscita a prendere nulla lasciando la casa e l’avvenire le si presenta oscuro e pieno di dolore. Il ladro, al quale lei cerca di dare qualche conforto, le fa una proposta: le dirà dove lui ha nascosto del denaro, abbastanza per garantire una vita serena a lei e alla bambina, e in cambio il primo figlio di sua figlia sarà figlio suo, per contratto: in questo modo, per questo legame che li unirà, le preghiere della donna potranno essere ascoltate dagli dei e lui potrà finalmente morire. Tutto va secondo i piani, il ladro muore, la vedova e la figlia vanno a vivere in una città di mare sulla quale regna un re saggio e buono. Quando la figlia è appena divenuta donna si innamora di un marinaio di passaggio, che se ne va senza nemmeno sapere che adesso la ragazza aspetta un figlio suo. Le due donne si preparano ad allevarlo insieme, ma al momento del parto il solito messaggero degli dei lo chiede in consegna, lo lascerà sulle scale del palazzo reale e convincerà il re ad adottarlo e a farlo suo erede. Così il bambino viene educato da un brav’uomo, che gli insegna le virtù che chi governa deve possedere e lo educa ad essere onesto, sincero e misericordioso. Il vecchio re morirà dunque sereno, convinto di avere fatto una scelta giusta, e il giovane re porterà fino alle acque del fiume sacro che sbocca nel mare visino alla città i doni che debbono dimostrare la riconoscenza di chi resta a coloro che li hanno lasciati. Ma quando dirà le parole rituali(a te padre, questi poveri doni…..) dalle acque del fiume vedrà spuntare tre mani e capirà, essendo uomo pio e ispirato, di aver avuto tre padri, il ladro, il marinaio e il re e che a tutti deve mostrare gratitudine.

2- La biologia dei filosofi

La biologia non è esistita come scienza specialistica se non molto recentemente e nei tempi antichi – in Mesopotamia, in Egitto – le poche persone che ne capivano qualcosa erano quelle che si occupavano di scienze agricole. D’altra parte le ipotesi sui meccanismi della riproduzione hanno sempre avuto grande peso sulla costruzione dei rapporti endofamiliari e questo spiega la moltitudine di interpretazioni delle quali siamo oggi a conoscenza. E’ più difficile da capire invece lo scarso rilievo che sembrano aver avuto le esperienze dirette (ad esempio l’osservazione del rapporto tra gli animali): ad esempio, in molte culture l’esistenza di un seme maschile capace di rendere fertile un rapporto sessuale è stata del tutto ignorata, ma non è stato sempre così ed esistono in proposito informazioni del tutto contraddittorie. Ci viene in mente il mito sumerico nel quale si racconta come la moglie del dio Enki liberi la pronipote del seme del marito (che l’ha stuprata) scuotendola tutta e spargendo il liquido sul terreno, con il risultato di fecondarlo e di far nascere nove piante i cui frutti contengono il seme di Enki; e una delle leggende di Zaratustra narra che di lui, asceso al cielo, resta solo il seme che nuota nelle acque di un lago in attesa che vi si immerga una vergine ( nascerà, da quell’incontro, il salvatore, il promesso figlio di Zaratustra). Eppure nelle stesse culture prevaleva l’idea secondo la quale i figli nascevano per intervento del vento del cosmo o dello spirito degli antenati.

I primi filosofi a prospettare ipotesi relative al meccanismo della riproduzione furono i presocratici, ma le loro posizioni erano altrettanto numerose quante erano numerose le scuole di appartenenza.

Bisogna dunque arrivare a Ippocrate (quindi al periodo che va dal 460 al 360 a.C.) e alla sua scuola per trovare una teoria precisa, chiaramente enunciata. Ippocrate ritiene che il bambino si formi dalla miscela di due semenze, quella maschile e quella femminile, che viene identificata nelle secrezioni vaginali. Poiché deve giustificare il fatto che molti figli assomigliano ai genitori, Ippocrate immagina che le due semenze siano secrezioni di tutte le parti del corpo, convogliate fino ai genitali attraverso il midollo spinale. Dopo il rapporto sessuale, le due semenze si mescolano nell’utero che le riscalda, le condensa e le rigonfia, fino a far produrre loro un “soffio”. Il soffio e il calore organizzano le diverse parti del corpo attraverso due meccanismi: il primo collegato con l’azione del calore che coagula e dissecca, e così si formano le ossa; il soffio, invece, induce le diverse parti del corpo a riprendere la forma originaria. Da questo momento, una volta formato, il feto cresce nutrito dal sangue della madre. Non ci sono, come vedete, riferimenti a magie o a miti, ma solo al “soffio”, nel quale è forse possibile riconoscere l’anima.

Platone, vissuto tra il 420 e il 347, non si occupa di una scienza della natura, ma solo di una scienza dell’anima. Egli considera l’esistenza, nell’uomo, di varie anime: quella immortale, che pensa e ragiona e che si trova nel cervello; quella mortale, che si trova nel ventre; una terza anima simile a quella immortale che, dal petto, dirige il corpo. Platone era stato influenzato da Pitagora, che credeva nella metempsicosi e considerava le donne (e gli altri esseri viventi) come uomini degradati, condannati a vivere in una condizione inferiore per aver commesso degli errori nella vita precedente.

Aristotele, vissuto tra il 384 e il 322 a.C., è lo straordinario autore di un’ipotesi sulla riproduzione umana che verrà accettata per più di 2000 anni. La sua nuova teoria ha al centro una originale definizione dell’anima: per Aristotele l’anima è la forma, ma non la forma geometrica, la morfologia, ma la forma più in generale, che comprende le qualità applicate alla materia, prima indeterminata. L’anima è la forma potenziale del vivente, quella che egli possiede in modo non attuale e verso cui tende.

Nella generazione sessuata il ruolo del maschio e della femmina è asimmetrico proprio in rapporto al concetto di forma e di materia, l’uomo la forma, cioè l’anima, un elemento capace di dar vita a qualcosa che i per sé è solo passivo. Questa materia è il sangue mestruale, e in questo modo la riproduzione umana riproduce quanto avviene sulla terra (la materia) per effetto del sole (il calore) e che ha per risultato la generazione spontanea.

Per il filosofo, un corpo concreto reale è un ente individuale esistente in atto la cui forma (causa formale) fa della sua materia (causa materiale) il tipo di ente che specificatamente è, realizzando così lo scopo della sua esistenza (causa finale). Responsabile della comparsa di questo corpo individuale, con il suo carattere e con la sua natura specifica, è un agente esterno, la causa efficiente, che può agire sulla materia di un corpo preesistente.

L’ipotesi biologica di Aristotele è realmente affascinante. Lo sperma è un residuo del nutrimento sanguigno, del quale è il prodotto più elaborato. Si forma nei canali deferenti e la sua trasformazione è frutto dell’azione del calore dell’uomo. Anche le mestruazioni sono un residuo del nutrimento sanguigno, ma un prodotto assai meno elaborato – come si può desumere dal fatto che mantengono un carattere ematico – poiché la donna, forma imperfetta rispetto all’uomo, non possiede il calore. La riproduzione è una funzione derivata dall’alimentazione: questa prima serve per la crescita del bambino, poi viene utilizzata per la riproduzione del liquido seminale e infine per quella di un individuo.

Aristotele ha appreso molte cose osservando la natura: sa che il seme viene depositato in vagina e che questo è all’origine del concepimento; sa che nella donna gravida la mestruazione scompare. Ha bisogno di trovare un agente attivo, una causa efficiente, e così gli viene in mente la splendida immagine dello scultore che scolpisce il blocco di marmo, che verrà ripresa in seguito dagli ilomorfisti. La donna dunque svolge un ruolo passivo e fornisce il proprio sangue, che diviene il materiale necessario perché il bambino si formi; ma è il seme del padre a indurre la forma, cioè la specifica natura del vivente. Il seme possiede un potere attivo che rimuove e muta il sangue della madre, trasformandolo in un bambino vivente. Perché questo avvenga, il sangue deve essere esposto al calore e al potere vitale presente nel “pneuma” del seme, deve cioè subire l’azione del “soffio” (dell’alito, dello spirito). Questo ruolo del pneuma non è spiegato con chiarezza, come non è chiaro il modo in cui lo sperma anima la materia femminile. Inoltre, per Aristotele non tutti gli animali producono seme, poiché alcuni possiedono le capacità di agire direttamente in virtù di una loro “potenza informatrice”.

Dunque, la prima fase dell’embriogenesi consiste in una coagulazione del seme femminile sotto l’azione del seme maschile. In seguito questo coagulo si struttura per effetto delle qualità attive – l’alternanza del caldo e del freddo – regolate dall’anima nutritiva che presiede alla riproduzione. Il concepimento è collocato nei 7 giorni che seguono la formazione del sangue mestruale; i primi moti attivi e la differenziazione si verificano in tempi diversi, 40 giorni per i maschi e 90 per le femmine. Dice Aristotele che “ciò che esiste in potenza si forma per effetto di ciò che è in atto” E” il desiderio dell’anima del padre a fornire il seme che contiene il pneuma, sempre strumento dell’anima (nel padre, nel seme, nel feto). La madre è solo colei che fornisce la materia.

Questa idea della donna “fertile terreno nel quale l’uomo può piantare il suo seme” ha ispirato a lungo il concetto di genitorialità. Nel mondo antico, gli invasori che occupavano nuovi territori, uccidevano gli uomini, stupravano le donne, portavano con sé i figli nati da questi stupri quando decidevano di ritornare alle loro terre perché ritenevano che la differente etnia delle madri fosse priva di qualsiasi influenza sui nuovi nati. Nello stesso modo, Eschilo mette in bocca ad Apollo, chiamato a difendere il matricida Oreste davanti alle Eumenidi, giudice Atena, queste parole: “Non la madre, non lei produce il suo frutto: “figlio” è il suo nome. Solo nutre il gonfio maturo del seme. Lui, sì, è padre, che d’impeto prende. Lei come ospite all’ospite veglia sul giovane boccio, se un dio non lo schianti”.

Una volta che si è formato, l’embrione possiede solo l’anima nutritiva: riceverà l’anima sensitiva solo dopo aver costruito gli organi di senso. Riceverà più tardi l’anima razionale, che gli verrà inserita dall’esterno, con valenza metafisica: solo l’intelligenza è divina e giunge dall’esterno. L’embrione iniziale, dunque, è un animale in potenza, non in atto, destinato a diventare animale in senso generico e, infine, uomo.

Nel sangue mestruale sono presenti, in potenza, le varie parti dell’animale che sarà, una volta in atto i movimenti del pneuma, lo strumento del padre. Aristotele, però, non è un preformista, e la sua teoria semmai, è epigenetica.

Molti secoli dopo, per opera di Alberto Magno e poi di Tommaso d’Aquino, la teoria di Aristotele fu praticamente acquisita dalla Chiesa Cattolica, incluse le diverse animazioni (nutritiva, sensitiva e intellettiva) e il lungo periodo necessario (40-90 giorni) perché l’embrione, attraverso un atto divino di creazione potesse diventare persona.

Dobbiamo arrivare al 1600 per trovare nuove teorie relative alla procreazione capaci di incidere sul concetto di genitorialità. Mi riferisco alle ipotesi del preformismo, nelle due versioni, ovista e animalculista. L’idea dei preformisti era che, visto che l’atto della creazione era stato uno e unico, tutti gli uomini e tute le donne dovevano essere stati creati insieme, in quell’istante. I filosofi si dividevano quando si trattava di stabilire dove queste moltitudini, naturalmente miniaturizzate erano state conservate: rispettivamente, come è logico, nei testicoli di Adamo per chi aveva visto l’omuncolo negli spermatozoi, nelle ovaia di Eva per chi era convinto che non fosse in realtà necessario alcun contributo maschile per fare iniziare la formazione di un feto. Come è naturale, le due teorie tendevano ad assegnare il prestigio e l’onore di genitore ad uno solo dei due sessi.

Questi concetti particolari di genitorialità si ritrovano in molte culture, naturalmente diversamente connotati. Solo per fare un esempio, ricordiamo che gli aborigeni australiani ritengono che le donne ricevano il loro bambino quando camminano nell’acqua: è una chiocciola di mare o un serpentello d’acqua che comunque che consegna loro questa minuscola creatura trasparente, destinata a nascere solo quando la donna lo desidererà. E l’immagine di questo “wandering baby” compare anche nei miti e nei racconti dei popoli che con l’Australia non hanno mai avuto rapporti.

3- L’antica Grecia

L’atteggiamento cristiano nei confronti della donna (e in misura minore nei riguardi del sesso) è certamente stato influenzato dalla cultura greco-romana e da quella ebraica, che costringevano le donne a vivere in condizioni di inferiorità e di subordinazione.

In Grecia, a dire il vero, nei secoli delle Città Stato, la condizione femminile era regolata da leggi e da costumi non uniformi. In Atene, nel periodo compreso tra il VI e il IV secolo a.C., la donna aveva perduto il ruolo rilevante che le era stato riconosciuto nella società micenea e in età omerica e non godeva di alcun diritto giuridico o politico, non diversamente da una schiava. Le donne sposate varcavano solo raramente la soglia di casa; le giovinette – che dovevano vivere lontano dagli sguardi dei maschi, persino di quelli appartenenti alla famiglia – non lasciavano in sostanza mai il gineceo nemmeno per una rapida apparizione nel cortile interno della casa. A Lesbo, invece, la poetessa Saffo dirigeva una sorta di collegio nel quale erano educate giovinette ricche e a Sparta le ragazze potevano dedicarsi a esercizi di ginnastica senza che le corte vesti che indossavano (in un testo greco dell’epoca è scritto che “mostravano le cosce”) imbarazzassero i cittadini.

Tutto ciò che una giovane ateniese doveva imparare glielo insegnava la madre, una parente o una schiava e si trattava prevalentemente di cose molto semplici: filare e tessere, cucire, cucinare, suonare uno strumento, leggere (raramente). La vita sociale si limitava alla partecipazione alle feste religiose, alle processioni e ai cori, sempre separate dai maschi. L’educazione era prevalentemente rivolta a inserire dentro di loro principi di moderazione, di prudenza e di salute mentale: dovevano apprendere a vedere e a farsi vedere il meno possibile, ad ascoltare ancor meno, a non fare domande.

Era il tutore che sceglieva il marito per queste giovani donne, loro non erano neppure interpellate: i matrimoni avevano scopi insieme sociali e religiosi, come quello di fare figli per assicurare la continuazione della famiglia e per garantire il culto degli antenati. Anche se i celibi non erano sanzionati in alcun modo, su di loro si esercitava una forte pressione sociale e comunque il celibato suscitava critiche piuttosto severe. Leggendo gli autori dell’epoca si ha comunque l’impressione che il matrimonio fosse considerato un male necessario.

A – Il significato di Eros

I greci del V e del IV secolo usavano il termine eros – amore – per indicare la relazione pedagogica che si creava tra eromane ed eraste, cioè tra il giovane e il suo maestro, relazione che prevedeva anche rapporti sessuali. L’eraste era generalmente un cittadino influente, spesso un uomo politico, di solito sposato e con figli, inevitabilmente ricco: la fine della relazione pederastica, che giungeva nel momento in cui l’eromane poteva essere considerato un guerriero capace di difendere la città, prevedeva doni e spese che solo una persona abbiente poteva permettersi. L’amore coniugale non godeva di grande prestigio: fu riabilitato solo nel periodo corrispondente al tardo stoicismo, probabilmente per la tracimazione dei costumi romani. Secoli dopo, Plutarco, in un’opera della quale ci sono giunte soltanto notazioni indirette, (Dialogo sull’amore) prima di fare l’apologia del matrimonio, si sente in obbligo di dimostrare che le ragazze, come i ragazzi, erano in grado di suscitare quel benedetto “eros”.

Anche se non esistevano leggi che condannavano in modo diretto l’incesto, le relazioni sessuali tra ascendenti e discendenti della stessa famiglia erano considerate un abominio ed era convinzione generale che suscitassero l’ira degli dei. D’altra parte, se una ragazza era l’unica erede del padre, doveva sposare il parente più prossimo per continuare il culto della famiglia.

Il marito era sempre in diritto di ripudiare la moglie, anche in assenza di validi motivi. L’adulterio della donna rendeva obbligatorio il ripudio ed era addirittura previsto che il marito che si fosse rifiutato di assolvere a questo obbligo potesse essere privato dei suoi diritti. Una causa piuttosto frequente di ripudio era la sterilità della donna o la nascita di figli incapaci di sopravvivere, mentre una gravidanza in evoluzione non rappresentava un ostacolo al ripudio. A frenare una possibile eccessiva tendenza al divorzio, tecnicamente molto facile da ottenere, la legge aveva sancito l’obbligo di restituire la dote alla moglie ripudiata.

B – Scarso prestigio, pochi diritti

La donna era collocata dalla legge in una situazione molto simile a quella di una persona giudicata giuridicamente incapace e, se voleva separarsi dal marito, doveva rivolgersi a un arconte (probabilmente all’arconte polemarco, un tempo capo militare, ma che aveva lasciato questo suo potere agli strateghi per diventare garante e gestore degli interessi degli incapaci e dei cittadini stranieri, tutte persone prive di diritti). Le sue richieste potevano essere accettate se era in grado di dimostrare di aver ripetutamente subito violenze e percosse, le accuse di infedeltà non erano nemmeno prese in esame. D’altra parte la società vedeva di malocchio le donne che si separavano dal marito. E’ lo stesso Euripide a farcelo capire, facendo dire a Medea: “Ecco, prima dobbiamo comprarci un marito, portandogli in dote un mucchio di denaro, e pigliarcelo come padrone del nostro corpo. Ma anche così corriamo un grande rischio, non sappiamo se lo piglieremo buono o cattivo. Le separazioni, si sa, non fanno onore alle donne e neanche è possibile ripudiare lo sposo, essere lasciati è un’infamia per loro”.

Dunque, se nell’antica società neolitica, che aveva, a quanto dicono alcuni studiosi, una struttura quasi patriarcale, la donna aveva una posizione di prestigio, il suo potere diminuì e scomparve nelle strutture sociali successive. Lo si può dedurre già leggendo i poemi omerici, ad esempio da come Telemaco si rivolge a sua madre Penelope:

“Madre, disse Telemaco, a me solo

Sta in mano il dare o no quell’arco, io credo.

………………………………………………………

Ma tu rientra, ed al telaio e al fuso

Come pur suoli, con le ancelle attendi,

Cura sarà degli uomini quell’arma,

E, più che d’altri, mia: che del palagio

Il governo in me sol, madre, risiede.”

(Odissea, Libro ventunesimo)

La donna era una sorta di reclusa anche dopo il matrimonio, anche se i ginecei non erano chiusi a chiave. Bastava un detto popolare ateniese, che si può tradurre con “la strada è per le puttane”, a chiarire come stessero le cose. Il dominio femminile della casa, che trovava la sua espressione formale nel fatto che le donne portavano sempre con sé le chiavi (e soprattutto quelle del magazzino e della cantina) trovava precisi limiti nel fatto che il marito poteva limitarlo o destinarlo ad un’altra persona in qualsiasi momento e senza alcun preavviso.

C -Il matrimonio

I giovani non si sposavano mai prima di diventare maggiorenni e spesso aspettavano anni dopo il termine del servizio militare, che dovevano prestare tra i 18 e i 20 anni. Le ragazze potevano sposarsi appena raggiunta la pubertà, cioè verso i 12 – 13, anni anche se in genere si aspettava che ne avessero 14 o 15. Il matrimonio legittimo tra un cittadino e la figlia di un cittadino era caratterizzato, in Atene, dalla consegna di un pegno, che aveva generalmente luogo presso l’altare domestico. In quella occasione i due giovani si scambiavano una stretta di mano e qualche frase rituale, sempre davanti a testimoni. Il padre di famiglia aveva sui figli i medesimi diritti dei quali godeva nei confronti degli schiavi. In Atene, una fanciulla poteva sposarsi senza dote – evenienza comunque rarissima – ma è probabile che l’esistenza di una dote distinguesse tra un matrimonio legittimo e un concubinato. Anche se il matrimonio era già legittimo dopo la consegna del pegno, la consumazione del matrimonio esigeva il trasferimento della ragazza nella casa del pretendente. Le cerimonie cominciavano già il giorno prima con una serie di sacrifici agli dei ai quali la ragazza dedicava i suoi giochi e gli oggetti che le erano stati familiari fino a quel momento. Seguiva un rito di purificazione, un bagno per il quale una processione andava a prendere l’acqua a una fonte speciale, la Calliroe (la bell’acqua che scorre). Nella casa della sposa si teneva un banchetto e si facevano sacrifici ai quali la ragazza assisteva velata, vestita dei suoi abiti migliori, circondata dalle amiche e assistita dalla ninfeutria, la donna destinata a guidarla durante l’intera cerimonia; a questo punto la ragazza poteva togliersi il velo, che probabilmente la doveva proteggere nel periodo pericoloso del suo cambiamento di stato. Verso sera si formava un corteo che l’accompagnava fino alla nuova casa, dove l’attendevano il padre e la madre dello sposo, il primo coronato di mirto, la seconda con una torcia in mano. Seguivano una serie di gesti simbolici il più importante dei quali (assaggiare un dolce nuziale di sesamo e miele, un dattero e una mela cotogna, simboli di fertilità) dovevano servire di auspicio per una vita matrimoniale feconda. La sposa veniva cosparsa di noci e fichi secchi, dopo di che il marito la portava in braccio nella camera nuziale: la porta era chiusa a chiave e custodita da un amico dello sposo.

D- Il gineconomo

Quando, dopo la guerra del Peleponneso molte donne ateniesi si permisero comportamenti più liberi, non dissimili da quelli che da tempo avevano scelto le spartane, e la sorveglianza dei loro comportamenti fu affidata a un magistrato speciale, il gineconomo, che aveva il compito di punire quelli considerati devianti, sia che fossero il risultato di una eccessiva indipendenza, sia che avessero a che fare con l’esibizione di un lusso eccessivo.

Mentre la donna, malgrado i suoi obblighi di fedeltà, era considerata una potenziale adultera, agli uomini era concesso di usufruire della compagnia di altre donne. Questa disparità di condizioni raggiunse il culmine nella società ateniese del V secolo, un periodo durante il quale agli uomini fu concesso di disporre di quattro donne: la moglie, per avere figli legittimi; la concubina, l’etera e la prostituta. La concubina doveva sottostare, come la moglie, all’obbligo di fedeltà e i suoi figli godevano di diritti assai simili a quelli dei figli legittimi. L’etera era una cortigiana sofisticata che intratteneva relazioni anche prolungate con lo stesso uomo, al quale offriva sesso e compagnia. La prostituta era generalmente una donna che era stata esposta dal padre appena nata e che era stata destinata alla prostituzione da chi l’aveva raccolta. La prostituzione era legale in quasi tutte le città greche ed esistevano case di tolleranza nelle quali si potevano trovare individui di ambo i sessi, gli uomini in genere giovanissimi, le donne senza limiti d’età.

Dunque, almeno fino all’età ellenica, la condizione della donna dipendeva dal tipo di rapporto che era riuscita a stabilire con un uomo, fermo restando il fatto che l’intero genere femminile era pressoché inesistente dal punto di vista sociale e politico. Ad Atene, per esempio, erano considerati cittadini solo coloro che erano capaci di difendere la città con le armi. Tutto ciò cambiò notevolmente nel periodo ellenistico, quello che segue le imprese di Alessandro e arriva fino alla nascita formale dell’Impero romano: in molte città le donne furono in grado di partecipare alla vita sociale e politica ed ebbero il riconoscimento di molte capacità giuridiche. Furono ad esempio autorizzate a comprare beni mobili e immobili, a iscrivere ipoteche sulle proprietà che erano riuscite ad ottenere o a conservare, e persino, in casi molto particolari e specifici, a concludere il proprio contratto di matrimonio con un divorzio. Alcuni dei vincoli che le sottomettevano al potere maschile, però, persistettero: i padri continuarono ad avere il diritto di interrompere il matrimonio delle figlie e non fu tolta loro la facoltà di esporre le figlie femmine, una scelta che non fu mai considerata socialmente riprovevole e che continuò a riguardare il 10% delle neonate. Nello stesso modo restò invariato o quasi il problema culturale, e l’analfabetismo continuò a rappresentare una condanna estesa praticamente a tutte le donne. Anche se in via eccezionale, le donne cominciarono a partecipare alla gestione del potere politico e comparvero sulla scena pubblica femmine di grande prestigio, poetesse e donne di cultura, e ciò malgrado il fatto che la letteratura greca restasse fortemente misogina. Non era però più la misoginia sprezzante e sdegnosa di un tempo, quanto piuttosto un tentativo di difesa da parte di chi vedeva vacillare i propri privilegi e capiva che ora avrebbe dovuto fare i conti anche con le donne. La letteratura greca dell’età ellenistica trasformò gli antichi pregiudizi in saggezza popolare, la camuffò da luoghi comuni e mascherò così le proprie paure.

4 – L’Antica Roma

L’unità fondamentale della società romana era rappresentata non solo dalla famiglia, così come ancora oggi la definiremmo, ma dai parenti che vivevano nella casa, dagli schiavi e dagli schiavi liberati. Nella Roma arcaica il pater familias aveva privilegi relativi al fatto di essere titolare dei propri beni, a differenza della moglie e dei figli. Egli esercitava la patria potestà – che inizialmente era un vero e proprio potere di vita e di morte – sulle persone che gli erano soggette, natura et iure. Al pater familias appartenevano schiavi, animali, campi, edifici, la res mancipi (che riguardava i beni direttamente collegati ai bisogni della famiglia) e la res nec mancipi (che riguardava i beni che costituivano una fonte di ricchezza per la famiglia) ed era lui a esercitare la dominica potestas, la potestà sui servi. Nella casa romana la donna rimase a lungo oggetto di diritto, destinata a eseguire i lavori più sgradevoli e pesanti e a soddisfare le esigenze sessuali dei maschi della famiglia, priva come era del diritto al connubium, cioè della capacità giuridica di prendere marito; il dominus aveva addirittura il diritto di annullare un matrimonio che aveva unito una coppia di schiavi che gli appartenevano e poteva esercitare la patria potestas sui figli eventualmente nati da questa unione, perché i figli dei suoi schiavi erano suoi schiavi.

A- Tutunus Mutunus

Le giovani romane che si preparavano al matrimonio venivano istruite al culto di Tutunus Mutunus, una divinità simile a Priapo, le cui immagini erano caratterizzate dalla presenza di un enorme fallo, col quale, nei riti preliminari, la promessa sposa si intratteneva con giochi sconci e osceni, simulando rapporti sessuali, predisponendosi a una perdita giocosa e non dolente della verginità. Nei primi secoli successivi alla fondazione di Roma, collocata con qualche approssimazione intorno al 750 a.C., le religioni locali onoravano una figura femminile, presente in molti culti e conosciuta con numerosi nomi, (Mater Matuta, Feronia, Bona Dea, Tanaquilla). Il culto di questa dea doveva essere popolare anche in numerose popolazioni limitrofe e probabilmente rifletteva una condizione di vita femminile caratterizzata da una grande libertà e da un elevato prestigio. Doveva essere così per le donne etrusche, per lo meno per quanto ci dice Teopompo, uno storico greco, scolaro di Isocrate, nato intorno al 380 a.C. , che ci ha lasciato una specie di storia universale dedicata a Filippo di Macedonia. Secondo costui, ma è corretto ricordare che gli storici moderni non fanno gran conto delle sue testimonianze e lo accusano di aver raccolto molte dicerie, le donne etrusche godevano di grande libertà, avevano cura del proprio corpo, partecipavano ai banchetti insieme agli uomini, avevano un certo prestigio e riuscivano a vivere con dignità il proprio ruolo, pur sempre esercitato a livello familiare. In realtà Teopompo scrive anche cose piuttosto maligne: che queste donne “erano in comune”, che stavano nude davanti agli uomini, che sì, educavano i propri figli, ma che non sapevano quasi mai chi fosse il loro padre, e che partecipavano a pratiche sessuali molto discutibili, che prevedevano gli scambi di coppia, la sessualità di gruppo e la sodomia. E’ molto probabile che queste malignità fossero nate dall’insofferenza dei greci nei confronti di evidenti manifestazioni di emancipazione e di autonomia, cose che gli etruschi nemmeno percepivano, ma che ai greci sembravano oscenità pericolose. Del resto anche i Romani trovarono da ridire sul fatto le mogli degli aristocratici etruschi partecipassero ai banchetti tranquillamente sdraiate sui triclini, a fianco dei mariti, spesso acconciate con parrucche bionde, qualche volta (ma questo è già meno credibile) bevendo vino. Ma la società etrusca non era certamente matriarcale, i sarcofaghi ci mostrano donne sedute ai piedi del letto sul quale è disteso il marito che ha sempre l’aria tranquilla e distesa del padrone di casa. Anche il riferimento all’ esistenza di una diffusa prostituzione femminile che coinvolgeva anche le donne di buona famiglia è certamente una cattiveria, una calunnia che ha influenzato anche Plauto e Tito Livio al punto che in epoca romana più tarda la parola “etrusca” era sinonimo di prostituta. Sappiamo invece che in Etruria la prostituzione veniva praticata nella forma più nobile, quella sacra: esistevano, presso alcuni templi, le ierodule, schiave del tempio che si concedevano ai pellegrini e ai viaggiatori per sostenere le spese del tempio e per incrementarne le ricchezze, quasi sempre a tutto vantaggio dei sacerdoti. Del tutto false anche le voci relative a una diffusa pederastia, perché in linea di massima gli etruschi non approvavano l’omosessualità, anche se non si può escludere che l’abbiano marginalmente accettata, vista la diffusione che aveva tra i greci e i romani. E’ vero invece che alcuni storici greci, parlando degli etruschi, usavano il termine “ginecocrazia”, ma è molto probabilmente una allusione alla matrilinearità, cioè alla discendenza per linea materna. Nelle iscrizioni tombali, accanto al nome del padre figura quello della madre (qui giace il tal dei tali, figlio di costui e di costei); dopo la romanizzazione queste iscrizioni cambiarono così: qui giace il tal dei tali, figlio di Caio, nato da Sempronia, a indicare il genitore e la fattrice e a dimostrazione del fatto che lo stato sociale delle donne etrusche era nettamente declinato.

B- Venere, dea multiforme e lussuriosa

E’ giunto il momento di parlare di Venere, la dea madre della Natura, che si accoppiava con tutti, generando in continuazione e che per questo fu considerata dagli antichi come una dea lussuriosa. In realtà si trattò di una dea multiforme e capire qualcosa di più dei suoi molti aspetti, anche attraverso i nomi con i quali veniva invocata, serve a comprendere meglio il rapporto con il sesso e con la generazione delle donne che a lei sacrificavano.

Secondo Igino, il fabulista romano autore del Liber fabularum, Venere nacque da un uovo di straordinaria grandezza che cadde nelle acque dell’Eufrate: l’uovo fu trasportato a riva dai pesci, e su di lui si posarono alcune colombe che lo riscaldarono e permisero a Venere (Siria, la chiama Igino) di nascere. Per Omero, Venere è invece figlia di Zeus e di Dione; per Esiodo fu Urano a generarla, ma in modo molto complicato: mentre era molto affaccendato con Gea fu scoperto da Crono che gli amputò il fallo. Questo cadde nel mare dove si tramutò in spuma bianca, e da questa spuma nacque poi la dea. Fin dalle prime interpretazione dei riti a lei dedicati risulta evidente come essa rappresentasse per i suoi adoratori la lussuria. Ma è anche importante considerare il grande numero di animali e di elementi naturali che godevano della sua protezione. Quando Teseo sacrificò a Venere Epitragia una capra sulla riva del mare, questa subito si trasformò in un capro, che Venere cavalcò. Ma Venere era anche la dea delle rose e delle piante, proteggeva il delfino, la quaglia e la lepre e a lei erano sacri i passeri, le colombe e i cigni, l’ariete e il serpente.

Per Platone esistevano due Veneri, Urania, che rappresentava l’amore puro, e Pandemia, la dea dell’amore volgare. Gli Etruschi la chiamavano Turan, la Signora, e probabilmente identificavano in lei la madre di tutti gli dei. Era evidentemente una dea nata in oriente, derivata per molti caratteri da Inanna e da Ishtar: molti dei suoi attributi e soprattutto la prostituzione sacra delle sue sacerdotesse erano aspetti dei riti a lei dedicati che erano già presenti a Babilonia. I Romani la chiamavano con molti nomi (Acidalia, Pontia, Pandemia, Anzia, Tanaide, Citerea, Urania, Prasside, Ericina, Ciprigna,) che spesso avevano a che fare con il luogo nel quale veniva adorata. Esisteva in Roma anche il culto di una Venere genitrice, una divinità che i cittadini avevano confezionato a proprio uso e consumo e che niente aveva a che fare con l’autentica Venere: a lei si rivolgevano anche chiamandola Physica, o Pompeiana per richiamare gli aspetti più terreni di Venere, riferiti ai temi del piacere sessuale e dell’accoppiamento.

Innumerevoli erano le feste che le erano dedicate,a Roma e in altre parti d’Italia. Il 19 agosto, a Roma, nel “Templum Veneris Ericinae apud Portam Collinam”, il 26 settembre nel “Templum Veneris Genitricis”, il 12 agosto nel “Templum Veneris Victricis”, il primo aprile nel “Templum” dedicato a Venere Verticordia. Il 23 aprile e il 25 ottobre si celebrava Venere Ericina, con una processione fuori dall’antica cinta di mura dove era localizzato il tempio, i cui resti erano ancora visibili nel 500. La statua della dea era arrivata dalla Sicilia (da Erice, dove esisteva un tempio dedicato alla dea sul monte san Giuliano) nel 201 a.C. Le sacerdotesse del tempio, le hieredulae, esercitavano la prostituzione sacra, diffusa in tutto il bacino del Mediterraneo, e durante quelle feste le meretrici romane si recavano in processione al tempio e, come scrive Ovidio, pregavano la dea di vegliare sulle loro capacità professionali. Di questa processione scrive anche Marziale (che sposta la data al sette di agosto e parla di un enorme fallo portato in processione) in questi termini:

Dopo il vino e le rose

Messo via il pudore

Tersicore sbronza

Parla a ruota libera.

Dice del gran fallo

Portato in agosto

Alla superba Venere,

Il priapo cazzuto

Piazzato a guardia dell’orto

Che la pia fanciulla

Guarda coprendosi gli occhi.

(Marziale, Epigrammi, libro III, 68)

Alcuni storici moderni si sono chiesti se la libertà delle donne etrusche e la loro capacità di non arrossire al cospetto degli uomini non fosse il retaggio di altre società arcaiche presenti nell’area mediterranea. C’è anche stato chi ha riconosciuto negli etruschi gli eredi di una società matriarcale presente nel mediterraneo prima che le invasioni greche sostituissero il potere della donna con quello dell’uomo, ma si tratta di una ipotesi molto, molto controversa; si è persino ipotizzato che la società etrusca fosse in qualche modo apparentata con quella cretese. Non vi è infatti alcun dubbio, e gli archeologi lo confermano, sul fatto che nelle città stato di Creta esistano tracce inconfondibili di un potere tipico di un modello culturale nel quale appaiono dominanti le donne e le loro peculiarità, anche se è molto poco probabile che la loro autonomia fosse assoluta. Creta non era certamente una società ideale, né rappresentava il regno dell’utopia, e semmai gli storici la dipingono come una società umana reale, pragmaticamente sviluppata, con i suoi problemi e le sue imperfezioni, capace comunque di reggere al confronto con le altre società che si stavano sviluppando nel Mediterraneo nella stessa epoca storica.

C- Domo mansi, lanam feci

Nella Roma arcaica, il modello femminile che veniva indicato all’ammirazione di tutti era rappresentato da donne sulla cui lapide erano incise lodi che ne vantavano, sì, la bellezza, ma che soprattutto ne ricordavano la fedeltà e il senso di sottomissione al marito. Questo modello di donna era definito da termini come lanifica, domiseda, casta, univira, pia, pudica. Si immaginava che la consapevolezza di aver svolto il proprio ruolo secondo le attese del pater familias, della società e degli dei fosse compresa in questa fase finale, quella da riservare per il proprio letto di morte: “domo mansi, lanam feci”. Ma c”era un’altra caratteristica che la società premiava in modo del tutto particolare: quella di aver fatto tutto il suo dovere in silenzio. A Roma c’erano almeno due dee che personificavano il silenzio, Tacita Muta e Angerona, e ad esse le matrone romane sacrificavano volentieri. Tacita Muta era una dea degli inferi, il cui culto era stato raccomandato da Numa Pompilio, che l’aveva ritenuta fondamentale per l’istituzione del suo nuovo stato. Tacita Muta, secondo la leggenda, aveva avuto la lingua mozzata da Giove, come punizione perché era chiacchierona e querula. Di lei si era innamorato Mercurio, e i figli nati da questo amore, i Lares Compitales, nella religione dell’antica Roma avevano il compito di vigilare sulle strade della città. Tacita, chiamata più familiarmente Acca (la lettera muta), vigilava invece perché nell’urbe non si diffondessero maldicenze. L’altra dea del silenzio era Angerona, rappresentata sempre con un dito sulle labbra, che aveva il compito di tener segreto il nome della città non consentendo così ai nemici di conquistarla; era anche la dea che proteggeva gli amori segreti e guariva il dolore e la tristezza. Non è comunque che a Roma mancassero donne che promuovevano una immagine femminile diversa, che si dedicavano alle arti o alla letteratura, ma si trattava di una scelta scarsamente gradita alla coscienza sociale, il modello restava sempre quello della matrona univira, moglie e madre, capace di dimenticare se stessa nell’adempimento dei doveri familiari. La diversità era considerata una minaccia e trattata con molto sospetto, in quanto possibile matrice di degenerazione: si pensi alla dura repressione dei culti bacchici che furono stroncati nel 186 a.C.

D – Diritti e doveri

I romani non ritenevano dignitoso che una donna fosse costretta a restare isolata in certe parti della casa, che non potesse banchettare con gli uomini e che le fosse proibito di uscire liberamente per strada. La ragione di questo trattamento privilegiato era presumibilmente dovuta al fatto che la donna romana, al contrario di quella greca, non era unicamente destinata a una funzione biologica, ma aveva il ruolo di educatrice, cosa che le assegnava un compito di grande importanza sociale, quello di preparare i figli a diventare cives romani. Inevitabilmente, per poter svolgere questo compito di trasferire ai figli gli elementi fondamentali della cultura e della morale della città, la donna doveva partecipare alla vita degli uomini, unico modo possibile per assimilarne i valori. Non c’erano dunque limiti alla sua libertà di movimento, poteva uscire di casa a suo piacimento e frequentare terme e negozi. Ai pasti familiari sedeva a tavola con il marito, con l’unica differenza che lui se ne stava sdraiato sul triclinio e lei (almeno così appare dalle immagini che ci sono giunte), se ne stava seduta su una poltrona, forse perché così le era più semplice badare ai figli. In compenso doveva accettare di non avere diritti civili, dei quali godeva solo l’uomo che aveva il diritto di votare, poteva tentare la carriera politica e accedere a un cursus honorum. La donna, anche soltanto per sposarsi, fare testamento, ereditare, aveva bisogno del consenso di un tutore, che poteva essere il padre, il marito, o in caso che costoro fossero deceduti, il parente maschio più prossimo. Le leggi delle XII Tavole, un corpo di norme elaborate intorno al 450 a.C. dai decemviri legibus scibundis, che rappresentano una delle prime codificazioni scritte del diritto romano, fanno intendere quale fosse la posizione giuridica della donna romana: ” Foeminas, etsi perfectae aetatis sint, in tutela esse, exceptis virginibus vestalis” (è stabilito che, sebbene siano in età adulta, le donne debbono essere sotto tutela, eccettuate le vergini vestali). Questo è il primo frammento della V Tavola, e si dovrebbe trattare di “ipsissima verba”. Le limitazioni relative alla capacità giuridica della donna vengono spiegate dai giuristi latini chiamando in causa una serie di qualità negative che vengono elencate come se si trattasse di cose di comune e antica conoscenza, che non meritano particolari commenti tanto sono note a tutti: l’ignorantia iuris, l’imbecillitas mentis, la infirmitas sexus e la levitatem animi. Ci sembra che solo le ultime due (debolezza sessuale e leggerezza d’animo) abbiano bisogno di una traduzione.

Gli studiosi hanno notato che la rivendicazione di una diversità così radicale tra i due sessi ha senso solo se si immagina l’esistenza di una cronica contrapposizione, tipica delle società antagoniste. Nel periodo arcaico, almeno per quanto riguarda i diritti giuridici, la donna era equiparata agli impotenti e agli eunuchi: non poteva adottare, non poteva testimoniare in tribunale, né fare testamento, né garantire per i debiti di altre persone, non poteva fare operazioni finanziarie, rappresentare interessi altrui, impegnarsi in contrattazioni private, essere tutrice dei suoi figli in età minorile. Le donne romane non aveva nemmeno diritto al nome proprio: mentre i maschi usavano prenomen, nomen e cognomen, a loro spettava solo il nome della gens alla quale appartenevano, usato al femminile. Una famiglia plebea nella quale nascevano, una dopo l’altra, diverse femmine, aggiungeva al nome il numero (Prima, Secunda, oppure Maxima, Maior, Minor), mentre nelle famiglie patrizie si attingeva alle antenate illustri. Ma avere un nome, per una donna, a Roma, contava poco: nella città, ai tempi della repubblica, venivano censite solo quelle femmine che, avendo ereditato, erano obbligate a contribuire al mantenimento dell’esercito.

E- La salute delle donne

Sui problemi della salute femminile c’era una grande confusione, anche perché della salute delle donne i medici si occupavano obtorto collo e quando ne scrivevano tendevano a manifestare perplessità ed incertezze. Ad esempio, la durata della gravidanza era considerata sempre con qualche perplessità, la storia racconta di vedove che avevano partorito 11 mesi dopo la morte del marito, ma che, tratte in giudizio dalla famiglia del defunto, si videro dar ragione dai medici e dai filosofi chiamati a dare un parere. La maggior parte delle persone era comunque convinta che fosse normale che le donne partorissero dopo sette, nove e persino dieci mesi, ma la medicina dell’epoca non contemplava la possibilità che lo facessero dopo otto, una strana teoria che ebbe credito fino a tempi molto vicini ai nostri: all’inizio del XX secolo, le stesse ostetriche ritenevano che avesse molte più probabilità di sopravvivenza un bambino nato di sette mesi piuttosto che uno venuto al mondo di otto. Partorire era un evento pieno di rischi, la mortalità materna superava il 10% ed era particolarmente elevata nelle gestanti giovanissime, quelle che erano appena uscite dalla pubertà. I guai maggiori conseguivano comunque alle lacerazioni (che non venivano riparate) e alle complicazioni ostetriche dovute alle anomalie di presentazione del feto o a una particolare ristrettezza del bacino, molte delle quali si concludevano con la rottura dell’utero e la morte di entrambi, madre e figlio. Se rimaneva incinta una donna molto piccola di statura le veniva consigliato di abortire, anche se i medici generalmente lasciavano queste cose alle levatrici e alle donne esperte. In età imperiale, la maggior parte delle donne cominciò a usare mezzi per evitare le gravidanze o per interromperle nella fase iniziale. Le donne usavano soprattutto erbe (soprattutto ruta, elleboro e artemisia) che si assumevano come decotti, ma avevano buona diffusione anche i tamponi vaginali impregnati di sostanze spermicide e le irrigazioni, eseguite appena terminato il rapporto. L’aborto non era punito per se stesso, ma solo se causava la morte della donna: in questo caso il medico o la levatrice che l’avevano provocato potevano essere accusati di omicidio.

F – Lucina

Quando iniziavano le doglie, la gravida si lavava le mani, si copriva la testa con un panno e sacrificava a una Dea, quasi sempre Lucina, ma anche Carmenta (Antevorta, che presiedeva all’inizio e al parto, mentre Postvorta si occupava del puerperio); poi veniva spogliata dalle donne che l’avrebbero assistita e fatta sedere sulla sedia da parto, una sedia particolare, col sedile forato per lasciar passare i liquidi e apposite maniglie alle quali la gestante si attaccava quando si trattava di spingere. Le donne portavano nella stanza olio di oliva, acqua calda, erbe utili per cataplasmi e per altre funzioni, pezze di lana e di stoffa. Una delle donne, quasi sempre una schiava, si metteva dietro allo schienale della sedia e abbracciava la donna, per tenerla ferma, mentre l’ostetrica si collocava su un basso sgabello, davanti e quasi sotto alla gestante, ungendo la vagina con olio tiepido, pronta ad assistere il feto nell’espulsione. Se c’era assistenza a sufficienza, altre donne appoggiavano le mani sul ventre e aiutavano la donna a spingere: anche loro facevano un grande uso di olio caldo e di cataplasmi, usati soprattutto per alleviare il dolore. Le gambe della donna venivano protette con teli o coperte di lana. Se il medico riteneva che il parto fosse diventato troppo pericoloso per la vita della donna, poteva ricorre a strumenti molto grossolani – generalmente ganci e uncini – che consentivano di agevolare l’estrazione del feto, naturalmente causandogli danni irreparabili. E’ possibile che, se la donna moriva, si facessero tentativi di estrarre il feto utilizzando una tecnica simile al taglio cesareo, ma non ci sono elementi che lo provino. C’era anche molta confusione sulle presentazioni anomale, che spesso venivano considerate come un segno divino negativo: i medici romani, contrariamente a quelli di molte altre parti del mondo, non temevano le presentazioni podaliche, che probabilmente avevano imparato ad assistere.

G – Casta, pia, pudica, lanifica, domiseda.

Molte delle parole identitarie sono rimaste le stesse, non hanno bisogno di traduzione: casta, pia, pudica, non hanno modificato il loro senso. Il laneficium era la tradizionale funzione della matrona, che consisteva nel filare e tessere la lana per i vestiti di tutta la famiglia e il suo aggettivo, lanifica, fa ovviamente riferimento a quanto rendeva la donna all’interno dell’azienda domestica. Il vero significato di domiseda, che letteralmente significa “colei che siede in casa”, non ha tanto a che fare con le motivazioni economiche quanto con quelle morali: la donna seduta è casta per definizione, le prostitute si sdraiano sui triclini accanto agli uomini. Qualcuno ricorderà la storia di Lucrezia, moglie di Lucio Tarquinio Collatino, presa con l’inganno e la forza da Tarquinio Sestio, figlio di Tarquinio il superbo, una storia piena di Tarquini. Lucrezia raccontò della violenza subita ai parenti riuniti e li incitò alla vendetta: ” Vos – inquit – videritis quid illi debeatur; ego me etsi peccato absolvo, supplicio non libero. Nec ulla deinde impudica Lucretiae exemplo vivet” (Sta a voi stabilire quello che costui merita; quanto a me, anche se mi assolvo dal colpa, questo non significa che non avrò una punizione. E da oggi in poi, nessuna donna, dopo Lucrezia, vivrà nel disonore). Poi si uccise, immergendosi un coltello nel petto. Lo sdegno suscitato da quella morte segnò la fine del potere dei Tarquini nella città: Tarquinio il superbo fu esiliato e, malgrado reiterati tentativi, non riuscì mai a rientrare in Roma.

Per quanto riguarda la pietas fa testo un elogio che è parte di una lunga iscrizione funeraria del I secolo a.C. dedicata da un cittadino alla moglie Turia: “A che rievocare le tue virtù, la castità, il rispetto, l’amabilità, l’arrendevolezza, l’assiduità al telaio, la religiosità non fanatica, la sobrietà nel vestire, la modestia nella scelta dei gioielli; a che parlare dei tuo affetto per noi, della tua dedizione alla famiglia, della deferenza per mia madre, della serenità che le hai procurato. Queste e altre doti le avevi in comune con tutte le matrone che tengono al loro buon nome. Quelle che io proclamo sono virtù che furono solo tue…”. Quella cui si allude in questo lungo elogio è soprattutto la pietas, un sentimento considerato alla luce delle relazioni con il marito e i suoi genitori.

Aggettivi come casta e pudica non meritano ulteriori commenti, una volta portato l’esempio di Lucrezia. Per quanto riguarda “economa” (frugi), che significa parsimoniosa, operosa, frugale, l’esempio che viene subito alla mente è quello di Cornelia, figlia di Publio Cornelio Scipione detto l’Africano e di Emilia, figlia a sua volta di: Lucio Emilio Paolo, il console caduto a Canne, la madre dei Gracchi, “i suoi gioielli”.

L’appellativo più apprezzato per una donna romana era comunque quello di essere univira, termine che si applicava in forma prescrittiva alle donne che avevano un marito vivo e in forma descrittiva alle donne che erano decedute prima del marito. La parola compare su molte lapidi, naturalmente scritte dai mariti, che la utilizzavano per descrivere una ideale storia di donna, quella di una ragazza che avevano sposato quando era filia familias, giovane vergine, e li aveva lasciati da mater familias. Più tardi, alla fine del periodo repubblicano, venivano chiamate univire anche le vedove che rifiutavano di risposarsi, per lealtà nei confronti della memoria del marito scomparso o nell’interesse dei figli. Questa scelta fu ufficialmente scoraggiata da Augusto, che incoraggiava le vedove a sposarsi di nuovo, dopo aver osservato un giusto periodo di lutto, che i romani avevano fissato in dieci mesi fin dai tempi di Numa Pompilio, per evitare la turbatio sanguinis, cioè un errore nella attribuzione della paternità. Le leggi emanate da Augusto nel 18 a.C. avevano lo scopo di rinsanguare una popolazione in costante calo e che non riusciva più a fornire un numero sufficiente di soldati ai propri eserciti. Da quel momento a Roma le abitudini sociali si modificarono: molti uomini scelsero di avere una concubina, divorziarono da mogli sterili o poco fertili, ma ci volle molto tempo perché diventasse moralmente accettabile il nuovo matrimonio di una vedova, la tradizione della donna univira si basava evidentemente su ragioni morali difficili da dimenticare.

Si racconta, ma probabilmente si tratta di leggende, che le donne sabine accettarono di andare spose ai romani solo a certi patti, che furono accettati e rapidamente dimenticati: i patti riguardavano soprattutto il rispetto del quale le sabine avrebbero dovuto godere, un rispetto che arrivava a imporre ai romani di lasciar loro il passo se le incontravano per strada e a non pretendere da loro altro lavoro oltre a quello di filare la lana. Le leggi sabine, che con molte probabilità proteggevano le donne, non ebbero comunque mai cittadinanza in Roma, dove furono sostituite da norme molto crudeli, come quella che consentiva la esposizione pubblica delle neonate .

H- L’età imperiale

Già alla fine della repubblica la struttura della famiglia romana comincia a modificarsi soprattutto perché si assiste a una progressiva valorizzazione dei sentimenti di amore e di compassione per i figli. Come conseguenza del rallentarsi dei vincoli di discendenza diretta, che avevano tenuto saldi i rapporti tra le famiglie naturali componenti la familia proprio iure, la struttura di quest’ultima cambia grazie anche alla corrente di emancipazione che consente a un figlio di diventare pater indipendente della sua nuova famiglia, che assomiglia sempre più a quella moderna, basata sulla coniunctio sanguinis e sulla genitorialità naturale, mentre la patria potestas viene progressivamente limitata. Lo stesso ius vitae ac necis (o vitae necisque potestas, diritto di vita e di morte) scompare verso la fine del periodo classico, quando l’autorità pubblica si sostituisce a quella privata in sintonia con concezioni sociali che non accettano l’esercizio di un potere disciplinare così ampio come quello del pater. In modo analogo si attenua l’incapacità patrimoniale del figlio e della donna, grazie alla dote e alla creazione da parte di Augusto del peculium castrense, in virtù del quale i figli potevano disporre dei beni acquisiti durante il servizio militare e di quelli ottenuti nell’esercizio di attività burocratiche e religiose.

Anche l’evoluzione della condizione femminile viene favorita dal mutare delle regole giuridiche. Già alla fine del secondo secolo si era diffuso il matrimonio consensuale, che aveva preso gradualmente il posto della conventio in manum, il passaggio della moglie nella potestà del marito. Non erano più necessarie forme costitutive particolari, bastava che la convenzione fosse accompagnata dall’intenzione degli sposi di contrarre matrimonio.

Ora anche le spose potevano chiedere il divorzio ed era persino possibile che la donna, rimanendo nella famiglia d’origine, diventasse indipendente prima di rimanere vedova. Se appartenevano a una famiglia agiata le donne entravano in possesso di un patrimonio personale in età relativamente giovane, godevano di nuovi diritti di successione e di una maggiore libertà nel disporre dei propri beni, poiché la tutela si era trasformata in un istituto protettivo.

I – La lex Opia e le leggi suntuarie

La libertà delle donne crebbe al punto di stimolarle a scendere in piazza per varie forme di protesta, la più nota delle quali fu quella del 195 a.C. per sostenere l’abrogazione della lex Opia, una norma che era stata approvata per limitare il lusso femminile. Si trattava di una lex suntuaria, intesa cioè a limitare le spese superflue, promulgata nel 215 a.C. durante la II guerra punica, in un momento storico di particolare difficoltà per la repubblica. L’aveva proposta il tribuno della plebe Gaio Oppio e prevedeva una serie di limitazioni che riguardavano esclusivamente il comportamento delle donne: non potevano andare in carrozza, se non per partecipare a cerimonie religiose, né possedere più di una mezza oncia d’oro, né indossare abiti vistosi e sgargianti. Terminate le guerre puniche e uscita Roma dal periodo di crisi, la legge sembrò alle donne un fastidioso e inutile residuo del passato, così che ne chiesero ad alta voce e con manifestazioni pubbliche, l’abrogazione. Molti uomini politici romani si opposero e tra di loro c’erano i due tribuni della plebe, Marco Giunio Bruto e Publio Giunio Bruto; ma l’opposizione più energica arrivò dal console Marco Porcio Catone che ridicolizzò il “naturale desiderio delle donne di spendere a piene mani” e ricordò a tutti i cittadini romani che una delle conseguenze positive della legge era stata quella di rendere tutte le donne, povere o ricche che fossero, uguali: “da molto tempo non accade più di vedere una donna plebea vergognarsi di non poter reggere il confronto con l’eleganza di una patrizia”. Alla fine l’ebbero vinta le donne che, terminata la discussione pubblica, assediarono le case dei due tribuni e non tolsero l’assedio fino a che costoro non decisero di accogliere le loro richieste. Insomma, si comportarono né più né meno come attiviste politiche e ne guadagnarono il nome di axitiosae. Ma la ragione vera della loro vittoria va probabilmente identificata nel fatto che le donne della plebe, contrariamente a ogni attesa, non avevano per niente apprezzato le orazioni di Catone.

L- I concilia plebis

Per i romani, la presenza di queste donne ricche, autonome, invadenti e prepotenti, che non infestavano solo la città ma tutto il territorio, era un problema del quale molti avvertivano l’importanza. Il timore più grande riguardava i possibili effetti negativi delle ricchezze delle quali queste donne potevano disporre. In altri termini i romani si chiedevano se queste donne arroganti, disobbedienti e superbe non avrebbero scelto di utilizzare i loro sesterzi per corrompere gli uomini politici e ottenere sempre nuovi diritti. Su questi temi ebbero occasione di intervenire più volte i Concilia Plebis, dei quali occorre dire alcune cose.

Sorti come organizzazioni rivoluzionarie nel 494 a.C. per soddisfare le rivendicazioni delle classi meno abbienti, i Concilia, presieduti dai tribuni della plebe, deliberavano i plebisciti, che nel tempo divennero vere e proprie leggi che si applicavano a tutti i cittadini, plebei e patrizi. Essi potevano opporsi a tutte le leggi proposte dei consoli e ai provvedimenti emanati dai magistrati che potevano andare a sfavore della classe popolare. Nel 169 a.C. il Concilium plebis, su proposta del Tribuno della plebe Voconio (che aveva l’appoggio di Catone il censore) stabilì con una legge, che prese appunto il nome di lex Voconia, che nessun legatario potesse ricevere più di quanto aveva ricevuto l’erede, una norma non difficile da aggirare aumentando molto semplicemente il numero dei legati. La legge limitava la capacità successoria della donna vietando a chi disponeva di ricchezze superiori ai 100.000 assi di nominare erede una femmina. Scopo di questa legge era quello di salvaguardare l’adgnatio in linea maschile cioè il trasferimento dei beni ereditari, in assenza di designazione testamentaria, al cosiddetto adgnatus proximus, cioè al soggetto di sesso maschile che avesse una comune discendenza dallo stesso pater familias con il defunto e al quale veniva anche affidata la tutela. Insomma, gli uomini erano molto preoccupati per la crescente ricchezza delle donne e cercavano di porvi rimedio.

M – Alla conquista delle professioni

Si aprì in seguito un secolo interessante, il primo secolo avanti Cristo, durante il quale, malgrado tutti gli ostacoli, le donne cominciarono a invadere territori fino a quel momento destinati agli uomini, come ad esempio i tribunali: comparvero sulla scena per la prima volta le donne avvocato, che sostenevano le proprie ragioni e quelle di altre donne sia in campo civile che penale. La storia cita, come esempio, Ortensia, figlia di un avvocato famoso, che difese brillantemente in Senato, nel 42 a.C., una causa che le consentì di convincere i triumviri a ridurre la partecipazione delle più ricche matrone romane alle spese militari. Plutarco, dal canto suo, scrive, in termini assolutamente entusiastici, di Cornelia, quinta e ultima moglie di Pompeo Magno, donna semplice e che non presumeva granché di se stessa, ma che era straordinariamente versata in matematica e in filosofia e suonava splendidamente la cetra. In realtà gli storici di quell’epoca ci hanno tramandato un lungo elenco di donne impegnate con successo nell’esercizio dell’arte medica, di poetesse, saggiste e letterate

Cosa consentì queste importanti modificazioni del ruolo della donna non è facile dirlo: probabilmente contò molto il fatto che il lunghissimo periodo di guerre sanguinose nelle quali era stata impegnata Roma aveva moltiplicato il numero delle vedove e che molte di esse si erano scoperte libere di disporre di maggiori poteri e di maggiore libertà. L’assenza prolungata degli uomini aveva anche costretto le loro mogli ad assumere nuove responsabilità all’interno della famiglia, il che aveva progressivamente modificato la morale comune fino a costringerla ad accettare consuetudini precedentemente condannate e a liberarsi di molti pregiudizi.

Di fronte a questa nuova e pericolosa realtà i Romani cercarono di porre rimedio a quello che per molti era stato un grave errore, per altri una semplice distrazione, e che comunque aveva consentito a molte donne di uscire dai confini del proprio ruolo. Furono approvate norme che proibivano alle donne di svolgere alcune attività che la natura riservava senza ombra di dubbio al sesso maschile, e tra queste naturalmente l’avvocatura. Ma riportare le cose al passato non era più possibile e la storia lo confermò.

N- L’emancipazione della donna romana

L’emancipazione femminile raggiunse progressivamente livelli molto elevati, certamente imprevisti, anche se con modificazioni significative, dovute soprattutto alle vicende storiche di Roma. Se nel tardo periodo repubblicano una matrona di rango poteva esercitare una notevole influenza sulla vita politica grazie al prestigio della famiglia di appartenenza, in epoca imperiale i mutamenti costituzionali le tolsero gran parte di questa capacità. Poiché il potere delle donne era condizionato dal matrimonio e poiché molte donne facevano, della libertà conquistata con il divorzio, un uso criticabile, non è un caso che gran parte dell’attenzione dei legislatori si concentrò proprio sulle regole matrimoniali, sull’adulterio e sui problemi connessi con la moralità dei costumi. E se è vero che la società romana non era, o non era ancora, quella descritta dagli scrittori di satire e di epigrammi, esisteva certamente un problema di diminuzione generale del livello di moralità: l’adulterio, malgrado le leggi che lo condannavano, era sempre più diffuso, come era sempre più diffusa la prostituzione e persino alcuni dei baluardi etici della città stavano cedendo, come si poteva facilmente accertare valutando l’enorme numero di violazioni del voto di castità delle vestali. Tra gli uomini esistevano gli honestiores e gli humiliores e tra le donne le honestae e le probosae, le oneste e le vergognose. Il cursus honorum delle honestae prevedeva le condizioni di virgo, sponsa (fidanzata), mater familias ed eventualmente vidua, vedova. Tra le altre, erano incluse la nubilis probos -nubile vergognosa – l’uxor adultera e l’ignominiosa meretrix. Esistevano comportamenti scandalosi che non potevano nuocere all’economia né modificare lo status quo, e altri che sembravano molto più minacciosi nei confronti della pur solida società romana.

O – Il problema della mortalità perinatale

In realtà la società romana antica, la cui forza era basata prevalentemente su numero e sul valore dei cittadini di pieno diritto ( optimo iure) era condizionata da un fantasma, che gli storici hanno chiamato “l’angoscia deli uteri vuoti”, che dipendeva dall’altissima mortalità infantile e perinatale e dal grande numero di gravidanze che si concludevano tragicamente. (Francesca Cenerini , Maternità biologica e istituzionale in età romana, a cura di Saveria Chemotti, il Poligrafo, 2009). E’ stato in effetti calcolato che in diversi periodi della storia romana una donna avrebbe dovuto partorire cinque bambini per poter contare sulla sopravvivenza di almeno due di essi fino all’età adulta. Gli amministratori e i governanti della città si occupavano sistematicamente del problema. Lo aveva fatto, nel 131 a.C., Quinto Cecilio Metello Macedonico, censore, che spaventato dalla crisi di denatalità della quale soffriva Roma durante il suo mandato pronunciò una orazione dal titolo Pro prole augenda, in favore del matrimonio obbligatorio, una idea che venne ripresa oltre un secolo dopo da Augusto che si fece promotore di una serie di leggi relative al diritto di famiglia, definite più tardi come le leggi socialmente più invasive emanate dall’imperatore. In realtà Augusto aveva deciso di partire dal nucleo sociale primario, quello della famiglia, per ricostruire il mos maiorum, il codice dei valori, che aveva molto sofferto a causa dei decenni di guerre civili e della lunghissima lista di proscrizioni. Ancora una volta la donna romana era chiamata a compiti precisi, sposarsi e partorire legionari, un compito certamente non grato considerata l’elevata mortalità da parto.

P – La Lex Iulia de adulteriis coercendis

C’era, dunque, materia sufficiente per l’emanazione di norme intese, oltre che a rafforzare l’istituto matrimoniale e a frenare l’adulterio, anche a cercare di ristabilire le rigide regole morali dell’antica Roma. Con la Lex Iulia de adulteriis coercendis, che è del 17 a.C., l’adulterio, che prima era perseguibile solo su istanza della famiglia, attraverso un iudicium domesticum, diventava un crimine pubblico, sottoposto alla cognitio exta ordinem. La norma perseguiva come “adulterio in senso stretto” il tradimento commesso in presenza di iustum matrimonium, sebbene reprimesse anche i casi di infedeltà che riguardavano le unioni illegittime. Tecnicamente erano solo le donne honestae a commettere adulterio, le femmine probosae et libertinae, quasi sempre di bassa estrazione sociale e ritenute per definizione impudiche e di riprovevoli costumi, non avevano il diritto di contrarre iustum matrimonium. La legge conteneva poi una complessa regolamentazione relativa alla punizione dei reprobi, la revisione delle antiche norme che consentivano al padre e al marito di punire i colpevoli di adulterio con una esecuzione privata, principi particolarmente complessi e intricati. Il pater, sia naturale che adottivo, poteva valersi dello ius occidendi solo se esercitava la patria potestas nei confronti della donna, cosa che gli attribuiva lo ius vitae ac necis sui figli. Nel caso che la donna avesse contratto un matrimonio cum manu (cioè con un contratto che aveva assegnato al marito il potere sulla moglie) egli doveva essere stato auctor della conventio; doveva inoltre sorprendere gli adulteri in flagranza di delitto nella casa paterna o in quella del marito, e ucciderli nello stesso momento, se ne avesse ucciso uno solo sarebbe stato colpevole di omicidio (salvo dimostrare la propria voluntas occidendi anche nei confronti del sopravvissuto). I limiti previsti per il marito nei confronti dello ius occidendi erano più estesi, anche se legalmente più che attribuirgli un diritto la legge gli assicurava una impunità. In nessun caso poteva uccidere la propria moglie, mentre poteva giustiziare l’adultero, ma solo in caso di flagranza, se l’adulterio avveniva in casa sua e se l’uomo era di bassa estrazione sociale. Inoltre il marito per non essere accusato di omicidio doveva avere il connubium, dimostrare di essere uomo di condotta moralmente ineccepibile, ripudiare la moglie (per non incorrere nel reato di lenocinio) e informare il magistrato entro tre giorni dell’omicidio commesso. Questa legge, almeno secondo Svetonio, poté essere applicata solo dopo 20 anni, cioè a partire dal 4 dopo Cristo. Successivamente il complesso delle leggi Iuliae fu modificato e rafforzato dalla legge Papia Poppeae: il complesso di queste nuove norme promuoveva in modo determinante l’istituto del matrimonio stabilendo sanzioni per i celibi che oltretutto, salvo casi particolari, non potevano ereditare né ricevere legati; concedevano ai vedovi e ai divorziati una pausa di lutto o di ripensamento, al termine della quale risultava conveniente per loro un nuovo matrimonio; stabilivano privilegi per coloro che avevano famiglie numerose.

Le leggi “morali” di Augusto ebbero effetti probabilmente inferiori alle attese e il tentativo di moralizzare Roma fu coronato solo da un modesto successo. La storia ci ha tramandato una serie di figure femminili malvagie che vivevano vite scandalose, creature volgari e senza scrupoli come quelle descritte dal Satyricon, seguaci di culti esoterici, fragili mercenarie del vizio. Accanto ad esse – ma di loro la letteratura non parla, perché il merito non interessa a nessuno – viveva un gran numero di donne oneste, caste e operose, ineccepibilmente impegnate nei lavori domestici, e donne colte, brave educatrici dei loro figli, che riuscivano a far pesare le proprie virtù all’interno della famiglia, malgrado fossero costrette a vivere in una società che continuava a discriminare il genere femminile. E’ vero che, lentamente, qualche diritto lo avevano pur conquistato: il matrimonio era diventato un contratto consensuale, l’approvazione del padre poteva ormai considerarsi “passiva”, anche le donne potevano chiedere il divorzio, la tutela si era trasformata in un istituto protettivo, così che le donne godevano di una maggior libertà nella disponibilità dei loro beni, erano ammesse alla honorum possessio dalle nuove regole pretorie, potevano persino accusare il coniuge di infedeltà. Restavano, malgrado tutto ciò, cittadine di seconda classe.

In ogni caso, non sembra proprio che le donne romane abbiano mai messo in discussione il proprio ruolo. Secondo gli storici, esse sentivano di essere parte della città e avevano la consapevolezza di contribuire alla sua crescita, svolgendo compiti di grande e insostituibile importanza. E’ molto probabile che fossero convinte di meritare ammirazione e rispetto per il proprio comportamento e immaginavano che Roma avrebbe premiato la loro accettazione del modello femminile che la tradizione imponeva con onori che non erano mai stati tributati, prima, ad altre donne. Per questo accettavano di essere escluse dalla vita politica, in cambio di privilegi che a noi possono sembrare del tutto inadeguati. Ma – scrive E.Cantarella ( Passato prossimo. Donne romane da Tacito a Sulpicia, Feltrinelli, Milano, 1996) -” il loro rapporto con gli uomini, forse per la prima volta nella storia occidentale, non era basato sull’oppressione, ma sullo scambio. Un rapporto così efficace da giungere fino a noi”.

5- IL MEDIOEVO

Non possiamo continuare a tormentare il lettore con citazioni, per cui evitiamo di entrare in dettaglio a proposito dei problemi della sessualità femminile, così come era considerata dagli uomini del Medioevo. Dobbiamo immaginare che su questo argomento pesasse una sorta di primordiale e allucinata condanna religiosa, di cui si trovano tracce evidenti già nel Vecchio Testamento. Solo per fare un esempio, ricordiamo che il fatto di aver colto il frutto dall’albero proibito, il peccato originale di cui si rese responsabile la donna, istituzionalizzò l’asimmetria di ruolo tra i due generi, già anticipata con il riconoscimento di un ruolo strumentale della donna rispetto all’uomo (“non è bene che l’uomo sia solo, gli voglio fare un aiuto”), che peraltro non aveva alcun tipo di riferimento sessuale. Eppure non c’è in pratica esegesi biblica che non concluda collegando il fatto di essersi cibata dei frutti dell’albero del bene e del male con la scoperta della sessualità da parte di Eva e di qui giù, critiche, cattiverie e accuse sulle povere donne.

Dunque riassumiamo. Si pensava che le donne si accendessero di passione e fossero più libidinose dei maschi e c’era addirittura una corrente di pensiero secondo la quale più le ragazze erano pallide e magari denutrite e macilente, più erano lussuriose e passionali, cosa del resto facile da immaginare visto che le loro parti genitali erano particolarmente ricche di “succo mordace”. E poi era conoscenza comune il fatto che le donne provavano maggior diletto nell’atto sessuale, e che questo le faceva camminare su una sorta di pendio scivoloso, sollecitate com’erano dal desiderio a commettere atti disdicevoli e a dimenticare onore e promesse di fedeltà per il piacere di pochi istanti di lussuria.

A-Ianua diaboli

Uno dei modi più classici e antichi di riferirsi a una donna, quello di indicarla come la ianua diaboli, lo possiamo far risalire addirittura a Tertulliano, un cartaginese nato nel II secolo d.C. e sempre citato per via di una sua frase famosa (è già uomo colui che lo sarà) che viene spesso utilizzata nelle dispute sulla liceità dell’aborto. Tertulliano, che scriveva spesso cose sgradevoli sulle donne, riteneva che Dio le avesse volute inferiori all’uomo e si rivolgeva loro così: “Tu donna hai con tanta facilità infranto l’immagine di Dio che è l’uomo. A causa del tuo castigo, cioè la morte, anche il figlio di Dio è dovuto morire. E tu hai in mente di adornarti al di sopra delle tuniche che ti coprono alla pelle?” (De cultu foeminarum). “Ogni donna dovrebbe camminare come Eva nel lutto e. nella penitenza in modo da poter espiare pienamente ciò che le deriva da Eva, l’ignominia del primo peccato e l’odio insito in lei, causa dell’umana perdizione. Ignori tu di essere Eva? La condanna di Dio verso il tuo sesso permane ancora. La tua colpa rimane. Tu sei la porta del demonio. Tu hai mangiato il frutto dell’ albero proibito. Tu hai disubbidito per prima alla legge di Dio. Tu hai convinto Adamo, poiché il Demonio non osava attaccarlo. Tu hai distrutto l’uomo, l’immagine di Dio. A causa di quello che hai fatto il figlio di Dio è dovuto morire.” (De cultu foeminarum).” Non è permesso a una donna parlare nella chiesa, né battezzare, né offrire, né prendere parte ad alcuna funzione né ufficio sacerdotale” (Il velo delle vergini). “Come sono ridicole le donne degli eretici! Hanno il coraggio di insegnare, disputare, decretare esorcismi, curare gli infermi e persino battezzare”(Prescrizioni contro gli eretici). E’ bene ricordare che Tertulliano scriveva in un periodo storico nel quale era in corso la polemica contro le dottrine gnostiche, che assegnavano alle donne un ruolo prioritario. Questo disprezzo per le donne si accompagnava a una attenzione quasi smodata per la castità.

B- La tentazione della carne

Giustino di Nablus, martire, decapitato nel 162 d.C., elogiava un giovane convertito che aveva cercato di ottenere il permesso di castrarsi per sfuggire alle tentazioni della carne. E Origene di Alessandria, nato nel 185 d.C., scriveva: ” Perciocchè ci sono eunuchi che sono nati spontaneamente dal ventre della madre, eunuchi che sono stati fatti eunuchi dagli uomini ed eunuchi che si sono fatti eunuchi loro stessi per il regno dei cieli. Chi può essere capace di queste cose, lo sia”. Si dice però che il vescovo Demetrio, a causa di queste sue parole, non lo volle ordinare sacerdote. San Antonio Abate, detto l’anacoreta, visse per anni chiuso in una tomba, in assoluta solitudine, e organizzò poi una comunità che si obbligava al triplice voto di povertà, castità e piena ubbidienza. Dal canto suo Agostino diceva che “la castità fa gli angeli e chi la conserva è un angelo”. Per giustificare il rapporto sessuale lo paragonava al dovere evangelico di amare i propri nemici. A chi cercava di convincerlo che al momento della resurrezione tutti i corpi sarebbero stati maschili, opponeva l’ipotesi che i corpi femminili sarebbero stati privi di apparato genitale e gli uomini non avrebbero potuto avere erezioni. San Gerolamo (347 – 420 ) frequentava una cerchia di convertite di buona famiglia che cercava di convincere a non sposarsi, descrivendo loro gravidanze e parti come eventi disgustosi e la verginità come una condizione mirabile; inoltre esortava le madri a far sì che le figlie non curassero l’igiene personale e evitassero persino i bagni termali: “Un corpo pulito – scriveva -è indice di una mente sporca”. Descriveva una sua seguace palestinese, una giovane donna di nome Paola, come “la donna più sudicia che si fosse mai vista”, ma dedita solo al digiuno e alla preghiera e perciò un esempio per tutte le donne”.

Non vorremmo poi dimenticare la lettera di Innocenzo III sulle badesse che recita: “recentemente alcune notizie sono giunte alle nostre orecchie che ci hanno lasciati stupefatti, secondo le quali alcune badesse…. benedicono le loro sorelle, ascoltano i loro peccati in confessione e leggono il Vangelo per poi predicare pubblicamente. Poiché tutto ciò è incredibile e assurdo e non può essere da noi tollerato trasmetto a vostra discrezione, attraverso questi scritti apostolici l’ordine di mettere fine a questi comportamenti con fermezza in ragione dell’autorità apostolica affinché ciò non si ripeta più. Benché la Beata Vergine Maria sia di una dignità e di una qualità superiore a tutti gli apostoli, è a loro, e non a essa, che il Signore ha consegnato le chiavi del Regno dei Cieli”.

C – La donna non è l’immagine di Dio

Per ora, come vedete, la figura femminile viene avvilita e vituperata, ma non sconfessata come essere umano; e il sesso, anche quello per definizione più ubbidiente alle regole della morale comune, viene trattato con notevole disprezzo. Un passo avanti lo fa Uguccione da Pisa, canonista e glossatore, del quale si ignora la data di nascita, nel suo Commentario sulla Legge Ecclesiastica, la Summa Decretorum, scritta nel 1189. Scrive Uguccione che ci sono tre ragioni che ci inducono a dire che è l’uomo e non la donna l’immagine di Dio. La prima è che solo un uomo è stato creato e gli altri sono nati da lui; la seconda perché è dal fianco di Adamo che è stata creata la sua sposa; la terza è che come Cristo è capo della Chiesa, così il marito è capo della moglie (e la regola e la governa). E’ dunque l’uomo, e non la donna, la vera gloria di Dio: perché Dio ha creato l’uomo senza alcuna cosa intermedia e così non è accaduto per la donna; e perché l’uomo rende gloria a Dio direttamente, mentre la donna lo fa attraverso il suo insegnamento. C’è però, Uguccione lo ammette, il complesso caso degli ermafroditi, né uomini né donne, o meglio uomini e donne insieme. La scelta di Uguccione è salomonica: vediamo come si comportano e chi amano frequentare, prima di decidere.

Dovrebbe avere notevole valore storico quanto riferisce allo stesso proposito Giovanni Teutonico, un giurista nato all’inizio del XIII secolo, che ebbe il merito di raccogliere i 71 Canoni del IV Concilio Lateranense (1215) e altri 104 testi relativi al pontificato di Innocenzo IV in una “Compilatio” accompagnata da note esplicative e che non fu mai resa pubblica perché non riscosse l’approvazione del Pontefice: “Le donne non possono avere alcuna responsabilità pubblica…. e non possono gestire alcun ufficio civile. La Natura ha creato le donne perché partoriscano bambini …solo l’uomo è ad immagine di Dio.” E, ribadisce Enrico di Sergusio nei suoi Commentaria, scritti tra il 1250 e il 1253 :”ciò si applica anche alle donne nobili e alle badesse” perché “ci sono ragioni per le quali le femmine sono peggiori dei maschi”.

Un famoso canonista italiano, Guido de Baysio, nato nella seconda metà del XIII secolo e morto nel 1313, un uomo che coprì vari incarichi nell’Università di Bologna prima di diventare “Cappellano del Papa” ad Avignone, nella sua opera principale, il Rosarium Decretorum, della quale sono note numerose edizioni, scrive: ” L’ordinazione è riservata ai membri perfetti della Chiesa. Le donne non sono membri prefetti della Chiesa e non possono ricevere l’ordinazione. Esse non sono ad immagine di Dio, solo gli uomini lo sono”. Questa affermazione è stata confermata negli anni successivi da un noto giurista dell’Università di Bologna, Antonio de Butrio (1338 – 1408) che nei suoi Commentaria scrive: ” E’ conveniente che le donne non possiedano il potere delle chiavi, perché non sono state create ad immagine di Dio. Questo perché la donna deve essere assoggettata all’uomo e servirlo come una schiava e non può esistere un’altra strada”.

D- Il principio dell’inferiorità femminile negli antichi documenti

Questi ragionamenti sulla inferiorità della donna si ispirano comunque a documenti molto più antichi della letteratura religiosa, documenti nei quali la soggezione femminile era trattata come una verità che non poteva essere discussa. Quello che segue è preso da Costituzioni Apostoliche, III,9, scritte tra il 375 e il 380, ma è citato anche in altri testi (ad esempio in Statuta Ecclesiae Antiqua, probabilmente decreti del IV Sinodo di Cartagine del 398, un testo che non sono riuscito a trovare): ” Se la testa della donna è l’uomo ed è costui ad essere designato al sacerdozio non sarebbe giusto abolire la creazione ed abbandonare il capo per andare verso le estremità. Perché la donna è il corpo dell’uomo tratto dalla sua costola e sottomesso a lui, da cui è stata separata per la generazione dei figli. E’ l’uomo la parte più importante della donna essendo il suo capo. Se in base a queste premesse non le permettiamo di insegnare, come le si potrebbe accordare, a disprezzo della natura, di esercitare il sacerdozio? Giacché è l’empia ignoranza dei Greci che li ha spinti a ordinare sacerdotesse per divinità femminili. E’ escluso che questo avvenga nella legislazione di Cristo. Se fosse stato necessario essere battezzati da donne il Signore sarebbe stato battezzato senza dubbio dalla propria madre e non da Giovanni. E quando ci ha inviati a battezzare avrebbe mandato con noi delle donne a questo scopo. Ma in nessun luogo, in nessuna disposizione, in nessuno scritto ha deliberato qualcosa del genere: egli conosceva bene ciò che è conforme alla natura perché egli era contemporaneamente il creatore della natura e l’autore della legislazione”. E il Concilio Trullano (detto anche Quinisesto, perché convocato da Giustiniano II a Costantinopoli per concludere il V e il VI Concilio) per stabilire che le donne non potevano prendere la parola nella Liturgia, scomodava l’apostolo Paolo: “Le donne restino in silenzio, non permetto loro di parlare, stiano in soggezione secondo la legge. E se vogliono sapere qualcosa, interroghino i loro mariti a casa.”.

Che gli uomini di fede e di cultura si impegnassero al limite delle loro possibilità per giustificare lo stato di soggezione nel quale venivano mantenute le donne sotto il cristianesimo è certamente vero e documentato. Se la prendevano persino con il significato delle parole, forzando interpretazioni ed etimologie astruse, anche se raramente raggiungevano la fantasia dei domenicani autori del Malleus Maleficarum (che suggerivano che femina fosse parola composta da fè e minus scrivendo “quia femina semper minorem habet et servat fidem). Mi sembra molto apprezzabile, a questo proposito, l’Etymologiae di Isidoro di Siviglia (560 – 636), non a caso fratello di quattro santi, che scrive che mater è riconducibile a materia, nella quale materia si può riconoscere una porta (valva) attraverso la quale l’uomo (vir) introduce la sua forza (vis) per fornire l’essenza del figlio; senza dimenticare che mulier deriverebbe da mollezza, un attributo fortemente negativo che a quei tempi gli uomini amavano appiccicare alle povere donne.

Ma torniamo ai padri della Chiesa. Per Agostino (354 – 430) il motivo vero per il quale il Demonio aveva tentato Eva e non Adamo stava tutto nel fatto che aveva trovato più semplice rivolgersi alla parte “inferiore” della coppia (De Veritate Dei, 14,11). Dice Agostino: “Mentre la donna accetta come verità le parole del serpente Adamo voleva restare legato alla sua compagna anche nella comunanza del peccato. L’uomo non è così credulone e potrebbe più facilmente essere ingannato cadendo nell’errore di un altro che in un errore proprio.” Ma Agostino in realtà è propenso a credere che Adamo abbia delle attenuanti, un’opinione molto probabilmente influenzata dal fatto che in realtà Eva gli piaceva proprio poco. Ma: “Non invano dice l’Apostolo Paolo che Adamo non fu sedotto, ma la donna. Non per questo però egli fu meno reo, peccò per consapevolezza e coscienza. Quindi anche l’apostolo non dice che non peccò, ma non fu sedotto, però che egli dimostra là dove dice per un sol uomo entrò il peccato nel mondo, e poco dopo più chiaramente simile alla prevaricazione di Adamo. Ed egli volle che si considerassero sedotti quelli che non credono che sia peccato quello che fanno. Ma costui lo seppe. Altrimenti come potrebbe essere vero che Adamo no fu sedotto? Ma egli non conoscendo la severità divina poté essere ingannato in questo: che il peccato fosse veniale.”

Abbiamo qualche perplessità sul rigore logico di questo passo della Città di Dio, ma ci viene in mente che Paolo, nella Lettera ai Romani, parla della morte che da Adamo fino a Mosè regnò sopra a coloro che non peccarono di prevaricazioni simili a quella di Adamo. Perché come per un sol uomo entrò nel mondo il peccato, così per il peccato di un solo uomo entrò nel mondo la morte uguale per tutti. Ildegarda di Bingen (1098 – 1179) nel Liber Scivias (Scito vias Domini) chiarisce la posizione di Agostino: “Il Demonio vide che Adamo era preso da un ardente amore per Eva al punto che avrebbe fatto qualsiasi cosa che lei gli avesse detto”. Ancora una volta il sesso femminile è considerato una sorta di lebbra.

E – Le posizioni antifemminili dei teologi del duecento

I teologi del Duecento, e in particolare Alberto Magno e Tommaso d’Aquino, hanno mescolato le posizioni fortemente antifemminili di Agostino con le teorie maschiliste di Aristotele. Tra gli eruditi era da tempo prevalso il desiderio di trovare una spiegazione convincente della superiorità dell’uomo, che venne anzitutto identificata nella “attività” del maschio e nella “passività” della femmina, un principio già chiaramente esposto da Eschilo nelle Eumenidi. Questa idea che ciò che è attivo ha più valore di ciò che è passivo era inevitabilmente estensibile alla procreazione: l’uomo genera, la donna concepisce, e tanti saluti all’esistenza dell’oocita, una scoperta biologica dalla quale potrebbero derivare persino conseguenze sgradevoli in campo teologico (ad esempio relativamente alla nascita di Gesù, concepito dallo Spirito Santo solo per metà). In realtà, i teologi e i filosofi che intervennero nel XIII secolo su questo tema furono molto più numerosi, ma il carisma di Alberto e di Tommaso li ha fatti in pratica dimenticare. Parliamo dunque, soprattutto, di loro.

Alberto, nato con molte probabilità nel 1206 in Svevia, considerato il maestro di Tommaso, fu, dopo Averroè, il principale commentatore delle opere di Aristotele del quale adottò i principi che usò per rendere sistematica la teologia, che intendeva come esposizione scientifica a difesa della dottrina cristiana. Egli sapeva che molti dei commentatori di Aristotele avevano interpretato in modo del tutto sbagliato le dottrine e le opere del filosofo e decise di seguire gli insegnamenti di Agostino, secondo il quale i difensori della fede dovevano adottare le verità che trovavano negli scritti dei filosofi pagani, verità che erano comunque numerose, e abbandonare – o spiegare in senso cristiano – le ipotesi erronee. Così decise di purificare le opere di Aristotele da panteismo, averroismo, razionalismo e da quant’altro gli sembrava inadatto al suo scopo, che era quello di mettere la filosofia pagana al servizio della verità rivelata.

Sul ruolo della donna nel concepimento Aristotele aveva elaborato una teoria molto attraente, sopravvissuta poi per secoli, e che piacque molto sia ad Alberto che a Tommaso. Egli accettava l’ipotesi secondo la quale ogni principio attivo produce qualcosa di simile a sé: secondo questo assioma in natura dovrebbero essere prodotti solo maschi, perché le forze attive presenti nel seme maschile dovrebbero tendere a produrre qualcosa di altrettanto perfetto, cioè un nuovo maschio. Ne consegue che la nascita di una femmina testimonia di un errore della natura, rappresenta un maschio riuscito male. L’espressione che sarebbe stata utilizzata dai teologi dovrebbe essere mas occasionatus, traduzione di quel “arren peperomenon”, uomo mutilato, che compare nella Generazione degli Animali. Per Alberto, che ne parla nel suo De Animalibus, occasio significa un difetto, qualcosa che non corrisponde alle intenzioni della natura, mentre per Tommaso significa qualcosa che non è previsto ma che alla fin fine deriva da un difetto (De veritate).

Queste sono le note e le osservazioni che si trovano nella maggior parte dei testi di filosofia a proposito della passività femminile e del Mas Occasionatus, ma non tutti sono d’accordo. Non sarebbe comunque corretto se non citassimo un lungo saggio di Michael Nolan (Do women have souls? The story of three myths. Churchinhistory 2005) nel quale lo scrittore cattolico cerca di sfatare queste tre “leggende”.

F- Ma le donne hanno un’anima?

Il libro di Nolan inizia raccontando la storia della “Disputatio”, che a nostro avviso è del tutto priva di interesse considerato il fatto che le intenzioni polemiche di Valens Acidalius erano rivolte mei confronti dei protestanti e non delle donne. Dopo di che spende qualche riga per riassumere le circostanze che hanno chiamato in causa il Concilio di Macon e gli hanno attribuito la responsabilità di aver messo in dubbio l’esistenza di un’anima femminile. Il racconto riguarda un pastore luterano di Hesse, Johannes Leyser (1631 – 1685) che aveva intrapreso, probabilmente per noia, una carriera militare nell’esercito danese; è per lo meno probabile che questa esperienza di vita militare avesse acuito il suo interesse per le donne, come è forse possibile dedurre da una sua pubblicazione ” Polygamia Triumphatrix”, pubblicato a Francoforte nel 1676 e ripubblicato in Amsterdam nel 1682, dedicato alle persone ostili alla poligamia. Nella ricerca di conferme alla sua concezione delle femmine, Leyser chiamò in causa il Concilio di Macon e scrisse che uno dei padri che partecipavano al Concilio aveva insistito sul fatto che era un errore chiamare le donne esseri umani (homines). Gli altri padri presenti avevano considerato la cosa molto importante e aveva deciso di discuterla, per concludere alla fine che alla resa dei conti (e forse con qualche perplessità residua) era conveniente continuare a considerarle degli esseri umani.

Per dimostrare la falsità di questo racconto, Nolan cita le Historiae Francorum, scritte da Gregorio, vescovo di Tours, che riportano l’episodio citato da Leyser. Gregorio parla dei lavori di un Concilio senza mai precisare se si tratti di quello di Macon o di un altro e il suo unico riferimento concreto riguarda il fatto che erano presenti 43 vescovi. I vescovi parlavano latino, anche se per la maggior parte di loro si trattava di una lingua ostica, e alcuni si valessero di una lingua che si potrebbe definire franco-romano. Gregorio si incuriosì quando uno dei vescovi fece una domanda sul significato del termine homo. Ecco la traduzione del brano: ” Si fece avanti un certo vescovo che disse che una donna non poteva essere inclusa nella parola homo, ma accettò le spiegazioni che gli davano gli altri vescovi e non si preoccupò di sostenere le sue ragioni, considerando il fatto che la Bibbia ci dice che quando Dio creò l’uomo ” li creò maschio e femmina e diede loro il nome di Adamo, a significare uomo della terra e chiamò la donna Eva, ma per entrambi usò il termine homo. Nello stesso modo Gesù è chiamato il figlio dell’uomo sebbene egli sia il figlio di una Vergine, cioè di una donna. Essi sostennero i loro argomenti con molte altre parole e il vescovo non fece altre domande”.

Nessuna enciclopedia, nessun testo storico ha attribuito valore a questo episodio, anzi, tutti si limitano a scrivere che il problema non era filosofico, ma solo linguistico. E’ lo stesso testo di Gregorio a confermare la correttezza di questa opinione: le perplessità del vescovo, scrive, riguardavano soprattutto la correttezza del termine “vocitari una donna con il nome uomo” e vocitari è un termine latino che significa “chiamare con il nome di”. La domanda del vescovo era dunque di ordine squisitamente semantico. Del resto, in un altro contesto, Gregorio usa il termine homo secondo il suo significato classico quando, scrivendo della regina Ingoberg, moglie di Etelbergo del Kent, la definisce “homo valde cordata”, donna di grande saggezza. La confusione nacque in gran parte per il fatto che Lsyser tradusse vocitari come se fosse stato scritto vocari, cioè interpretò “esser chiamato col nome di”, come se fosse “esser chiamato”. Naturalmente fece anche alcune cose non proprio corrette: aggiunse un inesistente “non dovrebbero essere chiamate”, parlò di vivaci discussioni, che non figurano da nessuna parte, trasformò un dibattito relativo alla correttezza linguistica di un termine in un litigio sull’appartenenza della donna al genere umano.

Il testo di Gregorio continua con una paginetta di notazioni che riguardano commenti più recenti e che sembrano di scarso interesse. In realtà a molti non parve che ci fossero grandi differenze tra i due racconti, forse non era il concilio di Macon, ma era pur sempre un Concilio, e comunque ci fu un vescovo che pose la questione dell’ umanità della donna. E’ possibile che non conoscesse a sufficienza il latino, o forse gli conveniva in quel momento fingere di conoscerlo poco, fatto si è che diede a molti l’impressione di avere qualche dubbio , anche se con ogni probabilità non era così.

La seconda “leggenda” esaminata da Michael Nolan riguarda Tommaso d’Aquino e il fatto che abbia definito la donna “Uomo difettoso” (mas occasionatus). Nolan riprende con molto scrupolo alcuni degli argomenti affrontati da Tommaso nella sua Summa Theologiae a proposito di come furono creati l’anima e il corpo della prima donna e del primo uomo. Dio, scrive Tommaso, creò le anime di entrambi e il corpo del solo Adamo, Eva fu prodotta a partire da una costola del primo uomo. La materia con la quale Adamo ed Eva furono costruiti poté anche essere diversa, ma entrambi furono produzione diretta di Dio, e Eva certamente non nacque come figlia (o come essere in qualche modo dipendente) di Adamo. Tommaso si chiede il motivo di questa prima produzione asessuata di esseri umani è conclude scrivendo che Dio voleva dimostrare che la riproduzione è un’attività marginale nella vita degli uomini, lo scopo vero dell’homo non è quello di riprodursi ma è quello di capire. La parola latina homo include sia i maschi che le femmine: la riproduzione non è l’elemento fondamentale della vita degli esseri umani, uomini o donne che siano. Secondo la prassi seguita dai teologi medioevali, Tommaso solleva obiezioni alle sue stesse posizioni e cerca di confutarle. Forse Dio non avrebbe dovuto creare la donna all’inizio del mondo? Una obiezione gli giunge direttamente da Aristotele. Secondo costui, il seme maschile, l’elemento essenziale che dà inizio ai mutamenti del complesso materiale elaborato dalla madre da cui si formerà, stadio dopo stadio, il figlio, tende a produrre cose che gli sono simili e la sua intenzione è quella di produrre figli maschi. Sappiamo bene che nascono figlie femmine, che certamente non erano nelle intenzioni del seme maschile. Questo ricorda ad Aristotele le nascite di bambini che non rappresentano una replicazione dei loro genitori, quelli che sono portatori di anomalie congenite. Di qui, la definizione che ha fatto tanto discutere: congenitamente la donna è, in un certo senso, un maschio anomalo. In realtà la parola greca che qui ho tradotto come anomalo ha creato molti problemi agli studiosi: la versione latina usata da Tommaso è occasionatus, ma altri traduttori avevano usato orbatus (orfano, mancante) e laesus (ferito). Ma le traduzioni non si fermano qui: sono state utilizzate anche parole come deforme, imperfetto, disabile, sottosviluppato, mutilato, malformato, congenitamente meno abile, congenitamente anomalo. In ogni caso Aristotele distingueva tra la nascita di una bambina e quella di un feto portatore di anomalie teratologiche. Alberto Magno, fervente ammiratore di Aristotele, cita questa frase “en passant” ma non la commenta: Tommaso la prende tanto seriamente da scrivere per cinque volte che la donna non è un uomo difettoso.

G – La donna è un mas occasionatus

La frase usata di Tommaso è: femina est mas occasionatus: occasionatus è una parola del latino medioevale usata per distinguere tra le cose che sono direttamente e quelle che sono indirettamente o non intenzionalmente determinate. Un fuoco ha lo scopo di produrre calore, ma se la legna è bagnata produce fumo. La pioggia non è la causa diretta ma solo la causa occasionale del fumo. L’alcool non è la causa di un peccato ma l’occasione per commetterlo. Comunque le cose occasionate non sono necessariamente cattive. Così la frase femina est mas occasionatus. suggerisce che la donna è in qualche modo difettosa e può essere usata come un’ obiezione all’asserzione teologica che Dio fece la donna all’inizio del mondo e che le donne risorgeranno con i loro corpi alla fine del mondo. Tommaso deve dimostrare che Aristotele ha torto, ma è anche nella condizione di dover provare una seconda cosa, che se anche Aristotele non avesse torto questo non cambierebbe niente.

Per prima cosa Tommaso cerca di dimostrare che la donna non è prodotta indirettamente o inintenzionalmente, per non dover ammettere che è difettosa e occasionata. Per farlo trova una serie di spiegazioni per la nascita delle femmine, tutte cose che oggi non stanno in piedi, ma che ai suoi tempi potevano aver senso. Poi trova una strada per la seconda risposta, quella che deve ammettere che Aristotele aveva ragione. Immagina l’esistenza di una natura universale e di una natura particolare e dice che questa seconda natura vuole che nascano femmine. Poiché entrambe la nature sono prodotte dalla volontà divina, è Dio che impone la nascita delle femmine, che sono mas occasionatus solo davanti alla natura particolare. E’ una debolezza nella forza attiva del seme o qualche indisposizione del materiale femminile sul quale questa forza agisce o qualche fattore esterno, come i venti umidi del sud, a consentire la nascita delle femmine. Nolan sembra particolarmente fiero di questa trovata di Tommaso, che a noi in realtà è piaciuta poco: ci sembra un gioco di prestigio, quello che conta è che anche per lui la donna è un maschio difettoso, magari voluto così da Dio onnipotente (ma gli onnipotenti non dovrebbero far testo in questi litigi tra intellettuali). In realtà, Tommaso scrive nella Summa che “la donna non doveva essere creata nella prima creazione delle cose” perché, come dice Aristotele, è un maschio mancato e niente di mancato o di difettoso ci doveva essere nella prima istituzione delle cose: dunque la donna non doveva far parte della creazione. Dopo di che Tommaso scrive che la femmina, in quanto natura particolare (cioè confrontata con il maschio), è effettivamente un maschio mancato, ma considerata in se stessa, nella sua natura universale, non è un essere mancato ma è, secondo l’intento naturale, ordinata all’attività generativa, preordinata da Dio, che a questo scopo creò sia il maschio che la femmina. Ma noi, citiamo ancora la Summa, non siamo piante, organismi viventi nei quali il sesso maschile (la virtus activa) e il sesso femminile (la virtus passiva) sono uniti in quanto la loro attività più nobile è la procreazione, ma animali superiori, nei quali la separazione dei sessi fa sì che si possano unire solo per procreare, perché in loro “vi è qualcosa di più nobile del procreare”; così è per l’essere umano, la cui attività più nobile consiste nella conoscenza. Dunque, se nella sua natura universale la donna non è un maschio mancato, questo accade perché è un essere ordinato all’attività procreativa, certamente voluta da Dio, ma che non ha niente a che fare con l’attività più nobile dell’uomo che è quella di conoscere: ed è qui che la femmina, in quanto natura particolare, è un maschio mancato. In fondo è un modo particolarmente complicato e assai poco convincente per spiegare al mondo che la vita della donna si deve consumare tra la stanza da letto del marito, la camera dove giocano i bambini e la cucina,

L’ultimo “mito” preso in esame da Nolan riguarda Aristotele e la frase che gli viene attribuita, quella con la quale descrive le donne come maschi difettosi. Secondo Nolan si tratta di un errore di traduzione, la parola greca indicherebbe invece fenotipi animali diversi da quelli comunemente osservati in animali simili.

Tutta questa elaborata difesa dell’imparzialità della Chiesa cattolica nei confronti del genere femminile è in effetti nebulosa e poco credibile e sembra contare di più sui sofismi che sulla razionalità delle interpretazioni. Ma la maggior parte delle critiche che sono piovute addosso a Nolan si basano proprio sulla lettura diretta degli scritti di Alberto e di Tommaso. Parliamone.

H- Troppi liquidi

Scrive Alberto (Quaestiones super de animalibus): “La donna è meno consona alla moralità dell’uomo perché ha in sé una maggior quantità di liquidi. Caratteristica del liquido è quella di ricevere facilmente e di trattenere male e per poco. Il liquido è un elemento mutevole, ed è per questo che le donne sono volubili e curiose. Quando una donna ha un rapporto con un uomo è molto probabile che desideri stare allo stesso tempo con un altro. La donna non è affatto fedele. Se le dai fiducia, ne sarai deluso. La donna è un uomo mal riuscito e rispetto all’uomo ha una natura difettosa e imperfetta. Perciò è insicura. Quello che non riesce a ottenere da sola cerca di raggiungerlo con inganni demoniaci. Perciò, per farla breve, l’uomo si deve guardare da ogni donna come da un serpente velenoso o da un diavolo cornuto. L’intelligenza volge al bene e la furbizia al male. Pertanto, nei comportamenti cattivi, è più intelligente la donna, perché è più furba dell’uomo. La sua sensibilità la spinge verso ogni male, mentre la ragione sollecita l’uomo verso ogni bene…..La donna ha una natura difettosa e imperfetta ……Il vento del nord dà forza, il vento del sud la toglie, il vento del nord favorisce la generazione dei maschi e purifica completamente l’aria dalle esalazioni stimolandola forza naturale, mentre il vento del sud è umido e carico di pioggia.” Alberto ripete in più occasioni che la donna quello che non riesce a raggiungere da sola cerca di conquistarlo con la falsità e con accordi demoniaci, e ci tiene tanto a ribadire questo concetto che aggiunge :”Se dovessi dire ciò che so delle donne – il mondo si stupirebbe”. E conclude in modo molto semplice – i suoi interlocutori non sempre capiscono tutto quello che lui cerca di spiegare – che la donna è essenzialmente un animale furbo volto prevalentemente al male. Colpa di Eva, che ha lasciato alle donne un triplice male: inclinazione alla concupiscenza, corruzione dell’atto sessuale, eccessivo desiderio di godere dell’atto sessuale. Perché – e qui Alberto (e Tommaso è d’accordo) la pensa come papa Gregorio, morto ormai da più di sei secoli – non c’è piacere senza peccato. Perché il piacere è male, sozzura, castigo, contaminazione, bruttura, turpitudine, morbosità, degradazione volgarità animalità brutalità corruzione vizio infezione, contagio. Perbacco.

I- Non c’è piacere nel peccato

Il fatto che non ci sia piacere nel peccato, in realtà, non dovrebbe stupirci più che tanto, basterebbe che ci ricordassimo che la vita sessuale era priva di piacere persino nei sabba ( dove anche i cibi, apparentemente succulenti e appetitosi, erano completamente privi di sapore): bisognerebbe capire che cosa in effetti attiri tanto la gente in una attività della quale sia i buoni che cattivi danno giudizi sconsolati. Ma andiamo avanti. Anche per Tommaso (Summa Theologiae) le circostanze avverse che impediscono al maschio di generare qualcosa di altrettanto perfetto quanto lui (cioè inevitabilmente un altro maschio) sono i venti umidi del sud che portano abbondanti precipitazioni e fanno nascere esseri umani con un maggior contenuto di acqua. Una ulteriore conseguenza di questa sovrabbondanza di liquidi è che le donne possono essere più facilmente sedotte dal piacere sessuale al quale non sanno opporsi con il dovuto vigore, perché possiedono una forza spirituale minore di quella degli uomini. Su questo punto Tommaso e Alberto la pensano nello stesso modo: la donna è un prodotto dell’inquinamento biologico, e ha in sé anche qualcosa di molto simile a un aborto. Essa non esprime la pura intenzione della natura, che mira alla perfezione (cioè alla produzione di maschi), ma la seconda intenzione, che si accontenta di quello che può derivare dall’errore, anche se è connesso con la senilità, la deformità e la putrefazione. E’ una creazione di riserva, un uomo ostacolato nel suo sviluppo. Ma anche questo errore è programmato da Dio, perché la donna è destinata alla procreazione. Dunque, un’anomalia per i fini più elevati, una necessità per i fini procreativi (e solo per quelli). E con questo la ricerca dell’utilità delle donne, almeno per quanto riguarda Tommaso, si chiude.

Tommaso, sempre nella Summa, cita Agostino senza nominarlo e afferma che l’aiuto del quale parla la Bibbia, quello che la donna dovrebbe offrire ad Adamo, in effetti ha a che fare esclusivamente con la procreazione, per qualsiasi altra cosa un uomo sarebbe stato meglio; è bene ricordare che parole molto simili le aveva già scritte Alberto in più occasioni. In ogni caso – è ancora Tommaso che scrive – non c’è proprio da sperare in qualche sorta di aiuto spirituale, anzi. Al contrario – e qui Tommaso cita due volte Agostino – quando prende contatto con la donna l’anima dell’uomo cade dalla sua altezza sublime e il suo corpo finisce sotto il dominio della femmina in una schiavitù peggiore di ogni altra perché “niente abbassa tanto lo spirito dell’uomo dalla sua altezza quanto le carezze femminili e i toccamenti dei corpi , tutte cose senza le quali un uomo non può possedere la propria moglie”. Perché (Summa contra Gentiles) la donna possiede una minor forza sia fisica che spirituale, l’uomo ha una ragione più perfetta e una virtù più solida.

L – Il difetto di ragione

Chi ritiene che Tommaso sia stato mal interpretato dovrebbe forse leggere con maggior attenzione la Summa, soprattutto quando allude a un difetto di ragione che è altrettanto evidente nella donna quanto lo è nei bambini, nei vecchi e nei malati di mente, una inclinazione all’incontinenza che giustifica tutti i divieti che la società ha imposto all’intero genere femminile, come la proibizione di testimoniare nei processi e nelle dispute relative alle eredità. Ma Tommaso è un vero fiume in piena: ” Il padre deve essere amato più della madre, perché è lui il principio attivo della procreazione” e i figli debbono capirlo e saperlo apprezzare. E se è vero che l’atto coniugale ha in sé qualcosa di vergognoso e provoca il rossore è anche vero che l’uomo ha in esso la parte più nobile ed è perciò naturale che arrossisca di meno, nel chiedere il pagamento del debito coniugale, di quanto dovrebbe arrossire sua moglie (se avesse un minimo di pudore).

Come creatura difettosa, equiparabile a un bambino o a un deficiente, la donna è in grado di partorire, ma non di crescere saggiamente i propri figli e l’educazione spirituale dei bambini può essere affidata solo al padre, che è la loro guida naturale. Tommaso ritiene che il matrimonio debba per forza essere indissolubile visto che la madre da sola non è assolutamente sufficiente a educare la prole. Scrive a questo proposito: “La donna ha bisogno dell’uomo non solo per la procreazione e l’educazione dei figli ma anche come suo signore, perché l’uomo ha ragione più perfetta e “forza e virtù più salde”. Esistono motivi per ritenere che la prima nobiltà ad emergere tra gli uomini sia quella con cui i più forti si attestarono come signori dei più deboli. Insomma, per Tommaso l’uomo deve essere il governatore della donna e per questo deve disporre di forza (per tenerla a freno), e di virtù (per istruirla), esattamente come è tenuto a fare con i suoi figli (Summa contra Gentiles).

Il fatto che le donne siano prevalentemente in una condizione di subordine nei confronti degli uomini impedisce loro di chiedere l’ordinazione sacerdotale, scrive ancora Tommaso (Summa Theologiae); esistono però donne che non si trovano in questa condizione perché hanno fatto voto di castità o sono vedove, unite direttamente a Cristo come sue spose. Perché queste donne non possono diventare sacerdoti? A questa domanda Tommaso non risponde.

Tommaso trova conforto negli scritti di Aristotele anche per quanto concerne un secondo problema, non inferiore per importanza alla disputa sui diritti femminili e sulla posizione sociale della donna: le conseguenze negative della sessualità. Aristotele ha scritto nella sua “Etica Nicomachea” che il piacere sessuale è nocivo per la mente e Tommaso se ne giova per alimentare il proprio pessimismo in campo sessuale. Sempre nella Summa Theologiae cita Orazio (Afrodite sconvolge i sentimenti anche dei più assennati) e ripete in diverse occasioni che il sesso “offusca la ragione” e “assorbe lo spirito” determinando debolezza di mente (mentem enervat). Come vedete, sono timori molto più biologici e sanitari che morali, timori che Tommaso ripete in tutte le possibili occasioni. Anche quando parla della verginità, sempre nella Summa Theologiae, sottolinea che ad essa va il merito di liberare uomini e donne dalla corruzione della ragione provocata dalla vita sessuale.

M – Le promesse della vita virginale

Il privilegio dell’ astensione dalla sessualità e le grandi promesse della vita verginale sono state già oggetto degli elogi mielosi e insopportabili di Agostino, per fortuna non ripresi dai teologi che hanno voluto toccare gli stessi argomenti, ma che sono stati, nel farlo, molto più sobri. Agostino aveva sviluppato la sua teoria sulla ammissibilità del matrimonio esaminando il rapporto tra la vita sessuale e la degradazione dello spirito che discende dal piacere. Tommaso fa sua questa dottrina e indica il piacere dell’atto matrimoniale come peccaminoso in assoluto, ma come punizione che consegue al peccato originale. Il matrimonio è una condizione che comporta perdite e danni: la ragione viene assorbita dal piacere e sono inevitabili le “tribolazioni della carne”. Sposarsi può essere una scelta moralmente accettabile solo quando, a questi danni, esistono adeguati compensi, beni che discolpano, come la nascita dei figli, e in virtù dei quali il matrimonio cessa di essere un atto disordinato e diventa una scelta degna di stima.

Il piacere sessuale, dunque, trasferisce al concepito il peccato originale, ma ciò non vuol dire che chi non prova piacere non sia in grado di trasmetterlo, perché se fosse così i figli delle persone frigide nascerebbero senza peccato originale. In realtà, dice Tommaso, non è il piacere attuale a trasmettere il peccato, ma quello abituale, quello che ha a che fare con la condizione umana e che ci riguarda tutti: il piacere che ciascuno porta in sé, quello che oscura lo spirito e che è presente anche se manca il piacere attuale. Insomma, non c’è proprio salvezza per nessuno: secondo Tommaso l’assenza del peccato originale si applica solo a Gesù e non a sua madre Maria.

In molte circostanze Tommaso usa un linguaggio discutibile, specialmente se parla di donne, di sesso e di matrimonio: Immunditia (sozzura), macula (macchia), fetida (vergogna), turpitudo (turpitudine), ignominia (disonore), deformitas (deformità), morbus (malattia), corruptio integritatis (corruzione dell’integrità), repugnantia (avversione o disprezzo). Afferma che coloro che sono stati ordinati preti provano ripugnanza per l’atto sessuale, che ostacola il pensiero ed è d’intralcio per la miglior rettitudine. Scrive che una delle più odiose conseguenze della lussuria è la femminilizzazione del cuore umano e degrada la femminilità a sinonimo di vergogna. Come Agostino, ritiene che un matrimonio senza rapporti sessuali sia migliore, più “santo”. Considera accettabili solo due tipi di rapporto: quello con intenzione di procreare, nel quale non si cade nel peccato; quello con il quale un coniuge paga un debito in favore dell’altro coniuge che lo richiede, destinato a “tener lontano il pericolo” e a impedire l’incontinenza, che al massimo può essere considerato peccato veniale. Gli altri motivi, anche quelli apparentemente più nobili, conducono tutti miseramente al peccato.

Sempre nel XIII secolo molti altri teologi hanno ribadito questa posizione antifemminile, trovando spesso il modo di inserirla in documenti dedicati al divieto di ordinare sacerdoti le donne. Solo per chi abbia qualche curiosità in proposito citiamo Richard Fishacre, Bonaventura, Henrico de Sergusio, William di Rubio, Richard di Middleton. Ma documenti di questo tipo sono stati scritti anche dopo la fine del Duecento, da Antonio Andreas, (morto nel 1320), Durandres (morto nel 1334), Guido de Bario (il suo Rosarium Super Decreto è stato scritto intorno al 1330), Peter de la Palude (morto nel 1342), Thomas Netter di Walden (morto nel 1430) e Dionisio Cartusiano (morto nel 1471).

Si affronta, in questo periodo, anche una questione molto delicata, quella dell’anima femminile. Che la donna abbia, anche lei, un’anima, su questo almeno sembra che non ci siano dubbi. Abbiamo già raccontato come nel secondo Concilio di Mâcon (585) si fosse parlato di questo argomento, ma solo perché Gregorio di Tours aveva chiesto ai Vescovi se la donna poteva essere definita homo, un problema semantico al quale fu data risposta affermativa: Dio aveva creato l’essere umano (homo) come maschio e femmina quindi homo ha il significato di essere umano. Il quesito è stato probabilmente mal interpretato, ma questo non può giustificare qualche deduzione del tutto fuori luogo.

Dunque, una buona parte delle congetture relative al fatto che le donne non parrebbero essere detentrici di un’anima derivano da tre diversi elementi storici: il fatto che sia stato discusso dal concilio di Macon (cosa sulla quale gravano i dubbi che ho già riassunto); alcune confuse interpretazioni delle opere di Tommaso d’Aquino; l’interpretazione degli scritti di Aristotele. A dire il vero esiste un quarto riferimento, il saggio di Valens Acidalius, ma si tratta di un riferimento scorretto, la Disputatio nova contra mulieres era stata scritta con intenzioni del tutto diverse.

Non tutto quello che usciva dalla penna di Alberto e di Tommaso veniva accettato come oro colato, anche se su alcune cose – come ad esempio sul fatto di non aprire il sacerdozio alle donne – c’era un accordo pressoché universale. Si discuteva invece molto su alcune posizioni che venivano giudicate eccessive, come ad esempio il fatto di considerare la donna un “mas occasionatus”. Non sarà, chiese a questo proposito Guglielmo d’Auvergne, che nel 1249 era Vescovo di Parigi e rettore di quella Università, che non si debba invece parlare dell’uomo come di una femmina perfetta? Per qualche ragione questo intervento del Vescovo Guglielmo fu accolto piuttosto male e il poveraccio fu sospettato di “eresia romantica”, il che significa che dovette difendersi dall’accusa di omosessualità, cosa piuttosto rischiosa persino per uomini di potere.

N – Il corpus Iuris Canonici

Il modo più semplice – e anche certamente il più corretto – per verificare se effettivamente la Chiesa Cattolica considerasse la donna inferiore all’uomo è quello di consultare il Corpus Iuris Canonici, cioè il complesso delle norme canoniche che sono state in vigore dal 1234 al 1918, costituendo la parte fondamentale del diritto generale della Chiesa romana. La formazione di questo complesso di norme è avvenuta gradualmente durante tutto il Medioevo, a cominciare da un’epoca ancora anteriore (probabilmente il 1140) con la redazione di una raccolta di norme intese a superare gli antichi testi, un’opera che Graziano chiamò “Concordia Discordantium Canonum” e che in seguito fu chiamata da tutti il “Decretum Gratiani”. A questa prima compilazione, che per vari motivi non ebbe mai carattere ufficiale, fu aggiunta nel 1234 una grande compilazione di Decretali Pontifici; altre aggiunte furono fatte nel 1298 e nel 1317. La definizione di Corpus Iuris Canonici prese definitivamente piede nelle edizioni a stampa del XVI secolo e particolarmente con quella dei Correctores Romani che è del 1482.

Le norme incluse nel Corpus erano automaticamente “ius commune”, diritto universale, e a differenza dei diritti particolari non avevano bisogno di essere provate da chi le adduceva in Tribunale. Se si tiene conto di queste norme, questa era la condizione giuridica della donna:

• secondo il principio della legge civile, in nessun caso poteva esercitare qualche ufficio pubblico; la legge ecclesiastica la escludeva egualmente da tutte le funzioni e da tutti gli uffici spirituali;

• non poteva ricevere alcuna ordinazione ecclesiastica (e se la riceveva, essa non poteva avere impresso il carattere sacramentale);

• era totalmente soggetta al potere del marito che aveva anche il diritto di punirla;

• era tenuta alla modestia;

• meritava più facilmente dell’uomo il perdono per aver compiuto atti che denunciavano la sua natura fragile e irrazionale; se veniva scomunicata, era dispensata dal recarsi a Roma per l’assoluzione .

Tutte queste norme trovavano giustificazione e ispirazione nella imperfetta natura delle femmine: donna era sinonimo di “persona debole di mente” e la donna doveva questa sua condizione al fatto di non essere stata creata ad immagine di Dio. Era dunque la legge naturale a esigere la sua assoluta soggezione al marito e a imporle una serie di logiche proibizioni.

Vale la pena di ricordare che il Codex Iuris Canonici (approvato nel 1916 e promulgato nel 1918) e il Codice di Diritto Canonico (approvato nel 1983) aboliscono gran parte delle norme che discriminano le donne, ma ne mantengono alcune (ad esempio, le donne sono tuttora escluse dal potere di governo della Chiesa, perché solo i maschi possono ricevere gli ordini sacri).

Ma il concetto che alla fine delle infinite discussioni su quanto avevano detto Aristotele, Alberto e Tommaso risultò essere stato accettato da tutti fu che la donna era un essere inferiore. La maggior parte delle donne non era nelle condizioni di replicare e tacque; pochissime donne decisero di far sentire la propria voce, pur sapendo che non sarebbe stata ascoltata. Anche alcuni uomini si schierarono dalla parte delle donne con differenti motivazioni. Nel giro di un secolo sarebbe iniziata la “Querelle des femmes”, una stagione letteraria che per alcuni si concluse alla fine del XVIII secolo, per altri è ancora viva e vitale, durante la quale in diverse lingue, ma soprattutto in latino, in francese, in inglese, in italiano e in tedesco si ragionò sul ruolo della donna e sulla superiorità dell’uno o dell’altro sesso.

6- L’ISLAM

A- Un’analisi complessa e un confronto impossibile

a – Gerarchia e divisione dei compiti

Abbiamo molto esitato prima di accingerci a scrivere questo breve capitolo sulla condizione della donna nell’Islam: i paesi musulmani vivono una fase di grandi trasformazioni e di altrettanto grandi conflitti e la vivono in modo molto diverso, alcuni tengono come modello il mondo occidentale, altri esitano perché non sanno superare dubbi e perplessità, altri si oppongono con tutte le loro forze a qualsiasi proposta di cambiamento ed esigono dai loro cittadini una assoluta fedeltà al passato e al libro della religione. A parte ciò, come scrive molto giustamente Giovanni de Sio Cesari (http://www.giovannidesio.it – Donna e Islam) la comprensione del ruolo della donna nelle due società non può partire da un confronto di due situazioni disomogenee, né si possono confrontare modelli realmente applicati con modelli solamente teorici e totalmente disattesi nella realtà. Ogni analisi dovrebbe tener conto della diffusione reale di questi modelli, delle condizioni sociali nelle quali vengono attuati e del fatto che si tratti di situazioni comuni o soltanto di eccezioni. In ogni caso – è sempre De Sio che scrive – in tutte le grandi civiltà i rapporti tra i due sessi hanno tenuto conto quasi esclusivamente di due principi, quello delle gerarchie e quello della divisione del lavoro, due principi che sono sempre apparsi come “naturali” e “distinti” e che solo l’Occidente ha ritenuto essere connessi, il secondo essendo generatore del primo. Ebbene questi principi sono statti messi in discussione in Occidente solo in tempi molto recenti e nessuno può dichiarare in buona fede che il dibattito che ne è scaturito sia arrivato a una conclusione: sarebbe dunque per lo meno scorretto pretendere di trovare risolto, nel mondo musulmano, un problema che stenta molto a trovare un qualche tipo di soluzione tra di noi.

b – Dignità, onore e sicurezza

E’ comunque vero che questa non è affatto la risposta dell’Islam alle critiche che gli vengono mosse: nei documenti che abbiamo letto si tende piuttosto a parlare di “mistificazioni” e di “incomprensioni” e si dichiara con grande energia che non solo le accuse sono false, che l’Islam assegna (e ha sempre assegnato) alle donne un ruolo contraddistinto dalla dignità, dall’onore e dalla sicurezza, un ruolo definito nei più piccoli dettagli dal Corano, interprete primo e difensore dei diritti delle donne (e addirittura, in qualche oscuro modo, ispiratore dei movimenti di liberazione femminile); esistono documenti di propaganda islamica nei quali si afferma che solo l’Islam (la sua religione, i suoi principi morali e le sue scelte in campo sociale), solo l’Islam dicevamo può salvare l’occidente dalla disgregazione alla quale sembra condannato. Si tratta di posizioni molto aggressive, sostenute con un forte (se non esagerato) animus pugnandi, che oltretutto non solo non riescono a spiegare alcune realtà molto preoccupanti, come l’oppressione delle donne in Afghanistan o il vergognoso e diffuso crimine delle spose bambine, ma nemmeno alcuni drammatici eventi che hanno rattristato la vita delle donne in vari paesi islamici dell’area mediterranea.

La storia delle donne nei paesi musulmani è in realtà raccontata soprattutto dai testi religiosi e il Corano contiene quasi duecento versetti che hanno per oggetto il ruolo delle femmine nella società e la loro responsabilità sia nella vita familiare che in quella pubblica. La legge di Allah, in effetti, pur considerando uguali (o meglio, pur dichiarando di considerare uguali) gli uomini e le donne, li ritiene diversi per attitudini e per esigenze. Ma è più semplice lasciar parlare direttamente il Corano, sia direttamente che attraverso la voce dei suoi esegeti.

c- Il Corano

Molti commentatori del Corano iniziano i loro documenti insistendo sul fatto che Allah non fa alcuna differenza tra uomini e donne e che, solo per fare un esempio, i due generi vengono trattati esattamente nello stesso modo nella Sura nella quale viene descritta la creazione; la stessa cosa si dovrebbe dire, sempre secondo questi studiosi, per quanto riguarda le potenzialità nella conoscenza esoterica, le capacità cognitive, la consapevolezza etica, il ruolo di vicario di Allah sulla terra. Nemmeno il minimo dubbio sembra sfiorare questi esegeti, la parità tra i due sessi è assoluta. E il ragionamento prosegue, sempre senza essere turbato dal più piccolo dei dubbi: se il fine della creazione dell’uomo e della donna è la sottomissione ad Allah e il conseguimento di una vita virtuosa, anche per questo non esiste alcuna distinzione di genere né esistono differenze di sorta per quanto riguarda, sempre per fare un esempio, il possesso della virtù e dei valori umani di maggiore significato etico come possono essere la fede, la pietà, la compassione e la purezza. Medhi Mehrizi (http:/www.al.islam.org.it/donnacultislam/1.htm) cita a questo proposito un brano del Corano che recita: “In verità i musulmani e le musulmane, i credenti e le credenti, i devoti e le devote, i leali e le leali, i perseveranti e le perseveranti, quelli che fanno l’elemosina e quelle che fanno l’elemosina, i digiunatori e le digiunatrici, i casti e le caste, quelli che spesso ricordano Allah e quelle che spesso ricordano Allah, sono quelli per i quali Allah ha disposto perdono ed enorme ricompensa (33:35)”. Non siamo sinceramente molto impressionati da questa citazione, che ci sembra talmente generica da non avere alcun reale significato. Pensiamo la stessa cosa a proposito dei commenti relativi al fatto che il Corano non considererebbe la donna la sola e vera colpevole del cedimento a Satana e riterrebbe anche l’uomo responsabile di aver ceduto alle insidie malefiche del maligno, una convinzione che si basa su due versetti: ” Oh figlio mio, non raccontare il tuo sogno ai tuoi fratelli, che certamente tramerebbero contro di te! In verità Satana è per l’uomo un nemico evidente “( 12:5); ” Oh figli di Adamo, non vi ho forse comandato di non adorare Satana? In verità è un vostro nemico giurato.” (36:60). Anche in questo caso i riferimenti ci sembrano talmente vaghi che potrebbero essere utilizzati per qualsiasi cosa, inclusa la proibizione di assistere a rappresentazioni sataniste. In realtà il Corano trascura di affrontare questo problema, una lacuna alla quale non si riesce a dare alcun significato.

E’ invece più attendibile il riferimento a un passo del Corano per dimostrare che secondo Allah l’uomo e la donna si completano tra di loro: “Nelle notti di digiuno vi è stato permesso di accostarvi alle vostre donne: esse sono una veste per voi e voi siete una veste per loro. Allah sa come ingannate voi stessi. Ha accettato il vostro pentimento e vi ha perdonato. Frequentatele dunque e cercate quello che Allah vi ha concesso. Mangiate e bevete finché, all’alba, possiate distinguere il filo bianco dal filo nero; quindi digiunate fino a sera. “(2:187). Tenendo conto del contesto – questo passo del Corano descrive i comportamenti che debbono essere considerati leciti durante il periodo del digiuno -ci sembra che il riferimento sia prevalentemente di ordine sessuale, ma potremmo cambiare idea se trovassimo altri versetti del Corano nei quali il fatto di essere “uno l’abito dell’altro” fosse esteso alla libertà, ai diritti e al ruolo sociale ( che poi l’interpretazione, molto azzardata, che ne danno i commentatori).

d – Stessi meriti e stessi premi?

Sempre per rimanere nel tema – che, lo ricordiamo, è quello dell’uguaglianza tra uomini e donne nell’Islam – passiamo ad uno dei punti maggiormente contestati. Nell’esegesi coranica si trova scritto che Allah valuta in modo equanime le buone azioni degli uomini e delle donne e le premia con le stesse ricompense. Il versetto più citato a questo proposito è il numero 195 della terza Sura che così recita: ” Il loro signore risponde all’invocazione: In verità non farò andare perduto nulla di quello che fate , uomini o donne che siate, che gli uni vengono dagli altri….”. Qui però è necessario che ci fermiamo un momento perché, trattandosi di premi da consegnare ai fedeli, ed essendo il premio certamente più importante e ambito il giardino del paradiso, di questo paradiso bisogna che parliamo un po’.

Il paradiso islamico, o Janna (Giardino), è la dimora finale e definitiva dei timorati di Dio, e questo è quanto afferma il versetto 35 della tredicesima Sura coranica. Il nome deriva dall’espressione ebraica Ğan Eden, Giardino dell’Eden, della quale Janna è semplicemente una abbreviazione. Esiste anche un secondo termine per indicare il paradiso, Firdaws, di derivazione persiana e con lo stesso significato, ma è assai meno utilizzato dell’altro. L’escatologia islamica prevede che dopo la morte ogni essere umano entrerà nella sua tomba dove resterà fino al giorno della resurrezione, fissata da Allah nel giorno del Giudizio, la cui data è ignota agli uomini. Nella tomba, quel giorno, riceverà due angeli, Unkar e Nakīr, che lo interrogheranno per accertare la sua retta fede e, in caso sfavorevole, per sottoporlo al “supplizio della tomba” (” e lo colpiranno con un martello di ferro ed emetterà un gemito che verrà udito da tutto ciò che gli starà vicino, tranne che dagli jinn e dagli uomini”, Bukhari,1374) una punizione considerata tra le più atroci immaginabili che verrà somministrata a tutti i peccatori che non si saranno pentiti, compresi i bambini.

La descrizione del Giardino la possiamo leggere nel versetto 35 della Sura 13: ” Il Giardino promesso ai timorati di Dio assomiglia a qualcosa sotto alla quale scorrono i fiumi, e i suoi frutti e la sua ombra saranno perenni. Questa sarà la dimora finale di coloro che temono Allah, mentre la dimora finale degli empi è il fuoco”. In questo paradiso i fedeli defunti verranno assegnati a differenti livelli, il più elevato dei quali è quello a cui sono assegnati i Profeti, i martiri e i musulmani che hanno dimostrato la fede più limpida. I beati dimoreranno in “Giardini di delizie, dove avranno una grande provvigione di frutta e saranno colmati di onori, sui giacigli rivolti gli uni verso gli altri. Girerà tra di loro una coppa di bevanda sorgiva , chiara e deliziosa da bersi, che non produrrà né ubriachezza né stordimento, tra fanciulle dagli sguardi casti e dagli occhi grandi, simili a uova nascoste” (Corano, 37, 40-50). E ” colà, comodamente appoggiati chiederanno abbondanza di frutta e bevande e staranno vicine a loro quelle dalle sguardo casto, coetanee “( Corano, 38, 49-52) “circoleranno tra loro vassoi d’oro e calici e colà ci sarà quello che desiderano le anime e la delizia degli occhi, e vi rimarrete in perpetuo” (Corano 43, 71-73). I timorati di Dio ” vivranno in un luogo sicuro, vestiti di sete e di broccati” (Corano, 44,51-55) e, come beati “dimoreranno in giardini pieni di fonti d’acqua” (Corano, 51,15) riuniti “con quanti dei loro discendenti avranno creduto in Allah” (Corano, 52,21). Saranno nutriti “di frutta e di carne ” (Corano, 52,22), serviti da giovani “come perle nascoste”(52,24). “I timorati saranno tra Giardini e ruscelli, in un luogo di verità, presso un Re onnipotente”( 54,54-55). Lo stesso Paradiso è descritto anche nella Sura 55 (41-78) insieme alle punizioni che sono previste per gli empi: “37. Quando si fenderà il cielo e sarà come cuoio rossastro, 39. In quel Giorno né gli uomini, né i demoni, saranno interrogati sui loro peccati. 41. Gli empi saranno riconosciuti dai loro segni e afferrati per il ciuffo e per i piedi. 43. [Sarà detto loro:] “Ecco l’Inferno che i colpevoli negavano!” 44. Vagheranno tra esso e il magma ribollente. 46. Per chi avrà temuto di presentarsi [al cospetto] del suo Signore ci saranno due Giardini. 50. In entrambi sgorgano due fonti. 52. In entrambi due specie di ogni frutto. 54. Saranno appoggiati, [i loro ospiti], su divani rivestiti internamente di broccato, e i frutti dei due giardini saranno a portata di mano. 56. Vi saranno colà quelle dagli sguardi casti, mai toccate da uomini o da demoni. 58. Saranno simili a rubino e corallo. 60. Qual altro compensiamo del bene se non il bene? 62. E [ci saranno] altri due giardini oltre a quelli. 64. Entrambi di un verde scurissimo. 66. In entrambi due sorgenti sgorganti. 68. In entrambi frutti, palme e melograni. 70. E [fanciulle] pie e belle. 72. E fanciulle dai grandi occhi neri* ritirate nelle loro tende. 74. Che nessun uomo o demone mai han toccato. 76. Staranno appoggiati su verdi cuscini e meravigliosi tappeti. 78. Sia benedetto il Nome del tuo Signore, colmo di Maestà e di Magnificenza.” E la descrizione sarà ripresa nella Sura 56 (13-14 e 25-26) e nella Sura 83: “Sui loro volti si vedrà il luminoso fiorire della gloria”(24) e si abbevereranno di un nettare puro, suggellato con suggello di muschio , un nettare mescolato con Tasnîm, alla stessa fonte dei cherubini (25-28).

Fin qui, qualche perplessità la crea solo il riferimento ai martiri (non è che saranno premiati in modo particolare?) nella prima citazione della presenza di fanciulle dei grandi occhi neri, per le quali si può cominciare a immaginare un ruolo particolare, visto che non sembra che facciano parte del pubblico, ma dei premi. E in realtà il sospetto diventa certezza quando si legge, nella Sura 56, la descrizione di queste fanciulle:” Le abbiamo fatte vergini, simili a perle nascoste, compensiamo per quel che avran fatto” (22-24). Adesso le cose sono chiare: nel Paradiso ci sono giovani donne vergini, amabili e coetanee, fanciulle dagli occhi profondi, compenso per le gesta che i martiri hanno compiuto in vita. Ma qualcuno avrà chiesto a queste giovani donne se sono d’accordo a interpretare la parte del “guiderdone”? E quale premio analogo viene immaginato per le brave musulmane che hanno speso la vita nella preghiera e nel sacrificio e che un premio, perbacco, se lo meritano?

B- Le Houri

a- Donne di natura angelica che fanno compagnia ai beati

Se volete saperne di più su queste vergini dovete cercare la parla Houri (Urì nei dizionari italiani) sui vostri testi. Nel Conciso Treccani troverete che la parola indica “donne di natura angelica che fanno compagnia ai beati nel paradiso musulmano”; In Sapere.it la definizione è: “fanciulle destinate al godimento di coloro che hanno meritato il paradiso islamico. Costituiscono una perfetta immagine della donna quale oggetto di piacere, e tuttavia pura, di una purezza addirittura fisica. Esse tornano ad essere vergini dopo l’accoppiamento e le loro carni sono di un biancore che sfiora la trasparenza. Secondo una credenza ogni beato ha diritto a tante urì quanti sono i digiuni effettuati durante il Ramadan e quante sono le buone opere compiute”. Potremmo continuare, le definizioni si assomigliano tutte; a un certo momento però cominciano a comparire due novità: la prima riguarda il numero di Houri assegnate ad ogni martire (o bravo musulmano), fissato in 72. La seconda si riferisce invece all’esistenza di qualcosa di analogo per le fanciulle che abbiano vissuto una vita coerente con la loro fede, schiavi o paggi definiti come ghuläm. Sul primo problema, niente da eccepire, immagino che il numero sia adeguato e possa soddisfare qualsiasi tipo di esigenza; circa al ghuläm, la nostra ricerca – ma non c’è bisogno di ricordarvi che non siamo esperti di sociologia araba – ci ha consentito solo di trovare un riferimento alla omosessualità: i partner dei sodomiti vengono chiamati murd muäjirün quando vengono pagati; se non sono pagati sono definiti amräd (imberbi) se sono molto giovani, oppure ghuläm se sono giovani ma non imberbi e hanno qualche esperienza. Del resto ci sembrerebbe molto difficile da accettare il fatto che una brava ragazza che si è guadagnata onorabilità e ricompense ultraterrene con un comportamento casto e modesto, se la spassasse poi in Paradiso con 72 giovani, oltretutto esperti e non imberbi.

Se volete saperne ancora di più a proposito di queste maliose Hourì dovete andare a curiosare nei libri di esegesi coranica e soprattutto in quelli che analizzano gli hadith, le narrazioni sulla vita del profeta Maometto che fanno parte della Sunna, la seconda fonte della legge islamica dopo il Corano. E’ bene ricordare che ogni hadith è composto da una catena di trasmettitori – garanti che risalgono indietro nel tempo fino al primo trasmettitore della tradizione – e che questa catena in qualche caso viene considerata debole o addirittura inaffidabile.

b – Belle, modeste, pure, caste, voluttuose, splendide

Intanto è bene precisare che il termine Houri ( hur o hurijah) indica, in arabo, una compagna di bell’aspetto, modesta e pura, che abita nel Paradiso; nel termine, per quanto è possibile capire, non c’è un evidente riferimento sessuale. Significati ulteriori identificano queste vergini come “caste, voluttuose, splendide, con magnifici occhi, particolarmente alte”. La tradizione araba ha aggiunto una serie di caratteri, alcuni dei quali piuttosto volgari, che non trovano alcuna relazione con l’etimologia della parola (che ha a che fare soprattutto con la bellezza e le caratteristiche degli occhi). Tra gli attributi più comuni, quello di non avere necessità fisiologiche, di non mestruare, di poter avere gravidanze di brevissima durata (ore!) che non lasciano alcuna traccia nel corpo. Oltre alle citazioni precedenti, nel Corano è scritto espressamente “daremo loro in sposa fanciulle dai grandi occhi” (44,54),”ritirate nelle loro tende (55,72), che queste fanciulle “hanno guardi casti” e ” non sono mai state toccate da uomini e da demoni ( 55,56).

c – Quante mogli? Due o settantadue?

Negli hadith di Muhammad al-Bukhari (810-870) le Houri sono citate almeno due volte: ” Ciascuno avrà due mogli, scelte tra le Houri, che saranno così belle, pure e trasparenti che il midollo delle ossa delle loro gambe potrà essere visto attraverso la pelle” ( Sahih al-Bukhari, 5); ” non avranno necessità fisiologiche né secrezioni nasali, i loro pettini saranno d’oro e il loro sudore odorerà di muschio…. Le loro mogli saranno Houri… (idem, 55,544).

Ed ecco cosa scrive Muslim ibn al-Hajjaj Nishapuri (821-875):” Mometto riferì che alcuni rimasero con un sentimento d’orgoglio e altri invece discussero se nel Paradiso ci sarebbero stati più uomini o donne. A questo proposito Abu Huraisa disse: le prime persone che entreranno in Paradiso avranno volti brillanti come una luna piena nel mezzo della notte e il gruppo successivo avrà volti come le stelle in cielo. Ognuno di loro avrà due mogli e non ci saranno uomini senza mogli in Paradiso ( 40,6793).

Questi due hadith sono considerati molto affidabili, cosa che non è certamente vera per gli hadith di Al-Tirmidhi (824-892) nei cui scritti esistono riferimenti ripetuti alle Houri del Paradiso. In uno di questi scritti si racconta di una vecchia che chiede al Messaggero di poter entrare in Paradiso e costui prima glielo nega, poi la consola dicendole che, è vero, le vecchie donne non entreranno in Paradiso nello stato in cui si trovano, ma saranno tutte trasformate in giovani vergini e come tali, se lo meriteranno, sarà loro concesso di entrare. Il secondo hadith è più interessante perché cita quelle famose 72 vergini delle quali si è molto chiacchierato: “Maometto fu udito mentre diceva: la minor ricompensa per il popolo del Paradiso sarà una dimora con 80.000 servi e 72 mogli e la dimora sarà coperta da una cupola decorata con perle e rubini e sarà grande quanto la distanza tra Damasco e San’a”. ( The feature of Heaven as described by the Messenger of Allah). Il terzo hadith descrive in modo fantasioso la bellezza di queste vergini e parla del loro “corpo trasparente”, e ” del midollo delle ossa visibile come le linee interne delle perle e dei rubini ” che sembra “vino rosso in un bicchiere di cristallo” E poi aggiunge:” Sono di color bianco (sottinteso, le Houri) e non soffrono delle seccature ordinarie delle donne ordinarie , le mestruazioni, la menopausa, i bisogni corporali, le gravidanze. L’Houri è una giovane donna, con grandi seni rotondi e aguzi che non tendono a cadere. Vive in splendidi palazzi” (Al-Tirmidhi , Jami al – Tirmidhi).

Ci sono molte altre citazioni possibili, (ma molte di esse stanno perdendo progressivamente di credibilità agli occhi degli studiosi dell’Islam) che sono attribuite a Ibn Maja, Sahabah and Tablun, Abu Huraira, Abu Ubayda, Damrah bin Habibi, Al- Hasan AlBasri, Ibn Sirin. Queste citazioni aggiungono poche novità a quanto abbiamo già scritto: forse la più interessante riguarda il fatto che i fedeli erano convinti che le Houri sarebbero intervenute presso le loro mogli terrene vietando loro di seccarli e disturbarli e dicendo: ” L’uomo che ti ha sposata presto ti lascerà e raggiungerà la sua nuova sposa in Paradiso”. In ogni caso non c’è alcun riferimento a premi analoghi per le donne virtuose che raggiungono il Paradiso, sembra proprio che la ricompensa sessuale riguardi solo i martiri e i veri credenti .

Su questa diatriba relativa all’esistenza delle 72 vergini nel Paradiso musulmano è intervenuto Sheikh Abdul Hadi Palazzi ( Guida dell’Istituto culturale della comunità islamica italiana:http://www.amislam.com /vergini.htm): secondo l’Islam vi sono 72 mogli per ciascun credente che è ammesso in Paradiso. La prova è nell’ hadith trasmesso da at-Tirmidhi nella raccolta Sunan; la medesima tradizione è altresì citata da Ibn Kathir nel suo tafsir (Commentario coranico): “Ha riferito Daraj Ibn Abi Hatim che Abu al-Haytham Abdullah Ibn Wahb ha narrato da Abu Sa’id al-Khudhri che ha sentito il profeta Muhammad (su di lui la benedizione di Allah e la pace) dire: la minima ricompensa per gli abitanti del Paradiso è una dimora con ottantamila servi e settantadue mogli. Che le 72 mogli siano vergini è provato dal ayah74 della stessa Sura il cui senso è: ne uomo ne jinn le ha mai toccate prima”.

In realtà il numero di queste vergini non è stabilito dal Corano, ma è parte della tradizione religiosa, la cosiddetta Diin. Come scrive qualche commentatore del Corano, sia il libro sacro che gli hadith possono essere letti come una sintesi di spirito ascetico e di passione fisica. Niente dunque di strano se il giardino del paradiso è un luogo di delizie nel quale tutti gli appetiti, compresi quelli sessuali, sono centuplicati. E ‘molto probabile oltretutto che questa retribuzione, vissuta in chiave ultraterrena, fosse attesa dai credenti come conferma tangibile del loro buon comportamento.

d- E le altre donne?

Dobbiamo ammettere che questa descrizione del paradiso di Allah è insieme curiosa e stimolante, e tale appare a molti commentatori del Corano. Muhammad Ibn Jarir al-Tabari ritiene che tutte le donne, sia quelle giovani, pie e virtuose che quelle vecchie e malandate, siano destinate a resuscitare come giovani vergini e a restare eternamente giovani nella loro nuova dimora. Dal canto suo Ibn Kathir insiste molto sulla verginità di queste giovani donne e scrive che Maometto stesso aveva dichiarato che nel Paradiso esse avrebbero avuto reali rapporti sessuali con il loro nuovo marito (The reward of Those on the Right After, 2000). Questo della verginità delle Hourì ha molto preoccupato gli interpreti del Corano, anche perché non v’è dubbio sul fatto che si tratti di una prerogativa fragile, destinata a scomparire dopo il primo rapporto. Non sono quindi mancati i sostenitori di una verginità perenne che hanno sostenuto che le Houri ritornavano miracolosamente vergini terminato ogni rapporto sessuale. Si è così configurata una situazione piuttosto curiosa, degna del canovaccio di un film a luci rosse, nella quale uomini con il pene costantemente eretto laceravano senza tregua imeni che rapidamente ritornavano integri: la fatica di Sisifo, l’interprete dell’operosità vana.

Qualcuno in realtà sostiene che il numero delle mogli da assegnare ai martiri non sia stato mai accertato e che la catena di trasmissione dell’hadith che lo ha precisato sia debole; altri sono convinti che non si dovrebbe trattare di mogli bensì di angeli. A questo proposito esiste persino una ipotesi secondo la quale non si tratterebbe di vergini ma di un errore di traduzione, la frase originale indicherebbe soltanto grappoli d’uva.

e- Il paradiso musulmano e gli Hymns on Paradise di Ephram il siriano

A questo punto viene naturale chiedersi a cosa si ispira in realtà la visione del paradiso musulmano. Certamente Maometto doveva aver visto miniature e mosaici cristiani che rappresentavano i Giardini dell’Eden e doveva aver interpretato a suo modo gli angeli, creature che secondo il cristianesimo non hanno sesso e che lui invece descrisse come giovani uomini e giovani donne. Un’altra possibile influenza sulla visione fantastica del profeta fu probabilmente esercitata dall’opera di Ephram il siriano (306-373), Hymns on Paradise, scritto in siriaco, un dialetto aramaico, culturalmente e semanticamente fondante nello sviluppo della lingua araba che lo sostituì solo alla fine dell’VIII secolo e che certamente era imparentato anche con l’ebraico. Lo stesso Cristo avrebbe parlato questa lingua, se sono autentiche le ultime parole da lui pronunciate ( Eloì, Eloì, lemà sabactani?, cioè Dio mio, dio mio, perché mi hai abbandonato) che sono proprie di quella lingua. Questa questione del siriaco che veniva parlato – dalle persone colte – prima dell’arabo deve avere incuriosito molte persone ed è stato quindi accolto con molto interesse un libro intitolato Die Syro-Aramäische Lesart des Koran (L’interpretazione siro-aramaica del Corano) di autore ignoto (la firma e di un certo Christoph Luxenberg, chiaramente uno pseudonimo) pubblicato in tedesco nel 2000 e in inglese nel 2007, nel quale l’autore intende dimostrare come molte difficoltà di interpretazione in cui ci si imbatte nella lettura del Corano scompaiono di colpo se solo si assegna a un certo numero di parole il significato che loro compete nella lingua siriaca invece di considerarle arabe. Così facendo, e con grande sgomento di molti futuri martiri musulmani, cambia completamente il significato di una intera serie di “Surat” ( la 44, la 52, la 55 e la 61) e le bellissime vergini quasi trasparenti con grandi occhi neri e sempre pronte alla bisogna diventano grappoli di uva bianca di trasparenza (ancora) cristallina: insomma, niente più Houri, il paradiso ridimensiona i propri doni e si limita a offrire più o meno le stesse cose che un bravo martire può trovare in un buon ristorante. Ciò soprattutto (ma non posso entrare in particolari per evidenti ragioni) perché hur in siriaco è un aggettivo femminile plurale che significa bianco e il contesto fa ritenere sottintesa la parola “uva”. Nello stesso modo gli efebi descritti nel versetto 19 della 76ma Sura rappresentano una cattiva traduzione di una espressione siriaca che fa riferimento a bevande ghiacciate, una promessa che contrasta giustamente con la minaccia di bevande bollenti destinate ai reprobi, agli infedeli e ai dannati che si trova lì presso.

C- Occasioni, diritti e doveri

Riprendiamo adesso l’analisi dei riferimenti e delle interpretazioni usate dagli esegeti del Corano per dimostrare che l’Islam non è mai misogino e che, al contrario, offre a uomini e donne, con grande equità, le stesse occasioni e gli stessi diritti e doveri. Un primo riferimento viene fatto al versetto 19 della Sura 4 e riguarda l’invito fatto agli uomini di trattare gentilmente le donne: “Comportatevi verso di loro in modo conveniente e se provate avversione per loro ricordate che potreste provare avversione per qualcosa che Allah apprezza grandemente”. Più coerente con i propositi di questi studiosi è invece il riferimento al versetto 12 della Sura 60, che recita così:” Oh Profeta, quando vengono da te le credenti a stringere il patto e giurano che non assoceranno ad Allah alcunché, che non ruberanno, che non fornicheranno, che non uccideranno i loro figli, che non commetteranno infamie con le loro mani o con i loro piedi e che non ti disubbidiranno in quello che è giudicato conveniente, stringi questo patto con loro e implora Allah di perdonarle. Allah è perdonatore, misericordioso”. E’ un versetto interessante in quanto attribuisce una certa importanza al ruolo delle donne, ma lo fa solo, se leggete con attenzione, se sono disposte a umiliarsi: ci sembra però veramente difficile interpretarlo come fa, ad esempio, Medhi Mehrizi (Le donne nella cultura Islamica. Al-Islam.org) che lo considera una prova del pari diritto attribuito da Dio agli uomini e alle donne per quanto concerne stipulare alleanze, stringere accordi, giurare, votare, eleggere persone.

Insomma, molti commentatori ritengono che le prove di questa equità del mondo islamico nei confronti dei due sessi sia basata su letture molto parziali di documenti in realtà insignificanti. Ne citiamo altri:

– il Corano intima ad entrambi i sessi di essere pietosi e puri;

-l’Islam condanna duramente ogni tipo di discriminazione;

– il Corano impone il rispetto per entrambi i genitori e soprattutto per la madre.

Ed ecco i versetti coranici chiamati in causa nell’ordine in cui li abbiamo citati: “Dì ai credenti di abbassare lo sguardo e di essere casti. Ciò è più puro per loro, Allah ben conosce quello che fanno. E dì alle credenti di abbassare i loro sguardi e di essere caste e di non mostrare, dei loro ornamenti, se non quello che appare”(20,30-31);

” Quando si annuncia a uno di loro la nascita di una figlia il suo volto si adombra e lui soffoca la sua ira. Sfugge alla gente per via della disgrazia che gli è stata annunciata: deve tenerla nonostante la vergogna o seppellirla nella polevere? Quanto è orribile questo modo di giudicare!” ( 16,58-59).

” Abbiamo ordinato all’uomo la bontà verso i genitori: sua madre lo ha portato con fatica e con fatica lo ha partorito” ( 46,15); “Abbiamo imposto all’uomo di trattare bene i suoi genitori. Lo portò sua madre di travaglio in travaglio e lo svezzò dopo due anni”( 31,14).

Naturalmente, poiché la cultura islamica si capisce anche attraverso le tradizioni profetiche, alcuni teologi citano una serie di hadith. Eccone una rapida selezione:

Le donne sono uguali agli uomini ( Musnad, Ahmed Ibn Hanbal, 6,256):

Il paradiso giace sotto i piedi della madre ( Kanzu – l-Ummal, 16,261);

Il paradiso giace sotto i piedi delle donne ( Tabaqat al-Kubra, ibn Sa’d,2,272);

I migliori di voi sono quelli che trattano bene le donne ( Sunan, ibn Maj’ah, 2,636);

Gli uomini generosi trattano bene le donne , gli sgarbati e i vili mancano loro di rispetto (Storia di Damasco, 7.50).

Come potete vedere si tratta di dichiarazioni molto ingenue, che prestano il fianco a facili critiche.

D- La famiglia estesa e la famiglia patriarcale

Molta attenzione viene riservata, in molti dei documenti che abbiamo consultato, ai problemi della famiglia, considerata generalmente nelle sue principali caratteristiche di “famiglia estesa” e di “famiglia patriarcale”. I vantaggi della famiglia estesa sono vari e indiscutibili e sono vantaggi ai quali gran parte dell’occidente è stata costretta a rinunciare. La famiglia estesa è più attenta ai comportamenti devianti, permette (in teoria) alle donne di lavorare fuori di casa o di entrare in qualche tipo di carriera (cosa assai poco probabile comunque nel mondo arabo), consente ai bambini un buon grado di socializzazione, pone rimedio – entro limiti precisi – ai problemi che possono nascere a causa di possibili conflitti tra generazioni (cosa che avviene purtroppo solo a seguito di interventi autoritari), risolve in modo più umano problemi come quelli posti dall’assistenza agli anziani che vengono aiutati a superare la sofferenza determinata dalla solitudine. Nel mondo occidentale la famiglia estesa era la norma nella società contadina dell’inizio del XIX secolo e si disgregò quando una parte consistente dei lavoratori terrieri si inurbò per andare a lavorare nelle fabbriche. Vivendo nelle città, queste famiglie dovettero lasciare dietro di sé molti dei componenti, e rassegnarsi a diminuire drasticamente il numero dei figli: anche la loro madre doveva lavorare e i figli non avevano più il valore che veniva precedentemente assegnato loro. Via via che anche i paesi musulmani dovranno affrontare il problema dell’industrializzazione anche questi residui privilegi dovranno per forza scomparire.

Il Corano affida all’uomo il potere di governare la famiglia e di prendere decisioni e lo fa in modo molto esplicito e senza lasciare alcuno spazio a decisioni contrarie: ” Gli uomini sono preposti alle donne , a causa della preferenza che Allah concede agli uni rispetto alle altre e perché spendono per esse i loro beni. Le donne virtuose sono le devote che proteggono in segreto quello che Allah ha preservato. Ammonite quelle delle quali temete l’insubordinazione, lasciatele sole nei loro letti, battetele. Se poi vi ubbidiscono non fate più nulla contro di esse. Allah è altissimo, grande” ( 4,34-36). In realtà questo è l’unico versetto del Corano che vale la pena citare se si affronta il problema della condizione femminile nell’Islam perché ci dice in poche parole tutto ciò che in effetti vogliamo sapere. Ci dice che l’uomo è migliore della donna e ci dice che su questa affermazione non si può eccepire, perché questa è la opinione di Allah; ci dice che le donne virtuose debbono accettare questa dipendenza e questa inferiorità e che le altre, quelle “non devote”, debbono imparare a star zitte perché corrono il rischio di essere picchiate e ridotte alla ragione (secondo il principio per cui sberle e reclusione sono educative).

Si è cercato da varie parti di togliere peso dal corpo di quella brutta espressione, “battetele” e c’è scritto da qualche parte che Maometto, interrogato in merito a questa forma di punizione, la sconsigliasse con fermezza, fermezza relativa dobbiamo aggiungere leggendo che in quelle occasioni il Profeta consigliava di risparmiare il volto e eventualmente di fasciarsi la mano con un fazzoletto per lasciare segni meno evidenti.

In alcuni documenti si cerca di negare che questi versi comportino la sottomissione della donna perché i termini usati non sono tali da far pensare a un comportamento dispotico, ma solo a una forma di protezione e di benevolenza, un ruolo di sostegno affettuoso e certamente non di dominio tirannico. Lasciamo a chi legge il compito di giudicare se il diritto di battere la propria moglie si possa rivestire di questi panni mansueti e ci limitiamo a ricordare che i musulmani che sono venuti a vivere in Italia, e che di tanto in tanto vengono condannati per le violenze alle quali hanno sottoposto mogli e figlie (violenze che spesso si sono concluse tragicamente) si sentono vittime di un sopruso e cercano invano di spiegare allo sbalordito Magistrato che in realtà si trattava solo di adempiere al faticoso compito educativo che spettava loro per diritto e per dovere. In realtà solo pochi tra i nostri Magistrati leggono il Corano.

Il vero problema è che in alcuni testi – come nel già citato documento ” La donna nella Società Coranica” – gli autori cercano di spiegarci che il disorientamento e la dissoluzione della nostra povera società occidentale potrebbero trovare rimedio solo se accettassimo di regolare i nostri rapporti sociali, inclusi quelli tra uomo e donna, secondo le indicazioni del Corano. In altri termini l’unica possibilità di salvezza della nostra morente civiltà ex cristiana sarebbe quella di accettare di trasformarci in una società neocoranica.

E- Il matrimonio

Poiché stiamo scrivendo a proposito dei rapporti tra uomo e donna nella società islamica, troviamo opportuno dire qualcosa anche a proposito del problema del matrimonio. Le leggi ne riconoscono due tipologie, quella del cosiddetto Nikah (il contratto a tempo indeterminato, che legalmente entra a far parte della categoria delle vendite) e quella del Mut’a, un contratto a tempo determinato (ma rinnovabile) che rientra invece nella categoria degli affitti e delle locazioni e che ha sostituito, almeno in una parte del mondo islamico, la pratica della prostituzione. Si tratta comunque di un contratto civile che non ha alcun valore sacramentale e che regola tutte le condizioni di vita con clausole ben definite. Esistono anche in questo caso regole diverse per l’uomo e per la donna: quest’ultima, ad esempio, non può sposare un uomo che non sia musulmano e non può contrarre matrimonio senza interpellare il suo wali, che è generalmente il padre o un fratello. Ciò perché in linea di principio ogni donna è sottoposta ad una autorità maschile, rappresentata dal padre o da un fratello fino a che rimane in famiglia e dal marito dopo il matrimonio. E’ esclusa da questa tutela la donna nubile non più giovane che può gestirsi interamente da sola.

La poligamia è lecita ed è prevista dal Corano (versetto 3 della Sura 4) con una precisa limitazione: gli uomini che temono di non riuscire ad essere giusti con le mogli ne sposino una sola e semmai sposino le ancelle che sono in loro possesso. In questa stessa Sura è scritto che i comportamenti indecenti delle mogli, una volta provati, possono essere punti severamente dallo stesso marito: “Chiudetele in casa fino a che non le coglierà la morte o Dio aprirà loro una via” (4,15). A tutt’oggi nei paesi islamici vige la pena di morte per gli adulteri, e quando non lo prevede l’ordinamento giuridico nazionale ufficiale sono i tribunali locali ad emettere la sentenza. Per raggiungere la prova della colpevolezza, sono necessari quattro testimoni concordi. Pur prevedendo le medesime pene per maschi e femmine, di fatto le vittime della lapidazione sono quasi esclusivamente le donne. La lapidazione viene praticata con l’uomo interrato fino alla vita e la donna fino al petto; le pietre non debbono essere tanto piccole da risultare innocue né tanto grandi da por fine rapidamente alla sofferenza del condannato. Abbiamo cercato su internet fotografie di donne lapidate e ne abbiamo trovato molte, tutte, francamente, orribili; non siamo invece riusciti a trovare nemmeno una foto di un uomo sottoposto alla stessa pena. Nemmeno una.

F – L’adulterio

E’ molto importante, per spiegare meglio il ruolo che ha la fustigazione nella punizione del reato di adulterio, esaminare meglio un episodio che è raccontato in modo un po’ oscuro nella Sura 24, e che si riferisce alla voce secondo la quale Aisha, la moglie favorita di Maometto, avrebbe commesso adulterio. La rivelazione divina che troncò e fece fallire le manovre contro l’Inviato di Allah e la sua famiglia, è fissata a chiare lettere nel Corano, lieta novella e monito per tutti gli uomini. Nei versetti 11-20 vengono redarguiti violentemente alcuni fedeli che avevano diffuso una calunnia contro una donna onesta senza produrre quattro testimoni e per aver dato credito a una ovvia calunnia.

“Questa è una Sura che abbiamo rivelato e imposto e per mezzo della quale abbiamo fatto scendere segni inequivocabili, perché possiate comprendere. Flagellate la fornicatrice e il fornicatore, ciascuno con cento colpi di frusta e non vi impietosite [nell’applicazione] della Religione di Allah, se credete in Lui e nell’Ultimo Giorno, e che un gruppo di credenti sia presente alla punizione. Il fornicatore non sposerà altri che una fornicatrice o una associatrice. E la fornicatrice non sposerà altri che un fornicatore o un associatore, poiché ciò è interdetto ai credenti.

E coloro che accusano le donne oneste senza produrre quattro testimoni, siano fustigati con ottanta colpi di frusta e non sia mai più accettata la loro testimonianza. Essi sono i corruttori, eccetto coloro che in seguito si saranno pentiti ed emendati. In verità, Allah è perdonatore, misericordioso. Quanto a coloro che accusano le loro spose, senza aver altri testimoni che se stessi, la loro testimonianza sia una quadruplice attestazione [in Nome] di Allah, testimoniante la loro veridicità, e con la quinta [attestazione invochi] la maledizione di Allah su se stesso, se è tra i mentitori. E sia risparmiata [la punizione alla moglie], se ella attesta quattro volte, in Nome di Allah, che egli è tra i mentitori, e la quinta [attestazione invocando] l’ira di Allah su se stessa, se egli è tra i veritieri.

Se non fosse per la grazia di Allah nei vostri confronti e per la Sua misericordia…! Allah è Colui che accetta il pentimento, il Saggio. Invero, molti di voi sono stati propalatori della calunnia. Non consideratelo un male, al contrario è stato un bene per voi. A ciascuno di essi spetta il peccato di cui si è caricato, ma colui che se ne è assunto la parte maggiore, avrà un castigo immenso. Perché, quando ne sentirono [parlare], i credenti e le credenti non pensarono al bene in loro stessi e non dissero: “Questa è una palese calunnia?”. Perché non produssero quattro testimoni in proposito? Se non portano i [quattro] testimoni, allora davanti ad Allah, sono essi i bugiardi. E se non fosse per la grazia di Allah nei vostri confronti e la Sua misericordia in questa vita e nell’altra, vi avrebbe colpito un castigo immenso per quello che avete propalato, quando con le vostre lingue riportaste e con le vostre bocche diceste cose, di cui non avevate conoscenza alcuna. Pensavate che non fosse importante, mentre era enorme davanti ad Allah. Allah vi esorta a non fare mai più una cosa del genere, se siete credenti. In verità, coloro che desiderano che si diffonda lo scandalo tra i credenti, avranno un doloroso castigo in questa vita e nell’altra. Allah sa e voi non sapete. O voi che credete, non seguite le tracce di Satana. A chi segue le tracce di Satana egli comanda scandalo e disonore. Se non fosse per la grazia di Allah nei vostri confronti e la Sua misericordia, nessuno di voi sarebbe mai puro, ma Allah rende puro chi vuole Lui. Allah ascolta e sa. Coloro di voi che godono di favore e agiatezza, non giurino di non darne ai parenti, ai poveri e a coloro che emigrano sul sentiero di Allah. Perdonino e passino oltre! Non desiderate che Allah vi perdoni? Allah perdona ed è misericordioso. Coloro che calunniano le donne oneste, distratte ma credenti, sono maledetti in questa vita e nell’altra e toccherà loro castigo immenso”.

Il Corano non dice di cosa esattamente si tratta e chi fosse la vittima della calunnia, tutte cose che si trovano però in un hadith che racconta l’intera storia. Allah aveva appena ordinato che le donne portassero il velo e Maometto stava andando a incontrare il suo nemico; sua moglie Aisha, che lo accompagnava in lettiga, ebbe bisogno di scendere e, mentre tornava, perse la sua collana. Gli attendenti, ai quali era vietato rivolgerle la parola e persino guardarla, non si accorsero che non era rientrata nella howdah, la lettiga fornita di tende sulla quale viaggiava, e ricaricarono sul cammello la lettiga vuota. Aisha rimase così indietro e incontrò un soldato che seguiva a distanza l’esercito e che l’accompagnò fino all’accampamento musulmano: lei si era subito coperta il volto con il velo e i due non avevano pronunciato verbo, ma i pettegolezzi iniziarono immediatamente. Maometto dovette inizialmente ascoltarli, ma poi decise di mettere la cosa nelle mani di Allah, che gli rivelò che Aisha era innocente. Le false accuse contro Aisha sono la causa della legge islamica che chiede che le accuse siano confermate da quattro testimoni. Ne consegue che è difficilissimo, nei paesi che seguono la legge della Sharia, dimostrare che è stato commesso uno stupro, e che se una donna accusa un uomo di violenza carnale può finire per incriminare se stessa perché se i quattro testimoni non possono essere trovati l’accusa si trasforma in una ammissione di adulterio. Ciò giustifica il fatto, realmente aberrante, che in Pakistan il 75% delle donne in carcere si trovano dietro alle sbarre per il fatto di essere state vittime di una violenza carnale.

Nei primi versetti della Sura 24 viene esposta la legge generale sull’adulterio ed è scritto che i colpevoli di questo reato debbono essere puniti con 100 colpi di frusta. Sappiamo però che un certo numero di paesi islamici condannano gli adulteri – ma meglio sarebbe dire le adultere – ad essere condannati a morte. Un hadith spiega questa discordanza di comportamenti ricordando che il Corano originariamente prescriveva la lapidazione e che questo passaggio fu, per qualche oscura ragione, tralasciato. Omar, il secondo successore di Maometto, spiegò, come Califfo e capo dei credenti, quali erano le sue preoccupazioni: “Io temo che dopo che tanto tempo è passato la gente possa dire: Noi non troviamo i versetti del Rajam (la lapidazione) nel Libro Sacro: così perderebbero la retta via tralasciando un obbligo che Allaha ha rivelato” Omar non volle che tutto ciò potesse accadere e usò tutto il suo prestigio e la sua influenza per ripristinare la lapidazione come punizione per l’adulterio: “Ecco! Io confermo che la pena del Rajam sia inflitta a chi ha rapporti sessuali illegali, se è già sposato e il crimine è provato da testimoni, da una confessione o da una gravidanza. Sicuramente Maometto fece eseguire la condanna del Rajam e così dobbiamo fare noi dopo di lui”.

G – Il divorzio

Il divorzio è, tra le cose lecite, la più detestata da Allah, dice un hadith: ciò significa che il divorzio non è incoraggiato né rappresenta una pratica abituale delle famiglie. Anche la donna può chiedere il divorzio e, se le sue ragioni sono valide, può addirittura trattenere la dote che il marito le ha assegnato al momento del matrimonio. Anche a proposito del divorzio il Corano non cessa di ribadire la superiorità dell’uomo: “Le donne divorziate osservino un ritiro della durata di tre cicli e non sia loro permesso nascondere quello che Allah ha creato nei loro ventri, se crediamono in Allah e nell’ultimo giorno. E i loro sposi avranno priorità se, volendosi riconciliare, le riprenderanno durante questo periodo. Esse hanno diritti equivalenti ai loro doveri , in base alle buone consuetudini, ma gli uomini sono superiori. Allah è potente, è saggio” ( 2,228).

Crediamo comunque che l’interpretazione corretta del significato della vita coniugale nell’Islam la si possa cogliere leggendo quanto ha scritto in proposito Ayed Tahzeeb – ul – Hassan (Il Santo Corano e la Donna): “L’uomo deve lavorare molto per mantenere sua moglie. La donna, d’altra parte, impiega le sue doti naturali per adempiere ai suoi obblighi. …. Ciò che lui riceve in cambio del suo lavoro e delle sue tribolazioni quotidiane sono il suo amore, le sue cure e il suo fascino femminile”. Siamo entrambi un po’ stupiti da questo candore, che è probabilmente solo il segnale di una ferma convinzione che non prevede di poter ricevere critiche e commenti sfavorevoli, ma questo è il rapporto tra un uomo e la sua mantenuta, la vita coniugale dovrebbe essere una cosa diversa. E’ comunque bene leggere anche le conclusioni di questa breve opera, conclusioni che sono anche una sorta di proclama contro il materialismo occidentale: “Per contrastare questo impatto [quello contro la visone coranica della donna] essi [gli occidentali] hanno orchestrato il falso grido per la liberazione della donna . Vogliono che ella sia libera di competere con gli uomini, di mostrare le sue bellezze esibendosi liberamente in mezzo a loro, di andare con chiunque ella desideri, di avere tutte le relazioni fisiche che vuole, di permettere che le sue foto seminude e nude appaiono sui giornali, sui cartelli pubblicitari e ovunque. Essi non si interessano alle donne come esseri umani. Tutto questo inganno, definito come libertà, è stato orchestrato in modo da indebolire e distruggere il sistema familiare e promuovere i loro interessi egoistici e materialistici, come risulta evidente nelle moderne società industrializzate. State attente!! State attente!!”. Ci sembra che venga completamente sbagliato il bersaglio, che qui viene identificato in un eccesso di libertà – ma l’occidente soffre esattamente dell’opposto – e altrettanto completamente sbagliato il rimedio, che qui consiste nell’offerta di una serena succubanza.

H- L’Harem

Nei paesi nei quali l’uomo aveva il diritto di esercitare uno stretto controllo sulle donne che gli appartenevano – e che lui costringeva a d uscire di casa solo se si coprivano completamente di veli in modo da nascondere le proprie fattezze agli altri uomini – era inevitabile che prima o poi anche le più innocenti passeggiate finissero con l’essere proibite e che le donne – mogli, concubine, schiave, figlie femmine – fossero costrette a vivere in un ambiente separato, al sicuro da rischi e sguardi indiscreti, vigilate da persone sessualmente non pericolose. E’ molto probabile che l’harem sia nato così, prima nei territori abitati dagli Assiri, poi in altre regioni del mediterraneo e infine nei luoghi dominati dall’Islam. Harem deriva da un termine arabo, harīm, una parola che significa “luogo recondito” o “inviolato” , riservato alla vita delle donne, con una allusione alla pace e alla tranquillità. Queste dimore comparvero prima dell’arrivo di Maometto e subirono una forte contaminazione dai costumi bizantini. La loro funzione si precisò definitivamente dopo l’arrivo dell’Islam che mise rapidamente a punto un insieme di regole destinate a durare per secoli: spazi riservati alle donne, inaccessibili agli uomini, con l’eccezione del padrone e di quanti, per età, grado di parentela o incapacità fisica (è il caso degli eunuchi) non potesse avere leciti rapporti sessuali con le donne che vi vivevano.

In realtà c’erano luoghi riservati alle donne anche in alcuni locali pubblici, come i luoghi di preghiera e i bagni, ma il loro uso non era abituale e la rapida diffusione degli harem li costrinse a chiudere: c’erano harem in dimore modeste e in palazzo sontuosi, tutti costruiti a fianco degli appartamenti riservati agli uomini nei quali viveva il capofamiglia con i suoi dipendenti.

Secondo la tradizione nessun uomo poteva posare lo sguardo sulle donne di un harem di un altro uomo e per questa ragione i guardiani dell’harem erano “qualcosa di meno di un uomo”, cioè gli eunuchi, soggetti di sesso maschile castrati o evirati e comunque messi in condizione di non poter essere tentati e di non poter tentare. C’erano eunuchi di pelle bianca, in genere prigionieri cristiani di nazioni europee conquistate o depredate, e c’erano eunuchi neri, provenienti soprattutto dall’Africa settentrionale. Si trattava quasi sempre di prigionieri che venivano castrati durante il viaggio di trasferimento verso i mercati di schiavi: i loro carnefici erano prevalentemente cristiani egiziani ed ebrei, il cui intervento era reso necessario dal fatto che l’Islam proibiva la castrazione, ma non l’uso dei castrati.

Abbiamo letto con qualche sensazione di disagio la descrizione degli interventi e abbiamo deciso di risparmiarvela: comunque si faceva di tutto, a qualcuno si tagliava il pene, a qualche altro si bruciavano i testicoli, molti morivano, alcuni dei sopravvissuti – soprattutto quelli operati in gioventù – scoprivano di possedere grandi virtù canore. Ma il loro compito non era quello di cantare, dovevano – questo è il senso della parola – “custodire il letto”. E il prezzo sul mercato dipendeva dalle doti fisiche e intellettuali, la voce contava poco.

Quando l’impero ottomano fece la sua apparizione nell’area del mediterraneo, la poligamia, l’harem e molte altre usanze dell’epoca vennero a fare parte dei costumi dell’Islam, e ciò accadde contemporaneamente nei palazzi imperiali e in quelli di tutte le classi privilegiate. Era la fine del Trecento e le dinastie ottomane erano solite contrarre matrimoni con la varie principesse cristiane e non cristiane che venivano scelte soprattutto nelle varie dinastie dell’Impero. Fu solo con il XVI secolo che questa tradizione fu abbandonata e i sultani si limitarono ad avere concubine, scelte accuratamente nelle regioni che per tradizione erano famose per la bellezza delle loro donne. Queste ragazze venivano chiuse negli harem dove ricevevano una buona educazione e venivano istruite: le più belle venivano scelte come odalische ed erano a disposizione del Sultano; le meno belle erano adibite ai lavori domestici. Il Sultano faceva poi una sua scelta personale (le favorite) e a quelle che gli partorivano un figlio assegnava titoli di merito, fino a quello ambitissimo di moglie. Alla sommità di questa gerarchia c’era la Valide Sultan, la madre del Sultano, la donna più importante dell’Impero. Un gruppo privilegiato di ancelle era al servizio diretto del Sultano, gli faceva il bagno, si occupava di vestirlo e di servirlo a tavola. Qualcuna di queste donne poteva essere autorizzata a lasciare l’harem per un breve periodo e a trasferirsi in altri palazzi (e addirittura a compiere visite e viaggi di piacere) sempre in compagnia degli eunuchi. Nessuna di queste ragazze era di fede musulmana, perché era proibito tenere in schiavitù persone che appartenessero alla vera fede. Chi voleva poteva imparare a leggere e a scrivere e apprendere di storia e di geografia, studiare musica, canto e danza e alcune ospiti degli harem divennero persino discrete compositrici. Il Topkapi, l’harem di Solimano, ospitava mille persone e aveva centinaia di sale; cessò di esistere con l’avvento della Repubblica turca nel 1923.

La vita all’interno degli harem era relativamente normale, niente donne lascive che bighellonavano discinte per le stanze. Non è chiaro però cosa avvenisse sul versante della sessualità. Era combattuta l’ omosessualità e c’erano custodi che controllavano soprattutto le nuove venute durante la notte per evitare che si incontrassero sotto le lenzuola: per questo in molte stanze le candele ardevano in continuità. E’ certo invece che un certo numero di giovani vergini venissero addestrate in pratiche sessuali particolari e presentate poi al Sultano, un modo per salire rapidamente nella scala gerarchica. Doversi sottoporre alle richieste, non sempre facili da esaudire, di un uomo non sembra però che fosse causa di umiliazione per le ragazze dell’harem, per le quali conquistare il favore del Sultano diventava ben presto lo scopo fondamentale della vita. Qualche volta, per la propria vita dovevano invece temere. E’ noto ad esempio lo sterminio di tutte o quasi tutte le donne del suo harem ordinato dal sultano Ibrahim (1615-1648) che aveva saputo che una di loro si intratteneva sessualmente con un estraneo. Non essendo riuscito a scoprire il nome dell’infedele (e dopo aver fatto torturare un numero imprecisato di concubine) Ibrahim fece chiudere le ospiti dell’harem dentro a un sacco e le fece gettare nel Bosforo, dove annegarono tutte, tranne una che fu salvata da una nave francese.

Che gli harem siano del tutto scomparsi è altamente improbabile, ne esistono ancora molti, con finalità certamente diverse da quelle di un tempo: oggi si tratta di tenere recluse giovani donne per avviarle alla prostituzione, quindi l’harem è diventato qualcosa di intermedio tra un carcere e una casa di tolleranza. Ed esistono certamente ancora gli eunuchi, come ci racconta Zia Jaffrey (A Tale of the Eunuchs in India, Weindelfeld and Nicholson, 1998). Perché li castrino, chi li castri, a che età e se sia vero o no che vengono avviati alla prostituzione non ci è dato saperlo, ma quello che è certo è che il loro è sempre lo stesso triste destino descritto nel Milione da Marco Polo.

I- Il possibile cambiamento in atto

Una buona parte delle regole dettate dal Corano (non certamente quelle relative alla poligamia, ma un gran numero delle altre) sarebbero state condivise dall’Occidente almeno fino all’inizio del XX secolo. In seguito il ruolo della donna nella società è stato esaminato con spirito sempre più critico e visto per quello che realmente era, un giogo pesante, ingiusto e inaccettabile e, anche se esistono ancora tra noi forti resistenze al cambiamento, si sono verificati importanti e irreversibili modificazioni delle regole sociali e sono state poste le basi perché altre possano essere consentite. Le Chiese cristiane sono state, a questo proposito, diffidenti e caute ( e molto spesso francamente contrarie) ma, anche se non hanno mai del tutto accettato “il cambiamento”, per varie ragioni non sono riuscite ad impedirlo: è importante, a questo propositi, riflettere sul fatto che nelle Sacre Scritture non si trovano principi assoluti capaci di definire il ruolo della donna regolandolo attraverso una normativa specifica, così che questo ruolo è stato molto semplicemente ricavato, momento per momento, dalle tradizioni. Per il Corano, però, non è così in quanto enuncia regole di comportamento generalmente molto precise e dettagliate e, almeno nella convinzione dei fedeli, dettate direttamente da Dio. E’ possibile una interpretazione liberale (e in qualche modo laica) di queste regole? Alcuni paesi musulmani ci stanno provando, con molte difficoltà e accettando numerosi insuccessi, ma se si vuol tentare una risposta più generale direi che al momento essa è negativa, e i tempi non sembrano assolutamente maturi.

Concludiamoo con un’ultima citazione del Corano, che abbiamo riservato per questo commento finale perché ci è sembrata particolarmente esplicita nei riguardi del ruolo delle donne nella società coranica: ” Le vostre spose sono come un campo. Venite pure al vostro campo come volete, ma predisponetevi. Temete Allah e sappiate che lo incontrerete. Datene la lieta novella ai credenti”. Se fossimo autorizzati a dare un consiglio a chi medita di seguire questa indicazione, gli diremmo che se ha poderi dallenostre parti e li vuole visitare, si predisponga nel modo giusto, ci venga armato.

7 – LA CINA

A – La storia troppo lunga di un paese troppo grande

a- Dalla dinastia Xià alla Repubblica popolare

La storia della Cina è troppo lunga, troppo complessa e troppo poco conosciuta perché sia possibile a persone come noi (che su queste cose si muovono come possono farlo due dilettanti, appassionati dilettante se volete, ma pur sempre dilettanti) organizzare un capitolo che abbia insieme le virtù della brevità, della coerenza e dell’adesione alla realtà storica della condizione femminile. Ci limiteremo dunque ad alcune note, scelte tra gli argomenti che ci sembrano di maggior interesse per gli scopi di questo libro.

Le prime dinastie imperiali cinesi – la dinastia Xià (2100 – 1600 a.C.), la dinastia Shang (1600 – 1046 a.C.) e le due dinastie Zhou, quella occidentale e quella orientale, che governarono fino al 221 a.C. – furono detentrici di un potere assoluto (“su mandato celeste”) e di quanto accadde in quei secoli la storia ci rende conto in modo abbastanza puntuale, mentre su quanto accadde prima possiamo fare solo qualche supposizione. Fu poi la volta della dinastia Qin (221-206 a.C) che rappresentò un momento di forte rottura con il passato (l’imperatore Qin Shi Huang, ad esempio, fece bruciare tutti i libri che parlavano di Confucio) e che può essere considerata la prima grande dinastia, quella che diede il proprio nome al Paese. Altre dinastie importanti furono poi la Tang (618 – 907), le due dinastie Song, quella del Nord (960-1127) e quella del sud (1127-1279) e la dinastia Yuan (1271 – 1368). Le due ultime dinastie furono la Ming, cinese(1368-1644) e la Qing, mancese (1644-1912) e fu quest’ultima che nel 1912 perse il “mandato celeste”, a causa dei troppi conflitti che si stavano verificando nel Paese in quel periodo. Infine, nel 1949 fu proclamata la Repubblica popolare cinese, ma questa è storia di ieri.

b – Il politeismo e il culto sciamanico

In origine il popolo cinese era politeista e praticava un culto sciamanico, come molte popolazioni primitive. Delle divinità e dei miti più antichi sappiamo solo quanto è contenuto nei testi storici scritti nel periodo della dinastia Han (206 a.C.- 220 d.C.), poco credibili sia perché era trascorso troppo tempo dagli eventi trattati, sia perché era abitudine degli storici di quei tempi reinterpretare il passato. Gli studiosi vi hanno trovato comunque riferimenti certi a culti totemici e evocazioni di una religione fondata su una dualità terra-acqua.

Lo sciamanesimo, originariamente legato alla cultura dei cacciatori raccoglitori, era diffuso un po’ ovunque, dall’Australia alle Americhe, con caratteristiche abbastanza simili, che riguardavano una ampia gamma di credenze e di pratiche tradizionali: tecniche magiche per guarire gli infermi, evocazioni di divinità naturali per ottenere un aiuto nella ricerca del cibo, sacrifici per poter avere ragione dei propri nemici. Tutti questi vantaggi, sia quelli personali che quelli richiesti in nome della tribù, si potevano ottenere approfittando della capacità dello sciamano di trasferirsi nel mondo degli spiriti – o, in alternativa, in quello dei trapassati – per poter utilizzare i loro poteri, un viaggio virtuale che lo sciamano compiva in stato di trance. Questa pratica, pur essendo caratterizzata in modo molto puntuale, era anche capace di adattarsi alle religioni e alle culture più diverse e in questo dimostrava una singolare flessibilità. Gli sciamani erano prevalentemente, ma non esclusivamente, maschi; alle donne, più numerose nelle società contadine, si riconosceva un ruolo marginale, essendo opinione comune che il viaggio degli sciamani maschi era molto più lungo e consentiva un raggio d’azione molto più vasto. Il rapporto tra lo sciamano e le religioni o le superstizioni della gente che era chiamato a servire era molto stretto: era lui il protettore dei loro miti, era lui che doveva garantire un rapporto sereno tra la gente e la natura, ed era infine lui che proteggeva la libertà di ogni individuo. Le regole che limitavano l’attività e il comportamento degli sciamani erano molto semplici: non dovevano mai mancare di rispetto alla madre Terra, non potevano nuocere a sé o agli altri, non potevano essere pagati per i loro servizi.

c – La nascita delle nuove religioni

Tra il V e il IV millennio l’immenso territorio cinese si caratterizzò per la nascita di diverse religioni che influenzarono differenti culture: lungo il percorso del Fiume Giallo la cultura Yangshao, a nord della foce dello stesso fiume la cultura Dawenkou, alla foce del Fiume Azzurro la Qingliangang. In varie parti di quei territori sono state ritrovate statue di divinità “Madri” e soprattutto dove era diffusa la cultura Yangshao segni delle relazioni tribali tipiche della cultura sciamanica. A partire dal III millennio, lungo tutto il fiume Giallo si sviluppò l’I Ching, che prevedeva una interpretazione del cosmo basata sulla contrapposizione dei due elementi naturali, Yin e Yang.

Direttamente dalla cultura sciamanica della valle del Fiume Giallo prese vita, nel II secolo, il Taoismo, sulla base degli scritti di Lao Tzu tra i quali il Tao Te Jing che, insieme al Libro delle Mutazioni costituisce la base del pensiero esoterico cinese. Il Taoismo è un insieme di pratiche religiose nelle quali il culto della terra, la geomanzia (il Fen Shui) e le formule liturgiche si incontrano, insieme a una visione magica del mondo.

Il pensiero e lo stile di vita cinese (ma anche quello giapponese, coreano e vietnamita) sono stati enormemente influenzati da Confucio, un filosofo cinese nato nel 551 a.C. e morto nel 479 a.C.. Il confucianesimo ha dettato le norme della vita politica e religiosa della Cina per più di 2000 anni, soprattutto perché ha regolato i riti di Stato della casa Imperiale. I principi di questa filosofia, che in realtà non esprime con chiarezza una concezione della divinità, furono accolti con grande favore soprattutto perché si basavano largamente su tradizioni già radicate nella cultura cinese: esaltavano la lealtà familiare, il culto degli antenati, il rispetto degli anziani e la sottomissione della moglie al marito, proponendo la famiglia come il riferimento ideale di un governo saggio. A partire dal I secolo d.C. la Cina divenne poi uno dei maggiori centri di sviluppo dell’insegnamento buddista, particolarmente influenzato dalla corrente del Buddismo Mâhâyana; una delle sue varianti, il Buddismo tibetano, si diffuse, oltre che nel Tibet, anche nella Mongolia interna. Più tardi (a partire dal VII secolo) si sviluppò in Cina l’Islamismo, e in misura molto minore, il Cristianesimo. E’ ancora largamente praticata la religione popolare, un complesso di credenze e di pratiche che un grande numero di Cinesi seguiva prima del 1949 e che era stata nutrita da concetti, riti e divinità derivati dal Taoismo e dal Buddismo: è, come dice il nome, una religione popolare, che non ha un proprio canone e non ha ricevuto alcun riconoscimento ufficiale.

d- L’influenza delle religioni sulla condizione femminile

La condizione della donna in Cina ha subito grandi modificazioni nei differenti periodi storici ed è stata certamente influenzata dalle religioni prevalenti, il che significa fra le altre cose che il ruolo femminile è sempre stato molto diverso nelle diverse aree geografiche, con notevoli variazioni soprattutto tra le aree urbane e le zone agricole. E’ molto probabile, ad esempio, che le donne abbiano goduto di un certo rispetto prima di Confucio, in una fase storica durante la quale la Cina dava una grande importanza alla vita familiare. In quei tempi le madri di famiglia rappresentavano l’asse intorno al quale ruotavano tutti gli altri membri, erano considerate la sorgente della formazione del gruppo familiare e godevano di una certa autorità. Era un’epoca nella quale il sistema di identificazione dei nuovi nati era di tipo matrilineare e ogni individuo portava il nome della stirpe materna: l’ideogramma cinese che indica il cognome, in effetti, rappresenta la donna.

e-Il regime feudale e la sottomissione

Fu l’avvento del regime feudale a cambiare radicalmente la condizione femminile: la donna fu abbassata a un rango subalterno e finì col conoscere l’umiliazione e il disprezzo della società: questo declassamento ebbe probabilmente origine dal fatto che il feudalesimo si basava su un sistema di rapporti sociali rigorosamente patriarcali. Anche dopo essersi sposati i giovani uomini (con le loro mogli e con i figli) dovevano vivere con la famiglia d’origine, riconoscendo al padre (e dopo la sua morte al fratello primogenito) il diritto di esercitare un’ autorità assoluta. Questa autorità fu rafforzata dal confucianesimo al punto che la donna cominciò a essere considerata una merce che era possibile acquistare e vendere. La nascita di figlie femmine divenne in breve volger di tempo un segno di malaugurio e una delle peggiori umiliazioni per una donna era quella di non riuscire ad avere figli maschi.

La ragione per la quale la nascita di una figlia femmina era considerata una disgrazia era soprattutto economica: una femmina doveva essere educata, nutrita e vestita, un investimento a fondo perduto – considerato il fatto che il suo destino era quello di lasciare la casa per andare a vivere con un marito – che poteva essere aggravato dalle eventuali spese per la cura delle possibili malattie. C’erano dunque momenti di difficoltà – come ad esempio una delle tante carestie che tormentavano il Paese – nei quali non era considerato possibile accettare la nascita di una femmina e una parte delle bambine (qualche volta gran parte delle bambine) veniva uccisa subito dopo la nascita..

Tutta la vita di una donna si svolgeva sotto il segno della sottomissione: al padre, al marito, al figlio maggiore dopo che il marito era morto. Era un percorso molto difficile durante il quale la donna viveva in uno stato di umiliazione, trattata come una incapace, dipendente in ogni settore della vita dalle decisioni e dai capricci di un uomo, nell’impossibilità di assicurarsi una vita autonoma. Priva di istruzione, era consacrata totalmente ai lavori domestici e ai doveri che la famiglia le imponeva, che riguardavano soprattutto la cura degli anziani e dei bambini. D’abitudine le era imposto di tagliarsi i capelli a 15 anni e di sposarsi prima dei venti, sempre con un uomo scelto dal padre, talora con l’aiuto di un sensale di matrimoni. Viveva in una parte della casa riservata alle donne e solo in casi eccezionali incontrava uomini che non facevano parte della famiglia. La promiscuità era concessa solo alle donne che facevano parte di certe specifiche classi sociali, come le cantanti; una volta sposate, tutte le donne erano tenute a lasciare la casa paterna per andare a vivere nella casa del marito, dove dovevano servire i propri suoceri esattamente come prima si erano prese cura dei propri genitori. I pregi per i quali venivano valutate erano soprattutto quelli della fecondità e della disponibilità all’ubbidienza; bellezza, intelligenza e cultura (dote comunque assolutamente inconsueta) non erano neppure oggetto di attenzione. Mangiavano da sole o con i figli, il marito e i suoi genitori avevano il diritto di essere serviti a parte.

B – Le due forze del principio supremo

Dao si può tradurre come principio supremo o ordine universale e indica il movimento che circola ovunque nell’universo e che fa alternare le due forze, apparentemente contrarie (ma in realtà complementari), lo Yin e lo Yang, la cui azione combinata muove l’universo in tutti i suoi aspetti: le stagioni, la vita e la morte, il giorno e la notte, il pieno e il vuoto, il secco e l’umido, il movimento e il riposo. Tutte queste nozioni sono interdipendenti e tutto in effetti si basa sull’alternanza e sulla complementarietà. Tutto ciò coinvolge il tempo e lo spazio, sempre secondo il principio dell’alternanza, che è quello su cui si basa la legge universale. Il sistema di azioni e di reazioni che ne consegue riguarda ogni cosa esistente: ciò che è naturale e ciò che è sovrannaturale, il mondo vivente e quello inanimato. Lo Yin, il principio femminile, e lo Yang, il principio maschile, sono dunque i principi la cui azione concorrente costituisce l’ordine umano e quello naturale, micro e macrocosmo. Sono yin la notte, il bacìo, la passività, il riposo, le energie negative, la debolezza, il vuoto, la terra, la morte, la donna; sono Yang il giorno, il sole, l’attività, il movimento, la forza, il duro, il pieno, il cielo, la vita e l’uomo. I cinesi descrivono ogni classificazione dualistica disegnando una sorta di sinusoide, un movimento pendolare che va dallo Yin allo Yang e poi si muove in senso opposto.

I due principi, dunque, sono considerati alla pari e uno non può esistere senza l’altro. Il “mondo delle diecimila cose” è generato dall’unione dei due principi e i due elementi sono mescolati e inseparabili. In questi principi opposti il pensiero tradizionale cinese ha visto la spiegazione del continuo divenire di tutte le cose del mondo.

il principio maschile e quello femminile, proprio perché complementari, avrebbero dovuto godere di una assoluta parità. Questa teoria, in realtà. non trovò mai applicazione e, per ragioni prevalentemente culturali, le donne cinesi subirono per secoli una discriminazione particolarmente severa che le costrinse a vivere una vita caratterizzata dalla segregazione e dalla oppressione. Nella scrittura cinese l’ideogramma che significa “maschio” consiste nell’unione di due caratteri, il primo dei quali significa “campo” mentre il secondo vuol dire “forza” e suggerisce l’impegno della forza fisica nel lavoro agricolo. L’ideogramma che indica la donna è invece composito e mescola il richiamo alla famiglia come “cognome” e come “nascere” a quelli al “tetto” e alla “donna” per indicare la tranquillità e la sicurezza. E’ dunque la donna che ha il controllo delle cose che sono interne alla casa esattamente come è l’uomo ad esercitare la sua forza fisica all’esterno di essa. Nel tempo sono state le attività connesse con l’esterno ad acquistare sempre maggiore importanza, così che la donna ha finito col trovarsi relegata in quell’interno che è diventato la sua prigione e dove le è stato assegnato un ruolo subordinato.

Questo ha finito per rappresentare insieme tradizione e ordine costituito e i tentativi delle donne di occuparsi di attività esterne – come la politica, obiettivo di alcune famose Imperatrici – furono sistematicamente condannati dai tradizionalisti e, in generale da tutta l’opinione pubblica, spaventata da tutti gli sforzi di modificare la tradizione e l’ordine costituito. Questa subornazione della donna ebbe modo di esprimersi in vari modi, uno dei quali riguarda certamente il suo ruolo sessuale: la sua condizione di “oggetto” di piacere la costrinse alla mutilazione fisica (ottenuta mediante la fasciatura dei piedi); per il resto, tutto si basava sulla regola delle tre ubbidienze (al marito, al padre, al figlio maggiore) e delle quattro virtù (parlare poco e con cautela, svolgere con efficienza i propri compiti domestici, conoscere il proprio posto nel mondo, curare il proprio aspetto per risultare gradevole al marito). In un manuale scritto per istruire le giovani spose nel XIX secolo si legge: “Quando cammini, non girare la testa; quando parli, non aprire la bocca; quando sei arrabbiata, non alzare la voce; quando sei felice, non ridere forte”.

C- La fasciatura dei piedi

Secondo una antica leggenda la predilezione dei cinesi per i piedi piccoli nacque come conseguenza dell’astuzia di una volpe che, fasciandosi le zampe, cercò di nascondere la forma delle proprie impronte che l’avrebbero denunciata per quello che realmente era mentre cercava di assumere le sembianze umane dell’Imperatrice Shang. Esiste una seconda versione secondo la quale la stessa Imperatrice, che aveva un piede equino, persuase il consorte, timido e innamorato, a costringere tutte le giovani donne che a vario titolo frequentavano la corte imperiale a fasciarsi i piedi con tanta energia da deformarli, così da poter mostrare a tutti la propria anomalia esibendola come un adeguamento alla moda.

Si trattava di un nuovo modello di cintura di castità, oltretutto immediatamente visibile e che consentiva anche di capire subito a quale classe sociale appartenesse una particolare donna: i piedi grandi non erano solo poco femminili, facevano anche capire che il marito non era abbastanza ricco da mantenere una moglie e che aveva addirittura bisogno di farla lavorare con lui nei campo o nel negozio. Così erano soprattutto le serve e le contadine ad avere piedi di grandezza naturale insieme alle donne delle minoranze etniche, in particolare quelle nate in Mongolia alle quali la gente si rivolgeva chiamandole “piede d’anatra” o “barca di loto”. Per una ragazza cinese che apparteneva a una famiglia anche solo minimamente abbiente opporsi alla fasciatura dei piedi era impensabile, era rapidamente diventata uno dei modi più efficaci per mantenere una netta separazione dei sessi. Le ragazze (le bambine!) dovevano imparare a sopportare il dolore, che era notevole, senza lamentarsi e esercitarsi a non camminare con le dita rivolte all’insù e senza tenere i calcagni a mezz’aria. Una volta fatta la prima fasciatura le ragazze ricevevano la visita di parenti e di amiche che venivano a congratularsi e a lodare la scelta fatta dalla famiglia.

La fasciatura veniva eseguita in genere dalla madre e dall’abilità con la quale venivano applicate le bende dipendeva il successo dell’operazione. La fascia, larga 5 centimetri e lunga 3 metri, veniva applicata in modo da ripiegare le dita dei piedi, alluce escluso, sotto le piante, La benda veniva poi stretta intorno al calcagno in modo da avvicinarlo il più possibile alle dita. In questo modo tutto il piede era sottoposto a una pressione energica e costante. I missionari cattolici che erano stati testimoni di questi interventi riferirono poi che in molti casi almeno una parte dei tessuti andava incontro a un processo di mortificazione e che era frequente l’amputazione spontanea di una o più dita. Il dolore era molto forte per almeno tutto il primo anno, poi i piedi perdevano progressivamente la loro sensibilità fino a diventare del tutto insensibili. Il piede piccolo – “il loto d’oro” – era proprietà esclusiva del marito e persino i parenti più stretti evitavano di guardarlo. La manipolazione di questi piedi era considerata un atto di grande intimità e le donne di buona educazione provavano imbarazzo e vergogna (e non era infrequente che decidessero di togliersi la vita) se era una persona diversa dal marito a togliere loro una scarpa o ad accarezzare uno dei loro piedi.

Le qualità più apprezzate di questi piedi deformi (che le fotografie ci mostrano come vere mostruosità) erano, agli occhi naturalmente dei cinesi, la rotondità, la morbidezza e l’eleganza. Un piede troppo gracile non suscitava passioni, uno troppo robusto era considerato poco femminile. In cosa consistesse poi l’eleganza, è difficile stabilirlo: molto probabilmente si trattava di una virtù che non poteva essere valutata con gli occhi, una virtù per la quale la piccolezza del piede contava solo indirettamente. Il successo della fasciatura veniva comunque valutato anche dal punto di vista dei risultati quantitativi: si distingueva il loto d’oro (lungo meno di 8 centimetri) dal loto d’argento (8-10 centimetri) e dal loto di ferro (più di 10 centimetri). Con il termine “luna nuova” si alludeva a un piede fasciato elegante e snello, mentre il “giovane bambù di giada” era un piede piccolo, lucente e soffice, con la punta aguzza come un virgulto di bambù. E c’erano persino poesie e canzoni popolari che biasimavano le donne con i piedi grandi ed erano piene di espressioni sarcastiche per le donne che avevano rifiutato la fasciatura (nei commenti si parlava d’abitudine di infanzia sciupata o di giovinezza fallita). In una certa epoca storica, le fasce usate per la compressione dei piedi acquistarono un carattere magico e furono usate da molti medici per curare un grande numero di malattie.

Molti uomini trovavano eccitante il passo barcollante delle donne che dovevano camminare su quei piedi minuscoli ed era considerato un gioco sessuale particolarmente gradevole accarezzare i piedi fasciati. Togliere le fasce non era invece consigliabile: intanto, togliere le fasciature voleva dire far perdere al piede almeno una parte della sua morfologia (il che faceva pensare a una ripresa del suo sviluppo); bisogna aggiungere il fatto che la pelle di quei piedi era particolarmente mal nutrita e aveva costantemente qualche parte in necrosi, il che significava soprattutto un odore particolarmente sgradevole. Era invece abitudine di molte donne allentare le fasce durante la notte per poter calzare scarpe con la suola molto morbida che permettevano di camminare per casa senza aiuto .

La fasciatura dei piedi fu particolarmente diffusa verso la fine della dinastia Qing, che iniziò nel 1644 e terminò nel 1912, ma la sua massima popolarità coincise con i primi segni della sua decadenza. Già nel XVII secolo i conquistatori mancesi si erano opposti a queste manovre in un modo insieme semplice ed efficace, cioè mostrandosi orgogliosi e soddisfatti dei piedi “naturali”(e perciò comparativamente molto grandi) delle loro donne. Nei due secoli successivi, in epoche nelle quali l’Europa aveva aperto un dibattito sul ruolo delle donne nella società, del quale nessuno in Cina aveva sentito parlare, molti intellettuali e molti leader cinesi affrontarono criticamente il problema dichiarando la loro contrarietà nei confronti di manovre che consideravano innaturali e immorali. Finalmente nel 1902 fu promulgato un decreto imperiale che caldeggiava l’approvazione di un divieto inteso a proibire la fasciatura dei piedi alle bambine. La reazione di una parte consistente del mondo femminile fu assolutamente sfavorevole e il decreto o non venne definitivamente approvato o, se lo fu, venne del tutto disatteso. Nel 1928 il Ministro degli Interni emanò una’ ordinanza che ingiungeva alle prefetture di vietare le fasciature e anche questa volta le autorità si dovettero confrontare con una forte protesta che giungeva anche e misteriosamente dai ceti più poveri, che di quegli interventi avevano solo una conoscenza teorica; naturalmente la maggiore opposizione arrivò dalle donne che avevano sopportato tanto dolore da bambine e che adesso si sentivano dire che la pratica era immorale e che quei canoni estetici erano falsi e innaturali e andavano rinnegati. In seguito la pratica entrò in una fase calante, ma il maschilismo conservatore, quello che considerava le donne esseri inferiori e passatempi sessuali, non era arretrato di un centimetro. La pratica fu comunque abolita in modo definitivo dopo l’ascesa al potere di Mao Tse.

D – Il principio dell’appartenenza

Se si tiene conto di quanto ho scritto finora sulla condizione della donna in Cina non può non essere evidente che il suo rapporto con l’uomo si è sempre basato sul principio dell’appartenenza. Se si parte da questo assunto – la donna è un bene privato dell’uomo – ne consegue che dall’epoca protostorica al 900 il matrimonio è sempre stato un semplice atto di compravendita. Questo non può sorprenderci: dobbiamo riconoscere che la stessa cosa è accaduta anche nella nostra parte del mondo per secoli e secoli e che l’unica possibile differenza sta nel fatto che nei confronti del contratto nuziale la Cina ha dato la sensazione di vivere in una sorta di eterno Medioevo.

E’ naturalmente escluso che in Cina ci si sposasse per amore, le ragioni erano normalmente economiche con significative implicazioni sociali, soprattutto perché una donna perdeva ogni tipo di identità al di fuori del matrimonio. La mancanza assoluta di elementi affettivi nella scelta della sposa favorì una serie di abitudini che possiamo considerare almeno molto particolari, come le nozze tra persone appartenenti alla stessa famiglia e i contratti di nozze siglati prima ancora della nascita dei futuri sposi. Dopo l’avvento del confucianesimo, che considerava come valore fondamentale del coniugio il fatto di garantire la discendenza, la fertilità assunse un valore assoluto e l’incapacità di assicurare una progenie al marito fu considerata alla stregua di un peccato.

La scelta della moglie veniva fatta molto spesso con l’aiuto di un mediatore che aveva dimestichezza con le famiglie e sapeva dove trovare la bambina che sarebbe diventata la moglie adatta a quel potenziale marito. Naturalmente le bambine e le ragazze non avevano nessuna voce in capitolo, erano sempre i genitori che decidevano se accettare o no la proposta. Questa scelta veniva generalmente fatta quando le bambine non avevano ancora raggiunto la pubertà e il matrimonio vero e proprio si celebrava dopo alcuni anni, in ogni caso quando la ragazza non era ancora uscita dall’adolescenza.

E – Il matrimonio tradizionale

Il matrimonio tradizionale cinese si basava su tre regole precise che dovevano essere rispettate con scrupolo: l’uomo poteva avere una moglie soltanto, ma poteva anche scegliere un certo numero di concubine; il matrimonio veniva deciso dai genitori; le famiglie che avevano lo stesso cognome dovevano indagare sul proprio grado di parentela per evitare il matrimonio tra consanguinei. In alcune parti della Cina le regole sul numero di mogli consentite potevano essere diverse, ma c’era comunque sempre una “prima moglie”, le altre erano mogli “minori” o “secondarie”. Queste regole divennero comunque valide solo a partire dalla dinastia Song ( 960-1279), in precedenza era molto diffusa la poligamia, diversamente normata nelle varie parti del Paese.

Secondo il codice civile che regolava i vari aspetti del contratto matrimoniale e che era in vigore nel periodo mancese (1644 – 1911), i genitori non solo avevano il diritto di decidere il matrimonio dei figli ma se questi si sposavano senza il loro consenso erano autorizzati a bastonarli. Il matrimonio veniva sancito con una cerimonia molto elaborata, mentre la scelta delle concubine veniva fatta successivamente senza alcuna pompa. La sposa naturalmente non conosceva il marito (le era addirittura proibito incontrarlo prima del matrimonio) e doveva trascorrere tutto il giorno delle nozze senza parlare e senza mangiare. Il suo abbigliamento era un forte indicatore di stato sociale: le donne di famiglia nobile o particolarmente ricca si presentavano con il capo coperto da un velo rosso ornato di gioielli, frange e pietre preziose, il fengguan, che doveva servire sia a nascondere la sua timidezza che a proteggerla dagli spiriti malvagi. Al velo si aggiungeva una mantella ricamata con disegni di nuvole rosa, chiamata xiapei, Velo e mantellina facevano parte anche dell’abbigliamento delle spose meno ricche, ma in questo caso il materiale col quale erano fatti era di poco prezzo.

Sulla porta di casa dello sposo – o talora su una parete della camera nuziale – si scriveva l’ideogramma “doppia felicità”; gli amici e i parenti lanciavano sugli sposi dei cereali, forse anche del riso, la stessa nostra abitudine. Il giorno delle nozze era costume che gli sposi onorassero la terra, i genitori e gli antenati.

La donna poteva avere un solo marito e non era proprio previsto che una vedova potesse risposarsi. Gli uomini sceglievano le concubine direttamente andandole a cercare nelle famiglie delle classi meno abbienti. Il numero di concubine era un indicatore di censo, gli uomini più ricchi ne avevano molte, gli schiavi erano rigorosamente monogamici. Le concubine acquistavano uno stato sociale del tutto particolare: avevano gli stessi doveri della moglie ma non gli stessi diritti e anche se davano al loro “signore” un figlio maschio non potevano in alcun caso prendere il posto della moglie. Quando si ammalavano o quando diventavano vecchie venivano allontanate dalla casa; i loro figli e le loro figlie diventavano quasi sempre servi e serve della famiglia del padre, ma per le femmine esisteva anche la possibilità di diventare concubine esse stesse, o addirittura di riuscire a sposare un uomo (naturalmente non ricco e di classe sociale più bassa della loro.). Tutti i riti relativi agli sponsali si trovano scritti in un testo (Il libro dei riti, scritto nel I millennio a.C.) che contempla un certo numero di fasi regolate con estrema precisione e che prevedono una serie di consultazioni, incontri e scambi di doni. La moglie poteva essere cacciata dalla casa del marito se si rendeva colpevole di uno di questi sette peccati: era sterile; commetteva adulterio; non onorava i genitori del marito; rubava; parlava troppo ed esprimeva opinioni personali; dimostrava invidia o gelosia; si ammalava gravemente. Questa faccenda dell’espulsione dalla casa del coniuge era però piuttosto complessa: ad esempio, il marito aveva il diritto di cacciare la moglie anche se lei gli aveva dato dei figli, ma non poteva farlo se lei non aveva più una famiglia alla quale tornare, se i genitori del marito erano morti e se lei nel frattempo era diventata ricca (per aver ricevuto una eredità, cosa altamente improbabile).

Fino alla dinastia Ming (1368 – 1644), a dire il vero, era abitudine diffusa quella di celebrare i matrimoni con molta semplicità, ma nei secoli successivi (dinastia Qing, 1644 – 1911) ci fu una sempre maggiore ostentazione di lusso. In questo periodo divennero poi più numerosi gli episodi di intolleranza che riguardavano quasi esclusivamente le donne che si ribellavano all’imposizione di un matrimonio con uno sconosciuto.

F – Ripudiare e punire

Abbiamo scritto che una delle buone ragioni usate per liberarsi di una moglie era quella di averla sorpresa mentre commetteva adulterio, ma è bene sottolineare che in questi casi i mariti non si limitavano a espellere la fedifraga, avevano il diritto di punirla con grande severità e generalmente lo facevano. Nella società cinese le mogli e le concubine adultere – e in alcuni casi anche l’uomo che le aveva indotte in tentazione -venivano torturate pubblicamente e, se sopravvivevano, perseguitate socialmente. La perdita della castità era considerata cosa così irrimediabile che anche le donne vittime di uno stupro venivano condannate a una serie di punizioni corporali. La tipologia delle torture variava in rapporto al periodo storico e all’area geografica: soprattutto nel periodo della dinastia Ming le donne che avevano subito uno stupro erano considerate colpevoli di essersi macchiate di una infamia imbarazzante, e come portatrici di una sorta di male sociale condannate a subire ogni sorta di punizione fisica; gli uomini responsabili di stupro erano quasi sempre condannati a morte. Nel periodo della dinastia Qing rischiavano la morte anche le donne ritenute responsabili di atteggiamenti frivoli o che parlavano senza pudore di argomenti scabrosi. Circa le adultere ho letto con qualche fatica la descrizione delle torture che potevano essere loro inflitte: si tratta prevalentemente di punizioni nelle quali si coniugano fantasie morbose e crudeltà quasi imbarazzanti.

G – La vita sessuale e riproduttiva

Nella Cina taoista del VII secolo, l’atto sessuale veniva tenuto in grande considerazione in quanto si riteneva che “fare nuvola e pioggia” potesse permettere l’interazione delle forze cosmiche dello Yang (il principio attivo maschile) con lo Yin (il principio attivo femminile). L’essenza dello Yang era naturalmente il liquido seminale e quella dello Yin la lubrificazione vaginale. I Maestri cinesi affermavano che “se l’uomo può cavalcare dieci donne in una notte la sua essenza vitale si rafforza, se si dedica a una sola si indebolisce, e lui non può più trarne qualcosa di utile”.

Gli insegnamenti sessuali impartiti agli uomini cinesi sono stati l’origine di almeno due tecniche anticoncezionali che nel tempo hanno preso nomi diversi da quelli originari: il coito riservato e il coitus obstructus. Il primo doveva consentire agli uomini di giungere molto vicino all’orgasmo evitando però l’eiaculazione, per aumentare l’energia del proprio seme e per meglio utilizzarlo in occasioni future (soprattutto con la moglie legittima e per generare figli maschi). La tecnica è descritta in dettaglio da un medico cinese del VII secolo a.C., Tung – hsuan: chiudere gli occhi, concentrarsi, premere la lingua sul palato, contrarre i muscoli dell’addome e del collo, inspirare profondamente a bocca chiusa, allargare le spalle. Secondo i medici cinesi del tempo l’energia del seme, limitata e perciò preziosa, al contrario di quella illimitata contenuta nelle secrezioni vaginali, poteva essere così trattenuta e aumentare per qualità e quantità fino a raggiungere i livelli ideali necessari per combinarsi con l’energia femminile e consentire così di concepire un figlio maschio. Questo tipo di amplesso era considerato il migliore possibile nel caso di un rapporto sessuale con una concubina o con una prostituta, anche perché esercitava un effetto positivo sulla mente dell’uomo: il seme non emesso risaliva lungo il midollo spinale fino a raggiungere il cervello che ne risultava rinvigorito.

Anche per l’altro tipo di rapporto, il coitus obstructus – sempre da consumare con donne diverse dalla moglie legittima – i medici cinesi davano consigli dettagliati: l’uomo, quando si rendeva conto che l’eiaculazione era imminente, doveva esercitare una forte pressione sulla zona perineale, tra l’ano e la base dello scroto, con le dita di una mano, respirando profondamente e arrotando i denti. In questo modo il seme non poteva essere emesso e rientrava nella “camera della giada” (in realtà in queste circostanze il seme finisce in vescica) per poi risalire attraverso il midollo spinale fino al cervello. Questa tecnica è stata ripresa anche nel mondo occidentale (persino in tempi relativamente recenti) dove è conosciuta con il nome di coito sassonico; i nostri medici hanno persino trovato materia di discussione in particolari vagamente imbarazzanti (di chi deve essere la mano che esercita la pressione? Dell’uomo? Della donna? Di una terza persona convocata appositamente?).

H – L’erotismo

Le ragazze cinesi venivano preparate, fino dalla pubertà, a sostenere il proprio ruolo di mogli e di amanti, soprattutto studiando libri erotici illustrati, presenti in ogni casa borghese e particolarmente numerosi nelle case dei nobili. Nelle biblioteche più ricche, a partire dal VI-VII secolo, figuravano testi dal titolo ” L’arte della camera da letto” e un grande numero di classici (ne conosciamo più di una ventina) che trattavano degli stessi argomenti ed erano molto espliciti a proposito delle posizioni sessuali e delle varie categorie di rapporti.

Se nella cultura cinese la sessualità aveva una connotazione fortemente positiva, un cambiamento di rilievo si verificò con il neoconfucianesimo caratteristico della dinastia Song (970 – 1279). In quel periodo i seguaci di Confucio, oltre a studiare i classici della loro religione, divennero familiari con i maestri Taoisti e Buddisti. Fu soprattutto dal pensiero buddista che essi presero molti spunti, tra cui l’idea della natura dell’anima e della relazione dell’individuo con il cosmo. Uno dei più importanti esponenti del neoconfucianesimo fu Zhu-Xi (1130-1200) che argomentò nello stile confuciano in favore dell’osservanza buddista degli standard di alta moralità. Da queste idee nacque una sollecitazione a guardare alla vita sessuale con un certo puritanesimo, inconsueto fino a quel momento, di cui le donne furono il principale bersaglio, ma che non modificò la percezione positiva che i cinesi avevano del mondo delle cortigiane, che continuò ad essere una eccezione per quanto riguardava il ruolo femminile e la separazione tra i sessi. Frequentare prostitute non era considerato un fatto anormale nella vita sociale e soprattutto nelle classi più agiate gli incontri con donne libere erano frequenti e normali. Solo nelle case delle cortigiane i membri delle classi sociali che detenevano il potere potevano sperimentare la sensazione che, malgrado tutto, nei rapporti con l’altro sesso i sentimenti potevano diventare importanti.

8 – IL SETTECENTO

Elisabeth Badinter, seguendo a distanza di tempo le indicazioni di Simone de Beauvoir ( la prima, si dice, a far esplodere le sbarre della prigione femminiile rimettendo la biologia al suo giusto posto. , nel suo libro Un amour en plus, Histoire de l’amour maternel, XVIIe-XXe siècle (Flammarion – 1980) scrive che l’essere madre non è innato nella donna, che non esiste alcun istinto materno e che la maternità non ha in sé nulla di naturale. Porta l’esempio di innumerevoli donne che sono state costrette – dalla società, dalla vita, dalle circostanze – a liberarsi dei propri figli, a non farli nascere, a ucciderli appena nati, ad abbandonarli a un destino certamente infausto. Porta l’esempio della Francia del 1700 e sostiene che il concetto di amore materno si evolve nel tempo, che si tratta di un sentimento e che come tale è incerto e imperfetto, può essere presente da molto tempo o comparire solo in età avanzata, quando il desiderio di avere un figlio non può più essere accontentato, può venire ed andarsene come è venuto, può essere virtuoso o mancare del tutto di quelle che consideriamo virtù. Ci ricorda i molti motivi che sono alla base della scelta di avere un figlio – legare a sé un uomo, preparare un custode della propria vecchiezza, fornire al marito un altro paia di braccia per lavorare nei campi – e ci fa capire quante di esse sono in realtà degne di disprezzo. Cita il problema del baliatico nella Francia del XVIII secolo (la prima agenzia di nutrici per famiglie aristocratiche fu aperta in Francia nel 1200 e si generalizzò nel 1700).

La Badinter si dichiara contraria a quella che oggi sembra essere una esigenza, quella di esibire una identità religiosa, definendo se stessi in opposizione agli altri una cosa che, dice, le ricorda il femminismo americano degli anni 80 che esaltava con termini moto simili la differenza tra uomo e donna, col potere della capacità di riproduzione che dovrebbe permettere di equilibrare il mondo virile il cui potere si basa sulla aggressività e sulla competizione. Dice, della religione, che le riconosce le capacità di consolazione ma che la considera una pericolosa forma di intolleranza, tanto da immaginare la fine del dominio della legge religiosa come un grande progresso per l’umanità.

Scrive Elisabeth Badinter che nel 1780 il prefetto di polizia di Parigi, un signore di nome Lenoir, constatava non senza una punta di amarezza che sui ventun mila bambini che nascevano ogni anno nella città solo mille venivano allattati con latte materno a casa; mille sempre a casa da una balia bagnata; gli altri fuori, a sfidare il destino. Moltissimi morivano senza aver conosciuto la madre; quelli che tornavano a casa ci trovavano una sconosciuta. Non esiste prova che questi ritorni fossero felici e colpisce ancora di più il fatto, anche questo riferito da Lenoir, che la maggior parte dei genitori non partecipavano al funerale dei figli

Come spiegare l’abbandono di un neonato in un tempo in cui il latte materno era prezioso per sopravvivere? Come giustificare un simile disinteresse per il bambino? Come accadde che la madre indifferente del settecento si trasformò nella madre pellicano dell’ottocento?

Altre prove del cattivo rapporto madre-figlio del settecento si trovano guardando a quello che succede in alcuni Paesi europei nel corso del secolo. Solo per fare un esempio, citiamo Londra, una delle grandi capitali europee, nella quale gli amministratori vennero convinti, dal grande numero di bambini trovati morti ogni mattina per le strade (uccisi dal freddo, dalla fame, dal gin, dalla violenza di uomini cattivi) ad aprire i primi brefotrofi, in un primo tempo affidati a personale di amministrazione, in un secondo tempo alle parrocchie e a donne anziane ( le “bloody tits”) solo per dover constatare che dei bambini ricoverati ne sopravvivevano meno del 25%. Possiamo aggiungere noi, entrambi nati in Romagna, la storia degli infanticidi commesi nella società contadina più povera, quella della collina alta, in un periodo, la prima metà del secolo scorso, un’epoca nella quale le donne avevano paura di abortire, molte donne moricìvano e molte di ammalavano di “miseria genitale, e così i figli che sapevano di non poter mantenere li facevano nascere e li soffocavano nel sonno (l’avevamo preso nel letto grande per tenerlo caldo, nemmeno ce ne siamo accorti, dicevano ai carabinieri).

Dove è dunque finito l’istinto materno che per opinione generale accomuna gran parte degli esseri viventi? Noi abbiamo oltre tutto una opinione ambigua della maternità, secondo la quale la funzione materna cessa solo quando la madre ha partorito l’adulto, l’ associazione di uno stato fisiologico particolare con una funzione a lungo termine: 9 mesi per la gravidanza, un tempo indeterminato per allevamento ed educazione. Ogni indagine sul comportamento materno non può esimersi dal considerare che la maternità è solo una delle molte dimensioni della donna nelle cui fibre esistono una infinità di altri e differenti interessi che prescindono dalla casa, dalla famiglia e dalla prole. Del resto l’amore materno proprio perché si tratta di un sentimento – è solo un particolare tipo di amore – non è scontato.

Sempre secondo la Badinter il mito dell’amore materno nasce alla fine del XVIII secolo: ” Alla fine del settecento l’amore materno appare come un nuovo concetto. Non si ignora che questo sentimento è sempre esistito, ma ci si compiace di ricordarne l’esistenza nei tempi passati…… Quello che appare nuovo è l’esaltazione dell’amore materno come valore allo stesso tempo naturale e sociale, favorevole alla specie e alla società” (Op.Cit.)

Ed è alla fine del settecento che l’attenzione della società si sposta dal concetto di autorità paterna al concetto di amore che viene saldato alla figura materna. Le opinioni della Badinter trovano, come vedremo, un largo consenso e , naturalmente, una feroce opposizione , come se molti si sentissero personalmente minacciati da una pericolosa femminista che mette in dubbio l’amore della loro madre. Lo si capisce dal fatto che raramente gli oppositori argomentano la loro contrarietà, quello che fanno è portare esempi, e l’esemplificazione è in genere lo strumento dialogico degli imbecilli.

Secondo la Badinter le principali motivazioni di questo cambiamento sono due, entrambe in qualche modo legate all’illuminismo e agli inizi del romanticismo:

– economica: in quegli anni si sviluppa una nuova scienza, ovvero la demografia, e questo ha permesso di diventare più consapevoli rispetto all’importanza che in una nazione assume il numero dei cittadini. Se le madri dedicano più tempo alle cure del bambino, aumentano le sue probabilità di sopravvivenza, in un secolo in cui la mortalità infantile è estremamente elevata. Nel Settecento le madri, secondo la Badinter avevano una funzione simile a quella degli allevatori o degli agricoltori. Da un punto di vista prettamente economico, cioè, una popolazione più numerosa permetteva di raggiungere una maggior ricchezza e benessere. Il bambino, in questi anni, inizia ad assumere la funzione di merce: egli rappresenta una potenziale ricchezza e quindi è da tutelare. .

-filosofica: Elisabeth Badinter analizza la filosofia del Settecento in Francia e individua due grandi ideali portati avanti dall’Illuminismo, ovvero l’uguaglianza e la felicità individuale. Per quanto riguarda il concetto di uguaglianza, l’autrice sottolinea come, in realtà, questo fosse rivolto più ad una uguaglianza tra uomini all’interno delle diverse classi sociali, che tra i diversi esseri umani (ovvero uomini, donne e bambini). Tuttavia ciò favorì il riconoscimento, anche se in maniera non completa, dello status di bambino e di madre. La donna, in quanto madre, veniva valorizzata e investita di una certa autonomia rispetto alla cura della prole. Il secondo ideale filosofico perseguito dall’Illuminismo, è quello di felicità. Questa filosofia ha favorito uno spostamento di interesse nei confronti della vita attuale: l’obiettivo non è più quello di prepararci alla morte cercando di mantenere un’anima pura, ma vivere nel qui ed ora. L’uomo è fatto per essere felice e i filosofi hanno il compito di individuare gli elementi che permettono che ciò si realizzi. Si parla di “ragionevole felicità” che è quella che si raggiunge nel momento in cui fisicamente si è sani, si ha una coscienza tranquilla e le condizioni di vita sono soddisfacenti. Ecco allora che se la felicità non solo è possibile, ma pure auspicabile, il microsistema familiare diventa il contesto privilegiato per raggiungerla. Nel Settecento si prende, così, coscienza del fatto che i rapporti familiari (tra coniugi, ma anche tra genitori e figli) possono contribuire alla felicità solo se fondati sull’amore. Non l’amore passionale soggetto ad andamento imprevedibile, ma l’amore-affetto. L’amore diventa, in questo modo, un diritto di ognuno, ne consegue che il matrimonio deve essere una libera scelta poiché rappresenta il luogo privilegiato della felicità, il cui culmine consiste con la procreazione. La maternità, seguendo questa prospettiva, non è più un dovere imposto, ma rappresenterebbe la più dolce e invidiabile attività cui una donna può aspirare.

L’antropologia del XVIII secolo era orientata quasi esclusivamente ad affermare la personalità dell’uomo e trascurava – come del resto faceva, nello stesso secolo, la metafisica – quella della donna, alla quale rendeva onore solo affermando che le era consentito essere l’amante dell’uomo, un modo per affermare la sua dignità umana. Il ruolo della donna era principalmente quello di piacere all’uomo e di soddisfarlo, una cosa che gli illuministi non ritenevano né sufficiente né adeguata. Fu dunque soprattutto il romanticismo a indicare il vero ( e forse unico) valore della donna nella maternità, un riconoscimento che si inquadrava nella visione romantica del mondo. L’idea della vita, quella che si considera come l’idea più universale del romanticismo, non poteva che sottolineare l’importanza della maternità nel grande organismo umano, mostrando naturalmente estremo rispetto nei confronti del mistero della vita nel grembo materno. Con grande acume il romanticismo confutò la filosofia aristotelica e scolastica che considerava gli esseri viventi come caratterizzati da un binomio , quello dell’azione e quello della potenza, e distingueva su questa base l’uomo, prevalentemente attivo, e la donna prevalentemente passiva. Secondo il romanticismo la generazione richiedeva la partecipazione piena e totale della natura, perfetta in Dio e certamente imperfetta nell’uomo, tanto da richiedere la partecipazione dei due sessi.

Certamente le cose sono ancora più complesse: ad esempio desiderio di maternità e desiderio di gravidanza sono due cose diverse che non vanno confuse tra loro. Ma l’idea di premiare la gravidanza non può essere isolata da quanto ne segue, che è evidentemente un rimprovero alla scelta di non diventare madre, e che ha per scopo evidente l’invio al confino della casa e della cucina della donna moderna, che da questa prigione sperava di essere riuscita ad evadere. Significa riportare alla luce le ormai sepolte ipotesi di Rousseau che nel 1762 con l’Emilio aveva dato l’avvio all’idea di istinto materno, costruendo un ideale femminile di felicità e di compiutezza atto a convincere le donne che occupandosi solo dei figli avrebbero assunto un ruolo fondamentale e degno nella società, condannando tute le donne non perfette, inadatte ad assolverlo in modo esemplare: da queste sue invenzioni è nata la sensazione di colpa che ancor oggi provano molte donne quando scoprono di essere sterili, soprattutto quando si tratta di patologie delle quali è responsabile il loro stesso comportamento. E’ il modello della buona e della cattiva madre che più o meno consapevolmente ci trasciniamo ancora oggi.

In effetti, le contumelie che Rousseau rivolgeva alle balie – accusate di essere ignoranti, incolte e immorali prostitute – erano state precedute (l’Emilio fu pubblicato nel 1762) da analoghi insulti scritti da un chirurgo italiano, Sebastiano Melli (La Comare Levatrice, Venezia, 1750) che le aveva accusate, tra le altre cose, non solo di meretricio, ma di essere quasi tutte malate di sifilide, anticipando di un decennio Rousseau e di due secoli e mezzo e più il ministro Lorenzin. Queste accuse erano soprattutto basate sul concetto che la maternità, istinto naturale e compito primo delle donne, imponeva che dopo la nutrizione placentare nel grembo il feto dovesse essere nutrito, e solo dalla sua madre biologica, dal seno e considerava questa una legge naturale inviolabile. Il settecento fu l’anno in cui in Francia esplose il baliatico e per questo medici e filosofi, valendosi anche della esperienza dei medici che affermavano, giustamente, che l’allattamento al seno materno salvava molti bambini da morte certa, condannarono duramente l’allattamento mercenario rivolgendo accuse durissime alle povere e incolpevoli balie . Ma la condanna era anche dovuta alla valorizzazione che la chiesa aveva finito per concedere, in forma ipertrofica alla maternità, considerata soprattutto come evento naturale e che con la verginità aveva finito col diventare l’unica forma riconosciuta e socialmente approvata della femminilità. Ci sembra interessante sottolineare il fatto che il valore della verginità è ormai definitivamente diventato archeologia, mentre il culto della maternità come “istinto naturale” sopravvive ancora.

La ragione fondamentale della condanna del baliatico non è dunque di ordine sanitario, ma morale e religioso. La gravidanza , secondo i principi accettati nel XVIII secolo e confermati dalla opinione della scienza, può essere divisa in due parti, la prima un periodo di nove mesi durante il quale la madre nutre la sua creatura all’interno del grembo e utilizzando la placenta, un periodo di lunghezza incerta ( ma non inferiore ad altri nove mesi) in cui la nutrizione passa dalla placenta alle mammelle e la donna tiene in braccio la sua creatura, così come il canguro femmina la ospita nel suo marsupio, dare il proprio latte dopo aver dato il proprio sangue, in fondo, non cambia una relazione naturalmente virtuosa. Nei confronti di queste due fasi, che rappresentano un fenomeno unico – quello di “fare un figlio” – la donna prova una propensione unica e speciale, quello che viene definito un “istinto naturale” che fa parte dell’istinto di conservazione della specie. Le ragioni della sopravvivenza di questo “culto della maternità” le elenca Marina Valcarenghi ( La sofferenza psichica della madre , Madre de-genere, a cura di Saveria Chemotti, Il Poligrafo, 2008): la maternità è stata per millenni l’unico territorio di affermazione dell’identità e l’unico spazio di potere (relativo) riconosciuto, un condizionamento difficile da cambiare nel giro di poche generazioni; il mondo è costruito a misura di uomo ed è inevitabile in molte occasioni e per molti donne rifluire in un ruolo tradizionale, in uno spazio sperimentato, conosciuto e sicuro. Insomma, è la storia della sua oppressione che rappresenta il freno principale alla emancipazione della donna.

Le modalità del baliatico si sono molto modificate nel tempo : dalle balie che nutrono i figli degli aristocratici e della borghesia ricca si passa alle balie che lavorano negli ospedale per l’infanzia abbandonata e per i figli degli operai e dei proletari urbanizzati; dalle balie che accettano di nutrire un figlio nella propria casa (il che significa anche crescerlo ed educarlo) si passa a quelle che lasciano la loro dimora anche per anni, per nutrire i rampolli delle classi abbienti. Le ragioni per cui una donna decideva di nutrire i figli di un’altra donna, correndo il rischio di veder morire i propri, privati della garanzia del latte materno, sono sempre le stesse, il bisogno di denaro. Più difficile stabilire le ragioni per cui le donne decidevano di ricorrere a una nutrice, una volta chiarito che i motivi medici erano certamente in minoranza. Secondo Anne Bouchard-Godard ( Mère or nourrice? Les Cahiers du nouveau-né, 3, 1980) questa scelta potrebbe essere interpretata come un tentativo di porre una distanza tra madre naturale e madre educatrice o simbolica, una ipotesi secondo la quale la nutrice prende il posto della madre biologica, assicurando la nutrizione, mentre la madre vera , che per nove mesi è stata « madre animale » diventa madre simbolica, una funzione minacciata dall’atto unicamente biologico dell’allattamento e salvaguardata dal gioco delle sostituzioni. In realtà è molto più verisimile immaginare che il baliatico da un lato consenta a molti uomini di non rinunciare ai propri privilegi sessuali e dall’altro metta in evidenza una certa immagine “preziosa” della donna che è divenuta un oggetto di consumo e deve gestire il suo corpo senza il rischio i trasformarlo in una volgare fonte di nutrimento. In altri termini, molte donne avvertono la necessità di sentirsi libere dai condizionamenti imposti dalla maternità e dall’allattamento che potrebbero impedire loro di svolgere il proprio ruolo sociale.

9 – OGGI

La critica alla visione romantica e ipernaturalista della maternità e alla invenzione di un “istinto materno” inizia nell’Ottocento e la si trova compendiata – ma è solo un esempio – in molti degli scritti di William James. Riprendo le sue conclusioni da un suo testo del 1890, Principles of physiology: « L’istituto naturale della maternità e della paternità non esiste affatto e rappresenta solo un mito molto enfatizzato in Occidente. Si tratta di un’affermazione che s’incentra su una certa visione dell’uomo, tipica della nostra società, in cui la scienza, e in particolare la medicina, pretendono di avere la chiave della nostra identità. Bisogna invece riflettere sul fatto che questa pretesa è soltanto un’illusione o, più esattamente, il mito su cui si è fondata, in Occidente, l’immagine della maternità e della paternità. In effetti, in altre parti del mondo, altre culture hanno creato, sulla genitorialità, miti molto diversi. Dunque, così come è biologicamente vero che una gravidanza è il prodotto della fecondazione di un ovulo per opera di uno spermatozoo, allo stesso modo è sbagliato trarne una qualsiasi definizione di paternità e maternità, definizione che è di ordine simbolico e non di ordine biologico. Il semplice buon senso mostra, d’altra parte, che quando un uomo e una donna aspettano un bambino e dicono di averlo concepito insieme, la prova biologica di ciò è difficile da ottenere ed è in genere solo la loro parola ad affermare che è così e che lo spermatozoo fecondante non è di provenienza diversa.”

Dire che siamo esseri parlanti equivale a dire che siamo esseri intelligenti, ed equivale anche a dire che siamo indirizzati a essere molto di più della nostra biologia. Parlare del desiderio di avere un figlio, parlare dell’essere genitori, significa trascendere l’ordine biologico per accedere a un altro, quello su cui noi ci basiamo in quanto esseri umani, e cioè l’ordine del senso. Non esistono dunque altri genitori che quelli culturalmente definiti tali e cioè quelli che una certa cultura attribuisce a un certo bambino. Da ciò scaturisce l’esistenza di diversi modelli possibili di maternità e di paternità.

In effetti, l’antropologia ci mostra che: il padre di un bambino non è necessariamente il suo genitore biologico; egli non è necessariamente l’uomo che vive con la madre; al momento del concepimento del bambino, può essere morto da molto tempo; può essere una donna; può essere Dio; la madre di un bambino non è necessariamente la sua madre biologica; può essere sua nonna; può essere sua zia; una donna sterile può essere la madre di un bambino che le viene attribuito secondo le regole della circolazione dei bambini propria della sulla cultura. A tutte queste modalità di filiazione viene riconosciuta legittimità sociale.

Anche nella nostra società si è comunque fatta strada, con la lentezza che contraddistingue tutte le modificazioni del senso della morale comune, l’idea che alla genitorialità tradizionale si possa affiancare quella di una paternità e di una maternità basate sulla promessa di presenza: siamo i tuoi genitori perché staremo vicino a te per far sì che la tua qualità di vita sia la migliore possibile e per garantirti le cose sulle quali ogni bambino dovrebbe poter contare. Come si può capire si tratta di una genitorialità altrettanto virtuosa quanto lo è quella tradizionale e che include la donazione di gameti, la donazione di embrioni e l’adozione, una idea di “etica del dono ” che si affianca ad altre forme di donazione più prettamente biologiche, come quella di sangue e quella di organi. Tutti questi gesti oblativi, sia biologici che sociali, si inscrivono idealmente all’interno di un principio di solidarietà generale che deve certamente essere difeso dalla ingerenza del mercato, ma che non può essere negato per paura di vederlo inquinato da interessi commerciali. La paura, la diffidenza preventiva che il nuovo suscita, l’abuso del principio di precauzione, sono atteggiamenti che dovrebbero essere contrastati nel solo modo legittimo nelle società democratiche, attraverso la lettura attenta della carta costituzionale.

D’altra parte, esistono esempi di genitorialità opposti. Nelle isole Tobriand la figura del padre non esiste (padre è solo colui che vive con la madre, non è il genitore del figlio) e la donna è resa fertile da microscopiche entità (in genere lo spirito di un parente) che introducono i figli nel suo utero. E’ evidentemente una società che ha tendenze animistiche e che risolve il problema della discendenza maschile con l’avuncolato, che fa dello zio materno il vero padre dei bambini. Questa ‘avuncoli potestas’ era conosciuta in Europa, almeno dai Lici (ne parla Erodoto) e dai Germani (la cita Tacito).

Non è però affatto detto che l’animismo porti a queste conclusioni: nel Senegal, ad esempio, dove la maternità ha un grande valore sociale, anche il ruolo paterno gode di grande prestigio, mentre presso alcuni abitanti del Brasile la maternità è considerata una sorta di maledizione e in Nuova Guinea i bambini sono figli esclusivi della divinità. E poi c’è il levirato, e poi ci sono numerosissimi altri modelli, a ognuno dei quali si riconoscono importanti qualità positive nell’educazione e nella crescita dei bambini.

In società come la nostra, a fianco del modello prevalente, ne esistono altri. Il 20% dei bambini viene educato da un padre diverso da quello biologico, e lo sa; poco meno del 10% si trova nelle stesse condizioni senza esserne a conoscenza. Un numero imprecisato di figli viene educato in famiglie monoparentali e l’ ISTAT nel suo rapporto del 2014 sulle tipologie familiari ha segnalato che le famiglie monogenitoriali ( che rappresentano ormai una realtà consistente in molti paesi europei ed extraeuropei) , in Italia sono cresciute in 10 anni del 25% e sono oggi il 15,3% delle famiglie italiane. Dopo aver a lungo cercato, debbo dire di non aver trovato un solo documento solido che asserisca che per curare un figlio è assolutamente necessaria la doppia genitorialità. Si consideri con attenzione il termine che ho usato: necessaria. Le affermazioni relative al fatto che avere due genitori ‘sia preferibile’ sono prevalentemente empiriche, non si basano su ricerche prospettiche e usano strumenti valutativi discutibili. Devo dire per correttezza che anche la documentazione che ho consultato e che afferma che non si riscontrano elementi negativi considerando i risultati dell’educazione impartita da genitori dello stesso sesso è scientificamente discutibile.

In realtà, quello che oggi pensano un uomo o una donna a proposito del significato della genitorialità è molto difficile da immaginare: in gran parte dipende dall’educazione che hanno ricevuto, dalla loro visione del mondo, dal loro senso comune, dalle loro esperienze di vita. Ciò è particolarmente vero per le donne, per le quali è sempre stato poco importante il concetto di genitorialità genetica. Alcune di loro sono persuase dell’importanza della responsabilità, altre desiderano avere una esperienza gestazionale, altre non sono per niente sicure della scelta che viene loro attribuita, ma non hanno il coraggio di contestarla. Non può essere privo di importanza il fatto che quando il genitore sostituito è il maschio, può accadere (e in realtà accade con una certa frequenza) che si verifichi un pentimento tardivo, cosa che – a quanto ne sappiamo – non è mai accaduta quando si tratta di una donazione di gameti femminili. In realtà, parlare delle donazioni di gameti maschili e di quelle di gameti femminili come se fossero una sola cosa è scorretto: sono diverse le motivazioni dei genitori, diverse le reazioni del genitore sostituito, diverse le conseguenze sull’equilibrio della famiglia. Del resto gli psicologi si sono sempre trovati d’accordo nel ritenere che gli uomini desiderano un figlio per continuare a vivere in lui e per dare al nome della famiglia la possibilità di continuare ad esistere nel tempo, mentre le donne – assai meno attente alla genetica – desiderano soprattutto avere tra le braccia qualcuno da poter amare ed educare e del quale essere responsabili.

A sostegno di questa interpretazione della maternità, considerata come un sentimento e non come un istinto naturale si sono schierate molte donne, troppo per essere citate qui. Lo ha fatto Jenn Diaz (La mujer sin Hijo, Jot Down Books, 2013) schierandosi con le donne che si rifiutano di lasciare che il proprio utero divenga un terreno di coltura e lo ha fatto Catherine Hakim nel suo saggio Childlessness in Europe (Research Report to the ESRN 2002-2003) nel quale afferma che il mito dell’istinto materno è creato dalla società per perpetuare l’obbligo morale di avere figli.

Del tutto recentemente Massimo Recalcati (Si fa presto a dire famiglia, Repubblica, 1°Maggio 2016) si è chiesto se esiste davvero un istinto genitoriale o se queste formulazioni non contengano piuttosto una profonda contraddizione. Se quello che nutre la vita rendendola umana, scrive, non è il seno ma l’amore di un adulto, possiamo davvero ridurre a famiglia all’evento biologico della generazione? Cosa significa essere genitori? Lo si diventa biologicamente o quando si riconosce con un gesto simbolico il proprio figlio assumendosi nei suoi confronti una responsabilità illimitata? Françoise Dolto, una psicoanalista francese che si è occupata soprattutto del rapporto tra gli adulti e i bambini, affermava che tutti i genitori sono adottivi, generare un figlio non è sufficiente per diventare un padre o una madre. Dunque è necessario un evento non biologico, estraneo alla natura, un atto simbolico, una decisione, una assunzione etica di responsabilità. E va ugualmente riconsiderata la questione del sesso, l’amore è sempre eterosessuale solo e sempre perché è amore per l’altro, l’eteros, e questo può accadere in una coppia gay, etero o lesbica nello stesso modo, non ci si può appiattire sulla differenza anatomica dei sessi, non è certo l’anatomia a garantire l’amore per l’altro.

Insomma, bussa prepotentemente alle porte un nuovo paradigma, un nuovo modello di riferimento , quello che in filosofia si chiamerebbe archetipo. Lo scontro è tra due prospettive antropologiche, e il punto in discussione riguarda il modo di interpretare la genitorialità, la famiglia, la convivenza sociale. Come sempre c’è chi difende disperatamente il vecchio paradigma; come sempre c’è chi si propone come mediatore (ieri lo fece Tycho Brahe , oggi il ministro Lorenzin). Temo (faccio per dire) che sia tutto tempo sprecato.

Volete qualche esempio? Negli USA un numero sempre crescente di donne giovanissime lascia le proprie cellule uovo in frigorifero con l’intento di andare a riprenderle dopo 20 anni, sottraendosi così alle punizioni sociali che gli uomini continuano a imporre alle ragazze; in molti laboratori si sperimentano modelli di ectogenesi che consentiranno alle donne di sottrarsi alla schiavitù delle gravidanze; nel 2013 la Corte Suprema degli Stati Uniti ha dichiarato illegittimo il Defence of marriage act, che impediva di riconoscere i matrimoni gay. Potremmo continuare, ma non crediamo che ne valga la pena: si tratta solo di capire che il mondo sta cambiando, perché il nuovo paradigma definisce un nuovo modello di società destinato a durare per un certo periodo di tempo, quanto nessuno lo può sapere. Una rivoluzione biomedica che si unisce a quella tecnologica e a quella sociale (spero che nessuno si sia dimenticato dell’aborto, del divorzio, dei milioni di bambini educati ( e bene ) da un solo genitore). E su questa straordinaria novità arriva la benedizione delle Corti di giustizia che ci avvertono che la regola etica si fa sulla base della morale di senso comune.

Il magistero cattolico ha identificato nella PMA, fin dai tempi in cui appariva solo come una terapia i nicchia applicata da medici avventurieri su pazienti avventurosi una violazione di alcuni principi irrinunciabili, primo tra tutti quello di non separare mai vita sessuale e vita riproduttiva. Questo principio morale, lo stesso sul quale il vescovo Caffarra basava le sue critiche, lo stesso che vieta ai cattolici l’uso di tecniche anticoncezionali non naturali, suscita perplessità in una parte della popolazione cattolica, come è dimostrato da alcune indagini sociologiche eseguite nelle coppie sterili e dall’esistenza di servizi per la procreazione assistita in molti ospedali cattolici. Il problema dell’accesso alle fecondazioni assistite (solo a coppie sposate o anche a coppie conviventi e, perché no, a coppie omosessuali e ai single?) e quello della donazione di gameti, riguardano direttamente il concetto di famiglia e il diritto di procreare: molto schematicamente l’alternativa è tra la libertà individuale e il principio di famiglia, modellato sulla coppia eterosessuale stabile o su quella sposata. A favore del principio di famiglia esistono considerazioni molto valide. Il principio è fortemente radicato nel nostro sistema normativo sia a livello costituzionale (articolo 29) che nella legislazione ordinaria e la sua centralità nel vigente diritto delle persone e della famiglia sembra trovare conferma nella legge di riforma del diritto di famiglia e nella nuova disciplina dell’adozione. La Corte Costituzionale ha poi recentemente ribadito il rilievo che bisogna dare alle esigenze obiettive della famiglia come tale, cioè come stabile istituzione sopraindividuale, precisando che «questa valutazione non può essere contraddetta da opposte visioni dell’interprete». Questo principio assume poi una particolare importanza nella prospettiva della realizzazione dell’interesse preminente del nascituro, il che sembrerebbe confermato dagli studi relativi alla psicologia dell’età evolutiva e, in campo giuridico, da recenti vicende in tema di adozione. Del resto la legislazione di molti paesi europei sembra muoversi in questo senso, consentendo la fecondazione artificiale solo se è presumibile che il bambino potrà crescere in un ambiente favorevole. Tra quanti sostengono questo punto di vista è poi prevalente l’idea di consentire l’accesso alle tecniche solo alle coppie unite in matrimonio, considerate le difficoltà che si incontrerebbero per stabilire i criteri di valutazione della stabilità delle coppie non sposate. I criteri di ammissione finirebbero dunque con l’essere molto simili a quelli ammessi per l’adozione. Sempre secondo questi principi dovrebbe essere negato l’accesso alle tecniche di fecondazione assistita alle donne in età postmenopausale e non dovrebbe essere consentita l’inseminazione delle vedove con il seme del marito depositato prima della morte. L’ingresso nell’unità familiare di un genoma estraneo, come avviene nelle donazioni di gameti, viene rifiutato con grande decisione in quanto responsabile di un grave disordine morale, capace persino di minare l’equilibrio affettivo della coppia. Del tutto opposta è l’opinione di quanti ritengono che il modello unitario della famiglia tradizionale debba essere superato a favore di una pluralità di modelli familiari . Viene poi sottolineata l’esistenza di un principio – non espresso, ma presente, nei termini di un diritto fondamentale, nel nostro ordinamento e nella nostra civiltà giuridica – per cui lo stato non interferisce con le sue valutazioni di idoneità nella scelta di procreare, sia delle donne che delle coppie. Il diritto della persona a procreare responsabilmente deve essere garantito indipendentemente dall’esistenza di difetti fisici e psichici, dalla condizione sociale o dallo status, pena la possibilità di introdurre una grave discriminazione fra le persone, in spregio dell’eguaglianza fondamentale tra di esse. La società, del resto, ha sempre cercato di essere garante di queste libertà e ha sempre espresso severi giudizi critici nel confronto delle violazioni (purtroppo numerose, sia in Europa che nell’America del nord). Se quanto ho detto vale per la procreazione naturale, non vediamo come si potrebbero creare differenze per la procreazione assistita: addirittura, se lo si facesse, le regole potrebbero tracimare da un campo all’altro, invadendo un settore nel quale la società ha sempre rifiutato con forza l’applicazione di norme limitanti. Sarebbe poi una grave discriminazione escludere le coppie conviventi dall’accesso alla fecondazione assistita; ciò diventerebbe un modo per gettare un ulteriore stigma sulla condizione di sterilità, mortificando ulteriormente coloro che la natura non ha favorito. Per quanto riguarda l’accesso delle donne sole, si sottolinea come non esistano prove relative all’indispensabilità dell’esistenza di due genitori e che anzi le esperienze umane sembrano deporre per il contrario. Si verrebbe a determinare, in questi casi, un conflitto di interessi tra due diritti relativi: quello di un bambino di nascere in una famiglia tradizionale e quello della donna di procreare. È opinione di molti che a far pendere la bilancia in favore del secondo diritto sia la possibilità di affermare l’esistenza, nelle richiedenti, della capacità di assumersi una responsabilità assoluta nei confronti del bambino del quale viene progettata la nascita: un progetto di genitorialità basato sull’etica della responsabilità, diverso dalla genitorialità naturale, ma non meno ricco di valori positivi. Questo argomento viene anche portato in favore delle donazioni di gameti: chi lo sostiene afferma che non c’è nulla di strano né di destabilizzante se anche nella nostra cultura si fa strada un differente concetto di genitorialità, basato sul principio dell’uguaglianza tra il fondamento biologico e quello sociale e nel riconoscimento, anche giuridico, della legittimità della derivazione sociale della paternità e della maternità a partire da quella che i filosofi chiamano l’etica della responsabilità. Nulla di strano né di destabilizzante se si lascia spazio a una nuova figura di genitore prevalentemente sociale – molto simile, del resto, a chi adotta – che include nella sua codificazione la componente biologica, ma senza coincidere necessariamente con essa, e che non tende a ricavare una dimensione giuridica da eventi biologici e naturali. La conclusione è che non dovrebbe interessare a nessuno sapere come un bambino venga concepito: ma dovremmo essere tutti molto preoccupati di sapere se chi l’ha concepito si è contemporaneamente assunto una precisa e definitiva responsabilità nei suoi confronti. Uno scrittore molto romantico – e oggi molto poco apprezzato – soleva affermare che si è genitori (buoni genitori) se si è in grado di assicurare la propria presenza nel momento del bisogno. Non trovo niente di disprezzabile in questa romantica definizione.

La legge 40 approvata dal Parlamento nel 2004 è stata il risultato di un particolare e molto probabilmente irripetibile accordo tra la Chiesa cattolica e una parte consistente della destra italiana, due poteri incompleti e imperfetti in cerca di alleanze. La legge, una incredibile sequenza di proibizioni e divieti, era stata scritta sulla falsariga della dottrina religiosa ma portava già dentro di sé, per come era stata articolata, le ragioni del proprio inevitabile sgretolamento. E’ stata raccontata molte volte l’esperienza degli “esperti”, convocati nelle stanze delle Commissioni della Camera e del Senato che discutevano delle varie norme prima di portarle in aula per l’approvazione. Perché questi esperti venissero convocati è difficile dirlo, la legge era stata dichiarata “blindata” dalle segreterie dei partiti che la sostenevano e non esisteva alcuna possibilità di modificarla, quali che fossero i possibili buoni consigli degli esperti, che naturalmente nessuno ascoltava. Ma ci consta che nel corso di quelle audizioni gli esperti venivano informati del fatto che all’interno delle varie norme erano state inserite vie di fuga, escamotage che avrebbero consentito di evitare le apparenti asprezze della legge sfuggendo così ai suoi rigori e rendendola più accettabile ed umana. Di queste “passerelle” ne riportiamo una a mo’ di esempio: un articolo della legge vieta alle coppie di abbandonare i trattamenti dopo che sono stati prodotti gli embrioni, obbligando in pratica la donna a riceverli nel proprio grembo, una delle tante norme scritte in difesa dei prodotti del concepimento. L’obiezione è immediata e importante: che fare se l’embrione fosse risultato, anche alla sola analisi morfologica, imperfetto? Ebbene, poiché l’articolo in questione non menziona alcuna sanzione per la donna che rifiuta il trasferimento di quell’embrione ecco che la norma doveva essere considerata “imperfetta”, priva di ogni significato giuridico, con il solo significato di una dichiarazione di principio. Ebbene di queste “passerelle” nemmeno una è stata utilizzata dalle commissioni che hanno approvato le linee guida.

In realtà la legge 40 è stata scritta tenendo unicamente conto delle regole morali che troviamo scritte nella dottrina cattolica, regole che non hanno retto alla critica dei giuristi che operano nella nostra Corte Costituzionale i quali, con una serie di interventi, hanno dichiarato illegittime gran parte dei divieti in essa contenuti, al punto che le uniche proibizioni superstiti di qualche rilievo sono quelle relative alla maternità per altri e alla ricerca sugli embrioni(un divieto quest’ultimo, come vedremo, tutt’altro che assoluto). Il che ci induce a ragionare su uno dei temi più importanti della bioetica, la definizione di come si debba formare la regola morale.

10- LA MORALE DI SENSO COMUNE

Nel suo Dizionario di Filosofia Nicola Abbagnano scrive che un Paese nel quale diventano norme di legge le regole di una qualsiasi morale religiosa è un Paese governato da persone disoneste. Più recentemente, in una sentenza della Corte per i diritti dell’uomo relativa a un divieto di donazioni di gameti esistente in un Paese europeo (sentenza oltretutto in favore nella norma in discussione) si trova una sorta di messaggio inviato ai legislatori europei che li invita a preparare e approvare norme “leggere” sui temi della bioetica e a ritornare spesso per rivedere ed eventualmente modificare le norme approvate, sulla base di un ragionamento che riassumiamo:

– Il progresso delle conoscenze nel campo della medicina della riproduzione e degli altri temi cari alla bioetica è molto rapido;

– Di questo progresso la società è informata tempestivamente e il giudizio dei cittadini tende a modificarsi con la stessa velocità perché viene influenzato dalla conoscenza dei vantaggi che i nuovi progressi portano con sé;

– Il legislatore deve tener conto di queste modificazioni e mantenere una costante armonia tra la norma giuridica e la morale di senso comune perché è da questa e non dalla dottrina che si forma la regola etica.

Un recente articolo di Mikel Mancisidor, presidente dell’ International Institute for the Human Right to Science and UN Committee on Economic, Social and Cultural Rights (Is there such a Thing as a Human Right to Science in International Law) afferma che esiste un diritto umano alla scienza che trae le sue origini dall’ articolo 27 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948, dove si parla del diritto di partecipare al progresso scientifico e ai suoi benefici ( e l’uomo gode di una simile diritto nei confronti della cultura e delle arti) e dall’articolo 15 del patto internazionale sui diritti economici sociali e culturali. Mancisidor dichiara di preferire una definizione diversa e cioè quella di diritto dell’uomo alla scienza e alla tecnologia, per sottolineare l’importanza della tecnica nelle nostre vite. Crediamo che sia utile fare alcune precisazioni: la prima riguarda la forza di questo diritto, che deve essere la maggiore possibile perché in realtà la scienza appartiene all’uomo. La seconda ha invece a che fare con le conseguenze che seguono immediatamente il riconoscimento di questa diritto/proprietà e che insistono sull’esistenza di un diritto al consenso informato sociale per tutte le ipotesi di conoscenza possibili e persino sulla formulazione delle regole etiche alle quali la ricerca scientifica deve ubbidire. Ne parlava, molti anni or sono, Giovanni Berlinguer secondo il quale “si può forse dire che il principio del consenso informato, un principio che universalmente riconosciuto ma che spesso viene svuotato di quel contenuto dialogico che dovrebbe caratterizzare il rapporto tra il medico e il malato, può valere anche, su scala più ampia, per il rapporto tra la ricerca scientifica e i cittadini . Si tratta di formare un “consenso sociale informato ” alle priorità delle ricerche biomediche, i loro metodi e alle loro applicazioni , un consenso che può svolgere una funzione di garanzia e di promozione della scienza in un periodo nel quale i suoi quotidiani progressi suscitano speranze e preoccupazioni crescenti. ”

Ma quale è, in termini di estrema concretezza, la relazione tra il senso comune , la suuamorale e la scienza?

Il senso comune era presente negli individui della nostra specie molto prima di quella che definiamo civiltà. Gli uomini sapevano trarre, dall’ambiente nel quale vivevano un grande numero di informazioni: riconoscere le sostanze con le quali nutrirsi; coltivare il suolo; accendere il fuoco; comunicare con gli altri uomini; darsi una organizzazione sociale ed eleggere i propri capi; trasportare gli oggetti su carri muniti di ruote, Dunque l’acquisizione di un grande numero di conoscenze non attese l’arrivo della scienza moderna né l’uso consapevole dei suoi metodi.

Dunque, il semplice uso del senso comune ci consente di progredire sulla via della conoscenza. Ma quale è allora il contributo della scienza? In cosa ci favoriscono i suoi complessi strumenti intellettivi e materiali? Per dare una definizione definitiva della scienza bisogna dare una risposta definitiva a questi quesiti.

In realtà noi tendiamo a sprecare l’aggettivo scientifico forse perché crediamo di essere in possesso di un certo numero di verità, pretesa del tutto falsa. D’altra parte se decidessimo di chiamare scientifico solo quello che è vero in modo incontrovertibile, dovremmo abbandonare l’uso del termine. In realtà scienza e scientifico servono per identificare un’opera continua di ricerca e i suoi prodotti intellettuale e per indicarne i tratti caratteristici.

A questo punto ci dobbiamo chiedere quali sono i tratti e gli aspetti per i quali la conoscenza del senso comune differisce dai prodotti della scienza moderna, Premesso comunque che non esiste una linea di demarcazione perfettamente delineata.

E’ vero che molte scienze sono nate da necessità pratiche quotidiane: la geometria dalla necessità di misurare i campi; la meccanica dai quesiti posti dall’arte della guerra; la biologia dai problemi di salute dell’uomo e degli animali. Molti studiosi sono stati colpiti dalla continuità storica tra le convinzioni del senso comune e le conclusioni scientifiche e hanno concluso che le scienze sono senso comune organizzato o classificato.

E’ vero che le scienze sono corpi di conoscenza organizzata e che ogni scienza opera attraverso classificazioni . Ma la formula proposta – le scienze sono senso comune organizzato o classificato – non è adeguata a descrivere la differenza tra senso comune e scienza. Un catalogo librario è in sé una importante classificazione ma non è scienza.

In realtà la definizione non chiarisce quale sia il genere di classificazione e di organizzazione che è caratteristico della scienza. Intanto: le informazioni acquisite dal senso comune non sono accompagnate da una spiegazione ( il carro ha bisogno di ruote per diminuire le forze di attrito; le piante medicinali contengono specifiche sostanze curative) e vengono talora accompagnate da spiegazioni sbagliate ( la digitale è utile ai cardiopatici perché le sue foglie hanno la forma del cuore).

Quello che genera la scienza è il desiderio di spiegazioni al contempo sistematiche e controllabili alla prova dei fatti. Il suo scopo distintivo è l’organizzazione e la classificazione delle conoscenze sulla base di principi esplicativi. Insomma le scienze cercano di scoprire le condizioni in cui si compiono eventi di vario genere e di formularle in termini generali: le caratteristiche distintive della scienza sono la capacità di spiegare e di stabilire relazioni tra proposizioni che ne sono apparentemente prive , di dimostrare che esistono collegamenti tra contenuti di informazione apparentemente riuniti senza un ordine.

La conseguenza (pressoché diretta) del suo carattere sistematico consiste in un ulteriore numero di differenze tra senso comune e ricerca scientifica, Il senso comune è raramente consapevole dei limiti entro i quali sono valide le sue convinzioni ed efficaci le sue pratiche. Esempio: le proprietà di un fertilizzante vengono assunte come un beneficio stabile e continuo mentre non è detto che sia così, è una valutazione empirica che può rivelarsi fallace e dannosa. Ne deriva che la conoscenza che viene fornita dal senso comune è più adeguata a quelle situazioni nelle quali un certo numero di fattori resta immutato nel tempo. La conoscenza del senso comune è incompleta.

La scienza raffina le concezioni nate dal senso comune stabilendo relazioni sistematiche tra le proposizioni relative alla materia di conoscenza comune; il senso comune ha scarso interesse per le spiegazioni sistematiche dei fatti che osserva: in questo modo il campo di applicazione delle sue convinzioni è molto limitato, cosa che non crea particolari problemi perché lo stesso senso comune non lo considera importante.

Il senso comune presenta la caratteristica che alcuni dei suoi giudizi sono in contraddizione tra di loro . La scienza colpisce la radice di questi conflitti introducendo una interpretazione sistematica dei fatti, mettendo in evidenza le relazioni logiche tra le proposizioni , accertano le conseguenze degli eventi. Non esiste però una garanzia che la scienza possa eliminare tutte le contraddizioni (che comunque non sono mai altrettanto clamorose come quelle del s.c.).

La scienza riduce l’indeterminatezza del linguaggio ordinario riplasmandolo. La scienza (la conoscenza teorica) trascura il valore immediato delle cose , di cui si occupa in larga misura il senso comune. Fa uso di concetti astratti che non sembrano pertinenti con gli elementi familiari. Questo carattere astratto è fondamentale per consentire spiegazioni sistematiche e generali.

Le conclusioni della scienza sono il prodotto del metodo scientifico: continua critica degli argomenti alla luce di canoni sperimentali per giudicare la fondatezza delle procedure usate per ottenere i dati probativi e per fissare la forza dimostrata dalla prova sulla quale si sono basate le conclusioni. Ciò non significa che le pretese conoscitive della scienza siano sempre vere.

Queste definizioni ci dicono molto su come opera la scienza, ma non ci dicono in realtà cos’è la scienza. Abbiamo dunque bisogno di un’altra definizione, e ne scegliamo anche questa volta una che condividiamo appieno: la scienza è il maggiore degli investimenti sociali, un investimento in cui la società si impegna per migliorare la propria qualità di vita (e in particolare quella delle persone più fragili e sfortunate); si potrebbe aggiungere che avendo capito che la natura distribuisce la sofferenza disordinatamente e stupidamente, gli uomini si sono affidati alla loro ragione strumentale, la scienza, per mettere ordine e diminuire la sofferenza.

La scienza occupa un posto ben preciso nella società ed è una voce importante nel bilancio nazionale, con rapporti di grande rilievo con la medicina, la tecnologia, la legge e la politica. Difendere la scienza accademica dagli sconfinamenti della ricerca industriale non è dunque solo un problema morale: è un dovere sociale, non assolvendo il quale si consegna la società ad una pseudo-scienza priva di responsabilità, insincera e certamente non virtuosa. Ebbene, delle molte cose che si possono fare per riportare la scienza alla produzione di una conoscenza non interessata e comunque sottoposta al controllo sociale, nessun governo, a mia memoria, si è mai realmente interessato.

Si tratta adesso di stabilire le norme alle quali i ricercatori si debbono attenere: meglio ancora, si tratta di decidere chi deve stabilire queste norme.

La prima proposta è stata quella di applicare questo compito alla religione, o alle religioni, una scelta sulla quale ci dichiariamo molto dubbiosi.

Anzitutto, pensiamo che Buddha, Gesù e Maometto non avessero la più pallida idea dei problemi che dobbiamo affrontare oggi, e non crediamo che esista persona al mondo che possa immaginare che tipo di risposte avrebbero dato se si trovassero al nostro posto. In più, le morali religiose sono generalmente lente, ossificate, inadeguate a rispondere ai quesiti che sempre più spesso la ricerca scientifica ci propone. Si tratta di posizioni morali che non sono condivise da tutti, e che nei paesi laici dovrebbero avere lo stesso peso di tutte le altre posizioni con le quali sono costrette a confrontarsi. Se pensiamo a questo Paese, non possiamo poi ignorare quanto spesso la morale religiosa dominante, quella cattolica, sia dogmatica, confusa, prepotente, intollerante, inadatta a qualsiasi forma di mediazioni.

Per fortuna, il nostro è un Paese laico, basato su una concezione secolare del potere politico, che colloca tutte le confessioni religiose su uno stesso piano di uguale libertà senza istituire, nei loro confronti, né un sistema di privilegi, né un sistema di controlli. E in paese laico deve essere privilegiata la cultura laica, della quale ci limitiamo a dare due definizioni. La prima è di Guido Calogero e afferma che la laicità non è né una filosofia né una ideologia, ma il metodo di convivenza di tutte le filosofie e di tutte le ideologie possibili. La seconda è di Nicola Abbagnano che interpreta la laicità come autonomia reciproca tra tutte le attività umane, che non possono essere subordinate le une alle altre, ma debbono automaticamente svolgersi secondo le proprie finalità e le proprie regole interne, un’accezione nella quale la laicità corrisponde, nei rapporti tra le attività umane, alla libertà nei rapporti tra gli individui. Per fare più diretto riferimento al problema della scienza, secondo questo principio ad ogni studioso dovrebbe essere lasciata la più ampia sfera di decisioni autonome compatibili con l’interesse della collettività.

Per ragionare in termini più concreti, si può immaginare che a considerare le scelte della ricerca scientifica e a limitare la libertà di ricerca scientifica di ogni singolo operatore possa essere chiamata una generale disposizione della coscienza collettiva dell’uomo che definiremo, per semplicità, morale di senso comune: sarebbe del resto impensabile che la scienza, prolungamento del senso comune, diverso da questo solo per essere dotato di rigore metodologico, dovesse affidarsi a una etica di differente origine. La morale di senso comune, che si forma per molteplici influenze dentro ognuno di noi, ha sempre avuto un dialogo fondamentalmente utile con la scienza e, malgrado i suoi dubbi e i suoi timori, pur essendo molto restia ad accettare persino le più elementari proposte di cambiamento, ha generalmente ceduto di fronte a quelle che vengono definite “le intuizioni delle conoscenze possibili” ogni qual volta è riuscita a trovare, in esse, indicazioni precise sui vantaggi impliciti e garanzie nei confronti di rischi possibili. Per queste ragioni si è continuamente modificata nel tempo adattandosi al nuovo, con molta cautela e superando molte perplessità. Crediamo dunque che si possa dire che è così che si modifica nel tempo la dottrina ed è per queste ragioni che anche le morali religiose non possono restare immodificate col trascorrere dei secoli, ma debbono trovare il modo di adattarsi, anche se di malavoglia e evitando di identificare la morale laica con l’alito del demonio. Si tratta, dunque, di un’etica collettiva laica, alla quale spetterà il compito , in avvenire, di prendere importanti decisioni che riguarderanno non più tanto cosa dobbiamo fare, ma cosa vogliamo fare. Decisioni che ci riguardano tutti, ma alle quali non siamo preparati. È, naturalmente, un problema di democrazia: tutti i cittadini debbono conoscere le conseguenze possibili degli scenari immaginabili.

Per concludere ci sembra ormai vincente l’idea secondo la quale la regola morale non si forma sui dettami della dottrina di una religione, che sono notoriamente immobili e definitivi: la regola morale è invece in continuo movimento, perché si forma sulla base delle rapide modificazioni della morale di senso comune, della quale condivide esitazioni, perplessità e tentennamenti, ma che alla fine risulta capace di rendere accettabili elementi di novità che erano stati precedentemente considerati con sospetto e respinti: è necessario avere pazienza ed è particolarmente utile che la scienza sappia parlare di sé, illustrare i vantaggi che derivano dalle conoscenze possibili ed eliminare dal terreno i fantasmi dei rischi che il progresso delle conoscenze potrebbe celare. E’ così che gli uomini non riescono più a considerare la dottrina come una verità rivelata ed è così che anche uno scisma sommerso riesce a venire alla luce.

11 – IL CONFLITTO DI PARADIGMI

La PMA nasce come tecnica che deve risolvere dapprima le sole sterilità meccaniche femminili e in un secondo tempo anche una congerie di ipofertilità maschili inclusa quella dovuta alla impotenza coeundi. Che sia solo una tecnica vien fatto di dubitarlo quando si scopre che cosa effettivamente cambia con il suo avvento: il biologo ha in mano un embrione; lo può studiare, usare per la ricerca scientifica, trarne cellule staminali totipotenti, utilizzarlo per la clonazione, congelarlo per un uso futuro, trasferirlo a una donna che non è la sua madre biologica, dividerlo per creare dei gemelli. La ricerca scientifica si impegna in una serie di sperimentazioni che ci limitiamo a elencare:

– crioconservazione di gameti e di embrioni

– prelievo di embrioni dalla cavità uterina per vari scopi

– selezione (di embrioni ma anche di gameti)

– maternità per altri (oblativa e remunerata)

– donazione di placenta

– utilizzazione di gameti fetali

– ectogenesi

– produzione di gameti

– trapianti di utero

– terapia genica o gene editing

– utilizzazione delle cellule staminali embrionali

Una delle cose che ci ha fatto capire meglio quanto e quanto velocemente dovranno modificarsi le nostre visoni del mondo- forse la meno imporrante, dal punto di vista scientifico e tecnico, tra tutte quelle che la ricerca scientifica ci ha proposto in tempi recenti – è la seguente: negli Stati Uniti sono stati approvati progetti d ricerca che consentono di portare a maturazione oociti primordiali reperiti nel materiale abortivo. Si tratta naturalmente di aborti volontari eseguiti a donne che hanno dato il loro consenso all’uso dei loro tessuti fetali a scopo di ricerca e di sperimentazione. Siamo dunque alle soglie di un novità, scientificamente non strabiliante ma di notevole impatto dal punto di vista psicologico: i medici sono ormai nelle condizioni di utilizzare questi oociti per ottenere una gravidanza e per far nascere un bambino la cui madre non è mai vissuta. Non sapremmo dire perché, ma ci sembra che questa notizia abbia una risonanza affettiva straordinaria della quale andrebbero capito meglio le cause.

In ogni caso, per capire quale straordinaria rivoluzione sia alle porte proviamo a immaginare che la scienza riesca a completare le sue esperienze sull’utero artificiale e offra alla società degli uomini l’ectogenesi, che non vuol dire solo la possibilità di liberare le donne dagli impegni di nove mesi di gestazione, significa anche senza impacci di patologia, senza aborti e parti prematuri senza tagli cesarei e complicazione puerperali e perinatali. Ebbene, in quel momento ci troveremo di fronte a una serie di interrogativi dovuti ad esempio al fatto che la figura materna e la figura paterna saranno equivalenti e non esisterà più la maternità gestazionale. Dovrà essere riequilibrata la relazione tra i sessi, si dovrà scoprire se la mancanza di un riferimento gestazionale umano crea problemi ai figli, il mondo non sarà mai più lo stesso. Ci saranno certamente delle resistenze, ma saranno resistenze inevitabilmente modeste, basate su interpretazioni metafisiche del rapporto materno fetale, mai dimostrate valide dalla ricerca scientifica: Ne elenchiamo alcune per sottolinearne l’evidente assenza di credibilità: gli ormoni del maternage, la prolattina e l’ossitocina, sarebbero in grado di realizzare il miracolo di un fusione spirituale tra la madre e suo figlio; le cellule fetali colonizzerebbero alcuni tessuti materni e interverrebbero in favore della donna nel corso di alcune malattie; esisterebbe il passaggio transplacentare di sostanze ancora ignote con il risultato di creare tra i due protagonisti della gestazione un legame affettivo privo di possibili confronti. Si tratta di ipotesi che condividono tutte l’assoluta mancanza di prove e attribuire loro un qualsiasi significato è, a die poco, disonesto.

Il problema è quello di scegliere tra due possibilità : contrastare il nuovo paradigma sulla base di argomentazioni prevalentemente metafisiche, che chiamano in causa l’abbandono e il tradimento della natura. e la possibilità di interferire con meccanismi per ora solo immaginati che sarebbero responsabili della cosiddetta umanizzazione del feto attraverso passaggi di afflati spirituali transplacentari, per ora non dimostrati ma molto cari alla metafisica querulo- romantica e piagnucolosa del cattolicesimo ( mamme ce ne è una sola, l’amore di mamma si abbevera di sacrificio e rinuncia e così via) ; gestire il cambiamento per evitare danni nella fase di transizione ( quelli che i cattolici definiscono disordini) e ingiustizie sociali grossolane. Questa scelta in realtà dovrebbe riguardare tute le iniziative della scienza che al momento impegna il 90 per cento degli investimenti in imprese che saranno utili al cinque per cento dei cittadini.

12 – LE NUOVE OFFERTE: DONAZIONI, COMPRAVENDITE, AFFITTI ET SIMILIA

A – La prostituzione non sessuale

Secondo l’Enciclopedia Treccani la prostituzione è l’attività abituale e professionale di chi offre prestazioni sessuali a scopo di lucro, una definizione forse persino troppo semplice. Il lemma deriva dal latino prostituere, a sua volta parola composta da pro e statuere, collocare, che assume il significato di mettere in vendita, cedere in cambio di denaro o di altri vantaggi ciò che comunemente si ritiene non poter essere oggetto di lucro: ne consegue che prostituirsi, oltre al significato primario che è collegato ad una attività sessuale, assume anche il significato di “avvilire per interesse la propria dignità e tradire i propri ideali”, un concetto che si può riferire ad un numero incalcolabile di comportamenti. Inevitabilmente il termine, che esprime con tutta evidenza una dura condanna morale, è stato applicato anche alla scelta di vendere, o di dare in uso (anche parziale e temporaneo) parti del proprio corpo, organi, tessuti, cellule e persino le attività funzionali alle quali questi corpi sono devoluti, tutte cose delle quali la nostra dignità dovrebbe impedirci di fare commercio.

Non è un problema semplice da affrontare: lo stesso gesto – dare un rene a un malato di reni che senza questo trapianto morirebbe, offrire un oocita a una donna sterile, rendersi disponibile per ospitare nel proprio grembo, per tutta la durata di una gravidanza, il figlio di una donna priva dell’utero – può essere il risultato di una scelta compassionevole ( e in questo caso dovrebbe sfuggire ad ogni giudizio critico) ; può essere l’unico modo possibile per dare un minimo di dignità a una famiglia che sta per essere distrutta dalla miseria ( e la critica morale dovrebbe essere rivolta alla società che ha creato e permesso quelle condizioni di estremo bisogno senza trovare il modo di intervenire e a chi ha deciso di approfittare di quella disperazione); può essere la scelta consapevole di chi ritiene di essere in pieno diritto di usare del proprio corpo a proprio piacere (cosa che evidentemente crea un contrasto tra differenti presupposti, lasciando anche spazio a un indebito coinvolgimento delle religioni). Senza poi dimenticare il fatto che in molti casi non sono le scelte per sé, ma le motivazioni per le quali sono state fatte e le conseguenze che ne possono derivare ( una surrogazione può essere richiesta da una coppia omosessuale) a provocare la rampogna morale. Tutto ciò molto semplicemente per spiegare le ragioni per cui mi è sembrato necessario inserire, in coda a questi capitoli dedicati alla prostituzione “tradizionale” anche una riflessione relativa alla vendita ( e al dono ) dei propri gameti e all’affitto (e al dono) del proprio grembo.

B – Gameti e embrioni

a – Dono di oociti

La possibilità di eseguire con successo un’ovodonazione è stata sperimentata nei primati, per la prima volta, da Gary D. Hodgen, nel 1983; l’anno successivo venne pubblicato il primo successo in campo umano e l’autore della pubblicazione fu P. Lutjen ( The establishment and maintenance of pregnancy using In vitro fertilization and embryo donation in a patient with primary ovarrian failure . Nature, 1984, 307,174). In qualche modo, questi risultati non furono tanto sorprendenti, quanto inattesi. La maggior parte dei biologi della riproduzione, infatti, pensava (o temeva) che l’ovodonazione avrebbe prospettato qualche problema di tipo immunitario (immaginava, cioè, che la donna avrebbe potuto creare anticorpi nei confronti di un prodotto di concepimento che le era, geneticamente, totalmente estraneo) e che di conseguenza l’elaborazione di una tecnica di ovodonazione avrebbe comportato fasi progressive e metodi più complessi. Queste difficoltà non si sono mai verificate: oggi i centri che eseguono ovodonazioni sono numerosissimi e i successi ottenuti si contano a decine di migliaia. Tutto ciò con le stesse reazioni emotive – le critiche, le obiezioni e i sarcasmi – che avevano fatto seguito all’organizzazione delle prime banche del seme.

L’indicazione principale per l’ovodonazione è la menopausa precoce, sia quella spontanea che quella determinata da interventi medici. Le altre indicazioni possibili riguardano il rischio di trasmettere malattie genetiche ai figli, i ripetuti fallimenti delle tecniche di procreazione assistita e la difficoltà di eseguire i prelievi oocitari per la Fivet. L’ovodonazione è stata eseguita molte volte anche a donne in età post menopausale e in alcuni casi anche a donne ultra sessantenni, cosa che ha naturalmente scatenato un diluvio di commenti critici.

Si considerano fondamentalmente due tipi di donazione: da donatrice nota (la sorella, la migliore amica) e da donatrice sconosciuta (in genere una donna che viene trattata per sterilità e produce un numero di oociti eccessivo rispetto al suo fabbisogno). Le donatrici conosciute godono di maggiori simpatie da parte delle coppie e di altrettanto grande antipatia da parte dei medici, che hanno visto troppo spesso queste donne, dopo la nascita del bambino, inserirsi tra lui e la madre “sociale”, nella ricerca di un rapporto privilegiato, sollecitate da sentimenti che è facile comprendere. La donatrice sconosciuta, per quanto puntuali possano essere le spiegazioni dei medici sulla grande quantità di esami di controllo eseguiti dalla donatrice, crea fantasmi e timori di ogni genere, alcuni dei quali continuano anche dopo la nascita del bambino.

I preliminari relativi all’ovodonazione assomigliano molto a quelli ben noti che riguardano la donazione di seme: colloqui, spiegazioni, numerosi e complessi esami di laboratorio che vengono eseguiti nelle due donne. Gli esami di controllo sono particolarmente accurati nelle donne meno giovani, per le quali si temono particolarmente le possibili complicazioni della gravidanza (diabete, ipertensione e gestosi). Alcuni medici sottopongono le donne in menopausa a cicli di terapia sostitutiva di studio, in modo da poter accertare la congruità della risposta della mucosa uterina, ritenuta fondamentale per il successo dell’impianto dell’embrione, ma in realtà molto meno importante della qualità dell’oocita prescelto.

Le primissime ovodonazioni venivano fatte inseminando «in vivo» la donatrice e raccogliendo l’embrione dall’utero con una semplice tecnica di lavaggio: nel frattempo la donna destinata a ricevere il dono veniva trattata con estrogeni e progesterone in modo da far combaciare il prelievo dell’embrione con il momento della massima disponibilità biologica dell’endometrio. Questa tecnica è stata abbandonata per varie ragioni (timore di malattie infettive, errori di paternità) a favore della fertilizzazione in vitro.

I protocolli di somministrazione di estrogeni e di progesterone sono diversi, ma tutti ugualmente utili. Le cure vengono proseguite per circa 8-10 settimane e poi sospese, essendo ormai la gravidanza capace di provvedere da sola alla produzione di un’adeguata quantità di ormoni. La percentuale di gravidanze è molto variabile e dipende soprattutto dall’età delle donatrici: nei migliori centri è frequente trovare percentuali di successo superiori al 50-55% per ciclo. La percentuale di aborti è inferiore al 20% mentre sono piuttosto elevate le frequenze delle complicazioni della gravidanza, della nascita di bambini di peso inferiore alla norma e di tagli cesarei.

Pur essendo tecnicamente molto più complesse, le ovodonazioni sembrano caratterizzate da rischi psicologici molto minori rispetto alle donazioni di seme. L’esperienza di un maternità gestazionale infatti, sembra particolarmente appagante per quasi tutte le donne, gratificate dal fatto di aver potuto stabilire un fortissimo legame affettivo con il bambino durante la gravidanza.

Per anni migliaia di coppie italiane hanno cercato di avere un figlio con una donazione di oociti e si sono recate soprattutto nei paesi europei che si ritenevano meglio organizzati per accoglierle, come la Spagna, il Belgio, la Grecia e alcuni paesi dell’Europa dell’Est. Oggi, grazie a un intervento della Corte Costituzionale (Sentenza N. 162 del 2014 ) che ha dichiarato illegittima la proibizione di donazione di gameti e di embrioni sancita dalla legge 40/2004, l’Italia si è messa nelle condizioni di poter rispondere alle richieste delle coppie, ma esiste ancora una forte opposizione da parte della medicina cattolica che cerca tutte le strade possibili per rendere queste tecniche invise ai donatori e alle donatrici e considerate con sospetto dalle coppie.

Le donazioni di ovociti sono vietate per legge in Austria, Germania, Norvegia, Svizzera, Tunisia e Turchia e le linee guida non la consentono in Cina, Croazia, Egitto, Giappone, Marocco, Filippine. Anche in assenza di norme e di regole, queste tecniche sono del tutto ignorate in Malesia e in Marocco. Nelle altre Nazioni, le ovodonazioni sono ammesse, ma con differenti modalità. Sono ad esempio molto variabili i limiti di età per le donatrici e quelli per le riceventi, questi ultimi quasi ovunque contenuti al di sotto dell’età della menopausa fisiologica. La donatrice deve essere anonima in Francia, India, Grecia, Israele e Slovenia, mentre deve poter essere identificata in Inghilterra e in Svezia. E’ ammesso un compensiamo per le “donatrici” in Francia e in India, ma non in molti altri Paesi inclusa Inghilterra, Grecia, Corea, Slovenia, Tailandia e Vietnam ( ma non è sempre chiara l’esclusione dei cosiddetti “rimborsi per le spese sostenute”).

In alcuni Paesi la donatrice deve essere una parente di un membro della coppia (ma Singapore, che ha regole simili, vieta le donazioni da parte delle sorelle del marito). La donatrice deve essere sposata (e avere possibilmente figli) in Israele e a Singapore, ma in Israele la donna ricevente può non avere un marito o un compagno. Ci sono Paesi, come la Slovenia, nei quali la donatrice può donare oociti solo per la nascita di due figli e altri (ad esempio Olanda e Spagna) nei quali questo limite è di 6. Molto diverse sono infine le precauzioni nei confronti di possibili malattie infettive trasportate dagli oociti ed esistono addirittura leggi (come quelle slovene) che impongono una “quarantena” di 6 mesi di crioconservazione. Le attese per ottenere una donazione sono molto diverse e dai Paesi come la Francia, nei quali è necessario attendere persino 4 anni, c’è un esodo verso altri Paesi europei.

b – Dono di embrioni

Esistono due tipi di embrio -donazione, quella vera e propria nella quale un embrione viene prodotto in vitro utilizzando i gameti di due donatori, e quella che prevede una sorta di “adozione per la nascita”, cioè il trasferimento a una donna che lo richiede di un embrione congelato e abbandonato dai genitori genetici.

La donazione di embrioni viene richiesta in due casi specifici: quando esiste una condizione di sterilità assoluta di entrambi i coniugi; quando il coniuge che ha conservato la fertilità rinunzia a utilizzare questo suo privilegio e si mette alla pari dell’altro. L’adozione per la nascita o adozione prenatale dovrebbe invece risolvere il problema degli embrioni soprannumerari tenendo conto di un loro presunto “diritto a nascere”. In effetti la richiesta di adottare un embrione è infrequente e il fatto di non poter sempre garantire le condizioni di salute degli embrioni abbandonati non aiuta a incrementarla.

c Donazioni a donne fertili

Esistono però altre circostanze nelle quali una donna si trova, pur essendo fertile, a non volere o a non potere disporre delle proprie uova. Pensate per esempio a donne che sanno di essere portatrici di malattie ereditarie che possono trasmettersi ai figli; o a donne trattate con farmaci potenzialmente capaci di modificare il patrimonio genetico delle cellule uovo; ai casi di «bacino congelato», cioè di una condizione multiaderenziale che potrebbe rendere pericoloso il prelievo degli oociti; o ai casi in cui non è stato possibile, nelle numerose prove eseguite, ottenere una fertilizzazione in vitro degli oociti; o, infine, a quando esistono anticorpi anti-ovaio che non si riesce a rimuovere. È vero che non tutte queste circostanze sono indicazioni assolute per un’ovodonazione: è possibile che le conseguenze di una chemioterapia recedano; una condizione ereditaria può essere affrontata in modo diverso, utilizzando per esempio le attuali tecniche di diagnosi pre-impianto; è impossibile dire dopo quanti fallimenti delle fertilizzazioni in vitro si debbano abbandonare le speranze. Resta il fatto che molte richieste di ovodonazione vengono da casi clinici simili a quelli che abbiamo descritto e che queste richieste possono essere discusse, ma non respinte.

La richiesta di ovodonazioni è stata molto alta fin dal primo momento ed è in continuo aumento. All’inizio, la quasi totalità delle richieste veniva da pazienti che soffrivano di menopausa precoce o avevano tentato inutilmente, per varie volte, una fertilizzazione in vitro. Quasi inevitabilmente cominciarono a presentarsi agli ambulatori medici donne che non potevano certo lamentare la «prematurità» della propria menopausa; donne di età progressivamente sempre più avanzata, che venivano a chiedere al medico di essere trattate e che non accettavano facilmente di essere mandate via.

Scegliere di avere un figlio utilizzando il patrimonio genetico di una donna estranea può non essere facile. Il desiderio di maternità (o di genitorialità) che sta dietro alla scelta deve essere in effetti fortissimo, tanto forte da poter vincere paure, fantasmi, angosce. Per alcune delle coppie che si presentano le motivazioni della richiesta sono quasi troppo ovvie.

Dimentichiamo per un attimo le richieste meno straordinarie, quelle che vengono da donne sorprese da una menopausa precoce quando ancora non avevano cercato di avere un figlio; deluse da cicli e cicli di trattamenti falliti; o da donne giunte al matrimonio dopo un’intera vita trascorsa a ragionare con se stesse della propria condanna alla sterilità, condanna genetica o comunque congenita, alla quale non si sono mai veramente rassegnate; per tutte queste donne, l’«anomalia», la «bizzarria» consiste nell’aver deciso di assegnare al concetto di maternità un valore diverso da quello deciso dalla società.

d . Indagini preliminari

Una volta stabilito che esistono le indicazioni per un’ovodonazione, è necessario accertare preliminarmente lo stato di perfetta salute della donna che la richiede. Questo problema è, sì, particolarmente importante nelle donne che hanno superato una certa età, ma deve essere comunque e sempre al centro dell’attenzione del medico. È anzitutto necessario verificare l’esistenza di un utero normale e normalmente capace, almeno nella prospettiva, di portare a termine la gravidanza; a questo scopo, in genere, si eseguono esami ecografici pelvici e isteroscopie. È possibile che esistano condizioni di patologia che possono essere corrette (polipi da togliere, fibromi da asportare); il problema più difficile è quello posto dai casi in cui la gravidanza è con ogni probabilità (quindi non con certezza) condannata a interrompersi prima che il bambino raggiunga un periodo adatto alla vita autonoma. In questi casi, il parere maggiormente condiviso è quello di rinunciare all’ovodonazione; è vero che è molto più importante l’età dell’uovo (cioè che l’uovo provenga da donna giovane) della condizione dell’utero, ma anche a questo c’è un limite e bisogna cercare di far capire alla coppia che un’ovodonazione non viene fatta per avere una gravidanza, ma per avere un figlio, e possibilmente per avere un figlio sano.

Gli altri esami necessari riguardano, naturalmente, la salute generale, con attenzione alle malattie che possono risultare particolarmente pericolose in gravidanza (diabete, ipertensione, obesità, cardiopatie, nefropatie). E comunque possibile, e in effetti accade spesso, che alla fine delle indagini si sia in grado di stabilire che, in quel particolare caso, una gravidanza comporterebbe un certo tipo di rischio.

Ci limitiamo ad un solo esempio. Negli Stati Uniti, alla fine del 2002 erano nati circa 200 bambini da ovodonazioni eseguite a donne affette da sindrome di Turner, una delle più comuni forme di disgenesia ovarica ( si tratta di donne di basta statura, di aspetto particolare, che nascono prive di ovaia) che si associa, in un certo numero di casi, ad altre forme di patologia congenita. Ebbene 4 di queste 200 donne sono morte durante la gravidanza per una dissezione o una rottura aortica. Solo la metà di queste pazienti era stata sottoposta ad indagini cardiologiche, mentre sarebbe stato indispensabile eseguire in tutti i casi una MRI (Magneting Resonance Imaging) per valutare la morfologia dei grossi vasi arteriosi (M. F. Karnis Fertility and Sterility, 2003,80,498).

e- Il dono e l’acquisto

Le donne che chiedono una donazione di oociti sanno già, quando si presentano ai centri, che le uova possono avere due differenti origini. La prima è quella dell’uovo donato, come atto oblativo, in segno di amicizia o di affetto, da un’amica o da una parente, comunque da una persona conosciuta. La seconda è quella della donazione da parte di una sconosciuta. Un secondo problema riguarda le motivazioni della donatrice, che si può essere resa disponibile per un atto oblativo o può aver fatto la sua scelta per trarne un profitto, che è poi il motivo per il quale la tecnica è fatta oggetto di tante critiche e viene assimilata a una forma di prostituzione.

Sul commercio di oociti le valutazioni differiscono notevolmente: esiste una posizione che lo condanna decisamente, richiamandosi al divieto di commerciare in organi e tessuti umani che molte Istituzioni considerano l’ unica scelta etica accettabile, e una seconda che considera invece come un diritto la possibilità di disporre del proprio corpo e delle sue parti (e , come vedremo, anche delle sue funzioni) e che chiede che la legge si limiti a impedire lo sfruttamento delle donatrici.

Nei Paesi nei quali è ammessa solo la donazione, si discute sulla liceità di ricompensare la donatrice rimborsando le spese e mancato guadagno. In alcuni centri, invece di denaro, vengono offerti di cicli gratuiti di fecondazione assistita o altrettanto gratuiti interventi di sterilizzazione. Per evitare di dover acquistare le uova e per mantenersi fedeli alla scelta dell’anonimato, alcuni centri hanno tentato una via alternativa, chiedendo alle donne in lista per un’ovodonazione di cercare una donatrice personale tra le parenti e le amiche. Le uova di questa donatrice non sono destinate alla parente (o all’amica), ma a una sconosciuta; il vantaggio per la richiedente è che così potrà ricevere gratuitamente le uova da un’altra «donatrice oblativa», naturalmente sconosciuta. In modo analogo si cerca di stimolare anche i donatori di sangue: immaginate di sapere che un vostro amico ne ha bisogno, di sapere che i vostri gruppi non sono compatibili, potreste decidere di donare il vostro comunque il mio sangue ad un’ altra persona aspettandovi una analoga scelta da parte dei suoi amici, una scelta fatta nel segno della solidarietà.

G. Perrings (Human Reproduction, 2005, 20, 2990), un medico che opera in Belgio, ha proposto un metodo (IME: Indirect Mirror Exchange) che dovrebbe funzionare così, il partner fertile di una coppia che richiede una donazione di gameti mette a disposizione i suoi (oociti o spermatozoi che siano) per una donazione; questi gameti vengono assegnati ad altre coppie, secondo un ordine stabilito da una lista d’attesa che riguarda, in ogni singolo centro, tutte le richieste di donazione. In compenso, la coppia che dona riceve una sorta di “bonus” che la fa progredire nella lista facendole guadagnare tempo.

Questa non è l’unica proposta che è stata fatta. L’aumento dei paesi che vietano l’anonimato ha fatto diminuire il numero dei donatori un po’ ovunque (molti temono l’approvazione di leggi retroattive che impongano la trasparenza e aboliscano l’anonimato) e l’atteggiamento nei confronti della compra-vendita di gameti non è certamente tenero. L’idea che dovrebbe prevalere è quella di tornare a comportamenti basati sulla solidarietà, come del resto era in Italia prima del divieto.

Nel settembre del 2005, presso la Fondazione Heinrich Böll di Berlino ha avuto luogo un convegno intitolato “Commodification and Commercialisation of Women’Bodies in Reproductive Technologies: Perspectives for Feminist Intervention”. La prolusione (Transforming “Waste” into “Resource”: From Women Eggs to Economics for Women) è stata letta da Sarah Sexton che ha descritto il problema dello sfruttamento delle donne dei Paesi più poveri, costrette dal bisogno a vendere per pochi denari i propri costosi gameti. In realtà, la compravendita degli oociti segue, nel mondo, le regole più diverse. Se negli Stati Uniti le cellule uovo di una supermodella possono raggiungere prezzi incredibili ( fino a 100.000 dollari e oltre) , in Inghilterra il commercio di oociti e di spermatozoi è stato a lungo vietato e, dopo l’approvazione, donatori e donatrici non potevano comunque ricevere più di 15 sterline per ogni prelievo. Dal 2000 i centri inglesi sono però autorizzati a ridurre i costi delle PMA alle donne che si dichiarano disponibili a donare i propri oociti soprannumerari e dal 2005 l’HFEA (Human Fertilisation and Embriology Act) ha portato a 500 sterline il costo minimo di una donazione, una cifra che dovrebbe servire da rimborso per le spese sostenute e per il mancato guadagno e che comunque non può in nessun caso superare le 1000 sterline.

Del tutto diversa era, almeno fino a non molto tempo fa, la situazione della Romania, un Paese nel quale le donatrici ricevevano tra 100 e 150 euro per oociti che poi venivano fatti pagare più di 6000 euro alle coppie.

Sono evidentemente necessarie linee guida internazionali che possano essere utilizzate per regolare questa materia, in Europa e nel mondo. Ciò rinnova una antica polemica che riguarda la donazione di organi: può essere vietata? E come? Secondo alcuni sociologi, le autorità governative dovrebbero intervenire alla radice del problema, vietando le vendite; secondo altri, dovrebbero essere puniti solo gli acquirenti. Il problema è, insieme, morale e politico: in un Paese molto povero, o nel quale esistono grandi differenze di benessere nelle diverse classi sociali, è possibile immaginare condizioni di ingiustizia tali da mettere molti cittadini nelle condizioni di non poter sostenere in modo adeguato se stessi e la propria famiglia. In queste circostanze è difficile immaginare che uno Stato che non è in grado di proteggere le persone possa avere l’autorità di stabilire regole che riguardino l’uso del loro corpo. In India una donna che accetta di mettere a disposizione il proprio grembo per far nascere il figlio di una coppia sterile guadagna, nei nove mesi di gestazione, più di quanto riuscirebbe a ottenere da una intera vita di lavoro e in questo modo può evitare che i suoi figli crescano denutriti e ne può mandare alcuni a scuola. Questa donna in realtà avrebbe diritto a qualcosa di molto diverso, cioè di vivere in una società che questi privilegi glieli concede non come pagamento di un servizio reso, ma come un diritto. Se la società nella quale vive abdica a questo suo dovere, significa che ha anche rinunciato al diritto di porre regole morali alla gestione del corpo e la ragazza indiana può far proprio lo slogan di un certo femminismo che diceva “il corpo è mio e lo gestisco io”. Se è così, e non vediamo proprio come possa essere altrimenti, dovrebbe essere semmai la coppia sterile a incorrere nelle ire della giustizia, che è proprio la cosa che molti Paesi non vogliono fare. Il problema, semmai, è quello di considerare la vendita di oociti da parte di persone che non cercano l’indispensabile, ma il superfluo.

Le considerazioni sulla vendita degli oociti si sono imprevedibilmente estese alla loro donazione. Nel febbraio del 2007 l’HFEA ha autorizzato la donazione di oociti per la ricerca scientifica con un documento molto dettagliato nel quale motivazioni e svantaggi vengono descritti in modo esplicito e puntuale. Le donatrici debbono motivare le ragioni della loro scelta e possono essere compensate solo per le spese sostenute ( in Inghilterra, ad esempio, non si rimborsano le spese di viaggio se le donatrici vengono dal continente) e per il mancato guadagno, entro limiti ben definiti e complessivamente modesti, non più di alcune centinaia di sterline. Non possono invece ricevere denaro per l’ inconveniency, il disagio che hanno dovuto sopportare, malgrado il fatto che questa modalità di rimborso sia ammessa dalla EUTCD (European Union Tissues and Cells Directive). Il documento stabilisce poi regole molto puntuali che debbono consentire una completa informazione delle potenziali donatrici e una assoluta separazione tra i medici coinvolti nel trattamento e quelli dedicati alla ricerca. C’è anche, molto opportunamente, una norma che prevede particolare attenzione e straordinaria cautela nella stimolazione ovarica, allo scopo di evitare ogni sorta di rischio.

Nell’aprile del 2007 un giornale inglese, l’Observer, ha pubblicato questa notizia in modo confuso e inesatto, facendo immaginare che l’Authority inglese avesse autorizzato la vendita di oociti. Senza neppure controllare la correttezza dell’informazione, alcuni membri del CNB hanno immediatamente proposto una mozione di condanna. Demetrio Neri, uno dei membri storici del CNB, si è opposto con molta decisione a questa iniziativa, interpretata “come una sorta di segnale dell’intenzione di ridurre il CNB a una sorta di cassa di risonanza di battaglie politico-ideologiche programmate all’esterno”( che, in termini espliciti, significa da alcuni giornali cattolici e di area cattolica). Neri, in una lettera inviata al presidente del CNB, ha precisato alcuni dei contenuti fondamentali del documento in questione (Donating eggs for research: safeguarding donors) , elaborato da una commissione presieduta da Lord Harries of Pentregarth dopo una consultazione pubblica. nella dichiarazione ufficiale (22 febbraio 2007) firmata da Angela McNab, Chief Executive dell’HFEA, si afferma che “mai, nel corso dell’elaborazione di questo documento, abbiamo preso in esame la possibilità di consentire un compenso per la donazione di questi oociti”. Nel testo, la politica dell’Authority viene definita come expense neutral, il che significa che vengono rimborsate le spese e l’eventuale mancato guadagno fino a un massimo di 55 sterline al giorno e nel limite di 250 sterline per ogni ciclo di donazione. Questa decisione è in linea con quanto stabilito dalla Convenzione sui Diritti Umani e sulla Biomedicina, il cui Rapporto esplicativo (numero 132) recita: ” Questo articolo ( il numero 21) non impedisce che una persona che viene sottoposta al prelievo di un organo o di un tessuto riceva un compensiamo che, mentre non ha il significato di un pagamento, rappresenta un equo rimborso per le spese sostenute e per l’eventuale rinuncia a un guadagno (ad esempio a causa di un periodo di ricovero in ospedale).” Ricordiamo, per inciso, che l’articolo 21 è quello in cui si stabilisce che il corpo umano e le sue parti non possono rappresentare una fonte di guadagno. Nel documento è anche scritto, in modo molto esplicito, che la commissione non ha ritenuto coerente con il principio della donazione il rimborso delle “inconveniencies related to donation” (cioè delle seccature determinate dall’atto della donazione), che ,come abbiamo detto, sono previste dall’articolo 12 della Direttiva 2004/23/EC, che si applica anche alle cellule riproduttive. Nelle circolari inviate dall’HFEA dopo l’approvazione del documento è scritto anche molto chiaramente che possono essere rimborsate solo le spese di viaggio sostenute all’interno della Gran Bretagna, cosa che dovrebbe tranquillizzare coloro che si dichiarano preoccupati per una possibile corsa alla “donazione” delle donne dei paesi dell’Est. Inoltre l’Autorità inglese è arrivata a prendere questa decisione solo dopo aver interrogato a lungo l’opinione pubblica, una operazione nella quale è stato utilizzato un sistema complesso e molto efficace di promozione culturale, nel quale sono stati impiegati un gran numero di ricercatori e di scienziati.

Una delle critiche ricorrenti riguarda la possibilità che queste somme di denaro, per quanto modeste siano, attraggano donne da paesi europei molto poveri o esercitino qualche forma di attrazione sulle minoranze etniche (che vivono in molti Paesi europei in condizioni di estrema povertà) . In realtà, non sembra che questo rischio esista: In Spagna, ad esempio, solo l’11% delle donatrici non è di origine spagnola ( pur vivendo in Spagna), la stessa percentuale della popolazione immigrata tra le lavoratrici. Del resto, che esista una commistione di intenti risulta abbastanza chiaramente da alcuni studi di settore : il 22% delle donatrici si propone solo per ragioni oblative, il 43% ammette di essere interessato anche ai soldi e il 35% pensa solo a questi.

Il più recente documento dedicato a un giudizio morale sull’acquisto di oociti e sui compensi assegnati alle donatrici è stato elaborato dalla Commissione Etica dell’American Society for Reproductive Medicine, chiaramente sollecitata a intervenire sull”argomento del fatto che, nel 2004, il 94% dei programmi dei 411 Centri di PMA americani censiti dal Center for Disease Control offrivano un servizio di ovodonazione. Il documento (Fertility and Sterility, 2007,88,305) è lungo e dettagliato, ma lo spirito che lo anima è chiaramente comprensibile anche se ci si limita a leggere i sette punti conclusivi che riportiamo:

1) Il compenso economico delle donne che accettano di donare oociti a scopi riproduttivi o per la ricerca scientifica è giustificato su basi etiche;

2) Questo compenso dovrebbe essere organizzato in modo da servire come riconoscimento del tempo dedicato alla donazione, dei vari inconvenienti e dei disagi patiti a causa del protocollo di indagini, dei trattamenti di stimolazione ovarica e delle manovre necessarie per il prelievo dei gameti: la somma percepita non può essere modificata in conseguenza della destinazione degli oociti donati, del loro numero o della loro qualità, né deve essere influenzata dai risultati di donazioni precedenti, dall’etnia della donatrice, o da altre sue caratteristiche personali;

3) Ogni pagamento che superi i 5.000 dollari deve essere giustificato e in ogni caso dovrebbero essere considerate inappropriate somme superiori ai 10.000 dollari;

4) Allo scopo di scoraggiare decisioni inappropriate, i programmi di donazione dovrebbero organizzare sistemi di counseling efficaci e renderli disponibili per offrire informazioni utili e complete. Le donatrici reclutate direttamente dai pazienti o da agenzie dovrebbero avere accesso a queste stesse forme di counseling;

5) I programmi che prevedono la spartizione di degli oociti della stessa donatrice tra diverse pazienti dovrebbero formulare e rendere noto in modo trasparente le proprie scelte in materia di criteri di eleggibilità e di suddivisione, soprattutto nei casi in cui è disponibile un numero limitato di gameti o sono disponibili oociti di differente qualità

6) I medici incaricati di applicare i protocolli clinici hanno, nei confronti delle donatrici, gli stessi doveri ai quali sono obbligati nel loro rapporto con qualsiasi altra paziente. I programmi dei Centri dovrebbero assicurare alle donatrici l’accesso a tutti i servizi necessari;

7) In questi stessi programmi dovrebbe essere prevista la copertura delle spese cui potrebbe andare incontro una donatrice a causa delle possibili complicazioni che potrebbero insorgere a causa della donazione.

f – Il segreto

Quasi tutte le coppie che accettano di dare o di ricevere oociti sono d’accordo perché venga mantenuto il segreto. In effetti non tutte le coppie sono veramente decise a nascondere la verità al bambino: alcune affermano che il problema dovrà essere affrontato più tardi; per altre non c’è ragione per non dirlo; la maggioranza si esprime per il silenzio ma contempla la possibilità di un cambiamento di opinione.

Molti medici ritengono che il problema della estraneità genetica sia tenuto in scarsa considerazione da un certo numero di donne, per le quali il solo fatto veramente importante è che il bambino cresca nel loro grembo, venga da loro partorito. Alcune di queste, alla richiesta se pensano di dirlo o meno al figlio, rispondono: «Sì, certo, lo diremo, cosa c’è di strano?». Ma si riferiscono sempre alla fertilizzazione in vitro, non all’ovodonazione.

Alcune coppie chiedono se potrà accadere, un giorno, che si renda necessario per la salute del bambino, conoscere le caratteristiche genetiche della madre; poiché questo è teoricamente possibile e poiché il problema si pone nello stesso modo per le donazioni di seme, si sta cercando di trovare un modo semplice per mantenere un campione biologico della madre genetica per un possibile (anche se molto improbabile) futuro impiego. In effetti, se si ammette che gli accertamenti sulle donatrici e sulle loro famiglie vengano fatti in modo corretto, l’unico problema che può nascere nelle ovodonazioni riguarda quelle donne che si ammalano di una malattia genetica congenita a comparsa tardiva, che si sviluppa dopo che hanno donato gli oociti e che non è mai comparsa prima nella famiglia.

Secondo alcuni sociologi, si potrebbe determinare in avvenire un contrasto per via di una certa dissociazione di comportamenti tra le madri educatrici (che potrebbero decidere di dire la verità al figlio in numero sempre maggiore, qualora diminuisse la critica sociale sull’ovodonazione) e le madri genetiche (che comunque potrebbero essere più coerenti con la scelta del segreto, che riveste anche connotazioni di maggior sicurezza economica e sociale). Ne potrebbe derivare una situazione a rischio, con molti figli che cercano madri che desiderano restare ignote. Non siamo in grado di dare un’opinione in materia; sappiamo solo che, per il momento, la scelta dell’anonimato da parte delle coppie che si rivolgono ai centri è quasi unanime e molto decisa.

Quasi tutte le pazienti che richiedono un’ovodonazione vengono sottoposte a cicli di fertilizzazione in vitro, poiché si ritiene che questa tecnica sia meno invasiva della GIFT e, tenuto conto della giovane età delle donatrici, altrettanto efficace. Su questo punto non c’è accordo unanime, così che alcuni centri preferiscono eseguire la GIFT, se non si presentano difficoltà o impedimenti tecnici.

g – Le coppie omosessuali e i loro figli

Per quanto riguarda i bambini nati da donazione ( di seme, di oociti, di embrioni, di grembi) la letteratura riporta dati significativi solo da una decina di anni a questa parte,

Numerosi studi condotti dall’American Psychological Association (Lesbian and Gay Parenting, PDF, 2005, Uniform Resource Locator – URL – 2015; American Psychiatric Association( Position Statement on Support of Legal Recognition of Same Sex Civil Marriage, PDF, 2005, URL 2015; American Academy of Pediatrics ( Coparent or Second Parent Adoption by Same – Sex Parents, Pediatrics, 2002, 109, 339; Support Gender Civil Marriage, URL 2015) e altri gruppi di studio non hanno evidenziato alcuna differenza negli effetti dell’omogenitorialità rispetto alla genitorialità eterosessuale neppure con riferimento alle dinamiche interne alla coppia dopo l’arrivo dei figli. Vale la pena riportare le conclusioni dell’ American Psychological Association : “There is no scientific basis for concluding that lesbian mothers or gay fathers are unfit parents on the basis of their sexual orientation. On the contrary, results of research suggest that lesbian and gay parents are as likely as heterosexual parents to provide supportive and healthy environments for their children. […] Research has shown that the adjustment, development, and psychological well-being of children is unrelated to parental sexual orientation and that the children of lesbian and gay parents are as likely as those of heterosexual parents to flourish.”

Queste non sono le uniche associazioni mediche ad aver formulato pareri favorevoli alle famiglie omoparentali e a chiedere la sospensione delle discriminazioni esercitate nei loro confronti. Nella impossibilità di citarle tutte, ricordiamo solo quelle che godono di un maggiore prestigio: la Child Welfare League of America ( Position Statement on Parenting of Children by Lesbian, Gay and Bisexual Adults, URL 2912); il North American Council on Adoptable Children (Position Statement, URL 2015); l’American Accademia of Family Physicians (Policy Statement by professional associations, 2002, URL 2012).

Nel 2006, il Dipartimento di Giustizia del Canada (Paul D. Hastings e coll., Children’s development of Social Competence Across Family Types, URL 2015) ha pubblicato I risultati di una ricerca sullo sviluppo delle abilità sociali di bambini educati in differenti tipi di famiglia che così si conclude: “The strongest conclusion that can be drawn from the empirical literature is that the vast majority of studies show that children living with two mothers and children living with a mother and father have the same levels of social competence. A few studies suggest that children with two lesbian mothers may have marginally better social competence than children in traditional nuclear families, even fewer studies show the opposite, and most studies fail to find any differences. The very limited body of research on children with two gay fathers supports this same conclusion. ” E’ interessante ricordare che l’allora Primo Ministro del Canada , Stephen Harper, si era appena dichiarato contrario alla adozione di bambini da parte di coppie omosessuali.

Risale agli stessi anni uno studio dell’American Civil Liberties Union (The Case Against Restricting Gay Parenting, 2006, URL 2015) che aveva dimostrato che la maggior parte degli studi sociologici indicano che i bambini cresciuti in famiglie omogenitoriali sono «relativamente normali» e che quando si confrontano con i figli di genitori eterosessuali, non si nota alcuna differenza «nelle valutazioni di popolarità, nell’adeguamento sociale, nei comportamenti di ruoli di genere, identità di genere, intelligenza, coscienza di sé, problemi emotivi, propensione al matrimonio e alla genitorialità, sviluppo morale, indipendenza, nelle funzioni del sé, nelle relazioni con gli oggetti o autostima».

Nel 2008, l’American Medical Association ha pubblicato una dichiarazione del tutto analoga in favore delle adozioni da parte di coppie dello stesso sesso e ha chiesto ai suoi membri dibattersi per una riduzione delle ottenere una migliore equità per i genitori omosessuali (AMA Policy regarding sexual orientation, PDF, URL 2008) , Documenti analoghi sono stati approvati dalla American Civil Liberties Union (ACLU) nel 2006 .

Recentemente è stata dedicata molta attenzione al problema delle coppie lesbiche, anche come risposta a una serie di critiche mosse da una associazione religiosa che si occupa della organizzazione di trattamenti riabilitativi (le cosiddette terapie di conversione) destinati a “curare” gli individui omosessuali (National Association for Research & Therapy of Homosexuality o NARTH). Il consulente scientifico di questa Associazione, George A. Rekers, cofondatore dell’organizzazione cristiana conservatrice Family Research Council, ha infatti pubblicato i risultati di una sua ricerca che avrebbe dimostrato che:

– il 36,8% degli uomini che copulano con altri uomini hanno un disordine psichico, contro il 28,2% degli uomini che copulano con le donne

– – e che Il 55,5% delle donne che copulano con altre donne hanno disordini psichici, contro il 31,8% di donne che copulano con gli uomini (Review of Research On Omosexual Parenting , Adoption and Foster Parenting in Narth Institute, 2005, URL 2015).

Va da sé che una ricerca eseguita su omosessuali disponibili a sottoporsi a cure per “guarire ” dalla loro malattia non può essere in alcun modo presa in esame, tutta la vicenda è stata sepolta da una valanga d risate quando il dottor Rekers è stato allontanato dl Narth per essersi lasciato coinvolgere con un giovane “paziente” (Jeff Muskus, George Rekers , anti-gay activist, caught with male escort “rentboy”, The Huntington Post, 7 maggio, 2010). Su questo specifico argomento dovrebbe far testo una ricerca sulla rivista Archives of Sexual Behavior (3 febbraio 2012) secondo la quale le lesbiche che decidono di formare una famiglia si dimostrano madri almeno altrettanto virtuose e capaci di quelle eterosessuali. Fa comunque testo, per la maggior parte degli psicologi americani, un documento pubblicato nel luglio del 2004 dalla loro associazione (URL 2005) secondo il quale l’omosessualità non è un disordine psicologico. Il documento afferma che “sebbene l’esposizione al pregiudizio e alla discriminazione basati sull’orientamento sessuale possano causare stress acuti, non c’è alcuna prova affidabile che l’orientamento omosessuale possa di per sé compromettere le funzioni psichiche. Inoltre, la convinzione che gay e lesbiche non possano essere genitori idonei non ha alcun fondamento empirico. Tra le donne lesbiche e le donne eterosessuali non sono state trovate differenze marcate nel loro approccio verso l’educazione del bambino. I singoli componenti di coppie LGBT con figli si dividono in modo equo le questioni inerenti alle cure dei bambini e sono soddisfatti della loro relazione col partner. I risultati di alcuni studi suggeriscono che le capacità genitoriali di madri lesbiche e padri gay potrebbero essere superiori a quelle di genitori eterosessuali dello stesso livello. Non ci sono prove scientifiche per dimostrare che madri lesbiche e padri gay possano essere non idonei sulla base del loro orientamento sessuale. Al contrario, i risultati di queste ricerche suggeriscono che i genitori omosessuali sono abili tanto quanto quelli eterosessuali nel provvedere ad un ambiente solidale e salutare per i loro bambini. ”

L’Università di Cambridge ha poi pubblicato nel 2013 (I have got two dads – and they have adopted me, URL 2015) uno studio, sempre dedicato al benessere dei bambini adottati da coppie omosessuali, nel quale si afferma che ” i genitori gay mostrano, rispetto ai genitori eterosessuali, una minor tendenza alla depressione e soffrono più raramente di condizioni di stress causato dalla loro condizione di genitori. I padri gay si dimostrano più affettuosi e interagiscono più frequentemente con i figli. Inoltre, affrontano i problemi dell’ educazione con minor aggressività e maggiore sensibilità Non si notano invece differenze significative tra i genitori gay e i genitori lesbiche. Riguardo ai figli, si rileva una maggior frequenza di segnali di sofferenza psicologica (rabbia, aggressività) tra i figli dei genitori eterosessuali. ” A conclusioni analoghe erano giunte due ricerche pubblicate nel 2007, la prima a cura dell’Università del Michigan e la seconda svolta su iniziativa dell’Università della Virginia (Oxford University Press, 7 Novembre 2007),

Il 20 marzo 2013 l’American Academy of Pediatrics (Aap) ha pubblicato un importante documento in cui, oltre a ribadire le conclusioni di una ricerca pubblicata nel 2006 («adulti coscienziosi e capaci di fornire cure, siano essi uomini o donne, etero o omosessuali, possono essere ottimi genitori»), afferma che, «nonostante le disparità di trattamento economico e legale e la stigmatizzazione sociale», trent’anni di ricerche documentano che l’essere cresciuti da genitori lesbiche e gay non danneggia la salute psicologica dei figli e che «il benessere dei bambini è influenzato dalla qualità delle relazioni con i genitori, dal senso di sicurezza e competenza di questi e dalla presenza di un sostegno sociale ed economico alle famiglie».

Motivo di più, conclude l’Aap, per sostenere definitivamente la legalizzazione del matrimonio tra persone dello stesso sesso. Love makes a family è il titolo di una pubblicazione dell’American Psychological Association. La copertina mostra una coppia di donne con le loro figlie. A chi obietta che i bambini hanno bisogno di una madre e di un padre l’Aap ricorda l’importanza di considerare i risultati raggiunti da una mole vastissima di ricerche e le posizioni assunte dalle maggiori associazioni internazionali dei professionisti della salute mentale.

Dal canto suo l’American Psychoanalytic Association a chi sostiene che avere genitori omosessuali è «contro l’interesse del bambino» ha replicato che «È nell’interesse del bambino sviluppare un attaccamento verso genitori coinvolti, competenti, capaci di cure e di responsabilità educative. La valutazione di queste qualità genitoriali dovrebbe essere determinata senza pregiudizi rispetto all’orientamento sessuale». Non è solo una scelta di campo della psicanalisi americana, in Francia, cinquecento psicoanalisti hanno da poco firmato una petizione a favore del «matrimonio per tutti» e della possibilità di adozione per le persone omosessuali.

Posizioni analoghe sono sostenute dalle maggiori associazioni dei professionisti della salute mentale: dall’American Psychiatric Association alla British Psychological Society, dall’Academy of Pediatrics all’Associazione Italiana di Psicologia. Quest’ultima ricorda che «la ricerca psicologica ha messo in evidenza che ciò che è importante per il benessere dei bambini è la qualità dell’ambiente familiare», indipendentemente dal fatto che i genitori siano «conviventi, separati, risposati, single, dello stesso sesso».

La ricerca più importante per la mole del lavoro svolto è comunque con certezza quella della Università di Melbourne (Simon R. Crouch e coll., Parent reported measures of child health and wellbeing in same-sex parent families ; a cross – sectional survey ; Bio-Med Central 2014, 14, 635) relativa a 315 famiglie omogenitoriali australiane ( 500 bambini, l’80% dei quali educato da due madri e il 20% da due padri). La conclusione – abbastanza inattesa – dello studio è tutta a favore dei figli di coppie omosessuali, destinati a crescere almeno altrettanto bene ( e in molti casi meglio) dei loro coetanei che vivono in famiglie tradizionali. Questi risultati sono stati messi in discussione da Donald Paul Sullins (Bias in recruited Sample Research on Children with Same Sex Parents using the Strenghts and Difficulties Questionnaire (SDQ); Journal of Scientific Research and Reports, 2015, 375) , non a caso un membro della Catholic University of America, l’Università di Washington fondata dalla Chiesa Cattolica Americana, che ha criticato il metodo con il quale, in questo e in altri studi, sono state reclutate le famiglie, Queste critiche, è onesto dirlo, sono state ignorate dopo che gli esperti di statistica le hanno dichiarate inattendibili.

Era inevitabile che questi studi , data l’importanza del problema in esame, fossero sottoposti ad ogni genere di critica, anche se in linea di principio molte delle analisi hanno riguardato in modo molto generico il benessere dei minori. Alla resa dei conti, l’unico studio che ha creato qualche imbarazzo nei sostenitori dei diritti delle coppie omosessuali è stato quello pubblicato da Mark Regnerus (How different are the adult children of parents who have same-sex relationships? Findings from the new family structure study. Social Science Research, 2012, 41, 752) nel quale si attribuisce alla omosessualità dei genitori il più frequente disagio psicologico riscontrato nei loro figli. E’ persino difficile riassumere la ridda di voci contrastanti suscitata da questa ricerca, ance se è corretto ricordare che la quasi totalità delle Associazioni scientifiche americane l’ha severamente criticata e molto spesso sonoramente bocciata.

Mi sembra sufficiente ricordare che a due anni dalla pubblicazione dello studio di Mark Regnerus l’ Università del Texas – quella nella quali Regnerus insegna – ha preso le distanze dal sociologo già ampiamente sconfessato da diversi enti e associazioni. La decisione di rilasciare un comunicato ufficiale è stata dovuta all’intervento del sociologo come “esperto di famiglie omogenitoriali”: l’università ha ritenuto di dover chiarire la propria posizione e ha dichiarato di ritenere lo studio di Regnerus “non idoneo”. Ecco le conclusioni del documento:

“Il dottor Regnerus ha il diritto di effettuare le proprie ricerche e di esprimere il suo punto di vista. In ogni caso, le idee di Regnerus sono personali e non riflettono la posizione del Dipartimento di Sociologia della University of Texas di Austin, né riflettono la posizione dell’American Sociological Association, la quale afferma che le conclusioni tratte dal suo studio sui genitori omosessuali sono fondamentalmente viziate sia dal punto di vista metodologico che intellettuale e che la ricerca viene citata in modo inappropriato nel tentativo di colpire i diritti civili e le famiglie omogenitoriali”. E’ anche interessante ricordare che Regnerus, al momento della pubblicazione della sua ricerca , aveva cercato di spacciarsi per uomo laico e privo di pregiudizi, addirittura spiacevolmente sorpreso dai risultati che aveva ottenuto. Ecco però cosa scrive, de tutto recentemente, agli organizzatori del Family Day romano del 2016: “Sono uno di quei sociologi contemporanei che credono che il movimento teso a distruggere il matrimonio e a troncare il legame tra madre, padre e figlio sia un tragico errore, un movimento tenuto in ostaggio dall’ideologia più che dalla ragione e dall’osservazione sociale. Ho potuto constatare nei dati a nostra disposizione la sofferenza dei bambini che vivono senza una madre o senza un padre. E lo stesso hanno fatto i miei oppositori. Sfortunatamente, la maggior parte degli accademici e dei media perseverano sulla linea di privilegiare solo una piccola frazione della realtà sociale delle famiglie che presentano relazioni tra genitori dello stesso sesso. Vogliono mettere in evidenza la facciata migliore – la stabile e duratura unione di due persone dello stesso”.

Per quanto riguarda le dimensioni del fenomeno, un censimento svolto nel 2000 negli USA ha stabilito che il 33% delle coppie lesbiche e il 22% delle coppie gay ha almeno un figlio al di sotto dei 18 anni che vive con loro. Nel 2005, sempre negli USA, i figli di coppie omosessuali erano circa 270 000 (Census snapshot, The William Institute, UCLA, dicembre 2007, URL 2008)

In Italia, secondo i risultati di una rilevazione ISTAT del 2011, circa un milione di persone si è dichiarato omosessuale. Tuttavia, lo stesso istituto calcola che siano circa 3 milioni (6.7% della popolazione) gli individui che “si sono apertamente dichiarati omosessuali/bisessuali o che, nel corso della loro vita, si sono innamorati o hanno avuto rapporti sessuali con una persona dello stesso sesso, o che sono oggi sessualmente attratti da persone dello stesso sesso”. Secondo una ricerca del 2005 condotta da Arcigay, con il patrocinio dell’Istituto Superiore di Sanità, il 17,7% dei gay e il 20,5% delle lesbiche di età superiore ai 40 anni ha almeno un figlio. Se si considerano tutte le fasce d’età, sono genitori un gay o una lesbica su 20 mentre il 49% delle coppie omosessuali vorrebbe poter adottare un bambino (Monica Ricci Sargentini, Figli dei Gay, centomila in Italia, Corriere della Sera, 5 maggio 2008).

h- Casi particolari: i figli di donne anziane e di donne sole

Un’attenzione particolare va dedicata ad alcuni casi specifici, relativi ai bambini nati da ovodonazioni eseguite a donne in età postmenopausale e a donne sole.

La discussione riguarda soprattutto il benessere a «lungo termine» dei bambini nati da queste gravidanze.

Da un lato si afferma la necessità che i bambini possano godere, fino al termine dell’adolescenza, e possibilmente anche oltre, di una famiglia stabile e di genitori capaci di dar loro cure adeguate e continue. Secondo questo punto di vista, i bambini in questione nascono in qualche modo «già orfani» ed è molto poco probabile che una coppia di ultrasessantenni possa provvedere un figlio adolescente dell’assistenza e dell’appoggio psicologico necessari. Di qui, l’accusa di egoismo e di superficialità fatta rispettivamente alle donne anziane che chiedono l’ovodonazione e ai medici che accettano di farla.

In realtà, si direbbe che il problema non sia stato affrontato con l’approfondimento necessario. Non sembra infatti adeguata, a molti, una critica che non tenga conto del fatto che oggi le donne vivono molto più a lungo e della mancanza di omogeneità tra l’età della madre (che dovrebbe essere sottoposta a regolamenti restrittivi) e l’età del padre (apparentemente non costretto dalla differente biologia riproduttiva a limiti particolari). Anche il confronto tra l’impegno educativo di coppie giovani (distratte dai loro sforzi di progresso sociale e perciò spesso poco disponibili alle cure parentali) e di coppie anziane (disposte a lasciare ogni altra attività per occuparsi solo del figlio) merita un approfondimento psicologico e sociologico. Viene anche prospettata, da alcuni, l’ipotesi di un progressivo impiego di uova crioconservate che una donna potrebbe recuperare, a qualsiasi età e comunque molto dopo averle depositate, per concepire dopo la menopausa.

Esiste certamente un problema che riguarda il reale consenso delle donatrici all’impiego delle loro uova per ottenere gravidanze in donne di età avanzata. In effetti, non sembra che i centri siano espliciti su questo punto, probabilmente per paura di rendere più facile l’identificazione della ricevente, ma è chiaro che questo problema dovrebbe essere affrontato dai comitati di bioetica che stabiliscono le norme di comportamento per i centri.

Infine, è opinione di molti che non si dovrebbero eseguire queste donazioni nei centri pubblici, nei quali le scarse disponibilità economiche dovrebbero essere riservate al tentativo di risolvere i problemi di coppie più giovani e in realtà, quasi in tutto il mondo sono i centri privati a farsi carico di questi trattamenti. Non si deve però dimenticare che le gravidanze di queste donne, una volta iniziate, rappresentano un grosso problema medico per la necessità di controlli accurati e frequenti, per il maggior bisogno di ospedalizzazione dovuto a complicazioni di vario tipo, per le maggiori cure richieste dai nati. Tutto ciò si risolve in un maggior impegno economico che nella maggior parte dei paesi finisce con l’essere completamente a carico dello Stato e che alcuni vorrebbero far ricadere completamente sulle spalle della coppia. E’ bene ricordare che questo problema riguarda anche l’Italia, visto il frequente numero di coppie italiane che frequentano laboratori europei per ottenere una ovodonazione.

i – Critiche e consensi

Per quanto riguarda la donazione di oociti e di embrioni, o anche la semplice inseminazione di donne sole o di omosessuali, la maggior parte della letteratura medica è ostile, non tanto perché ritenga indispensabile la doppia genitorialità e la presenza di un padre (non ci sono dati empirici a dimostrarlo) quanto perché considera con timore le reazioni sociali a questi eventi e le inevitabili ripercussioni sul bambino dell’ostilità critica della gente.

Secondo l’opinione di molti, però, questi timori sarebbero esagerati e infondati.

Per alcuni psicologi, l’ovodonazione potrebbe determinare la comparsa di reazioni emotive molto intense e talora preoccupanti in entrambe le donne coinvolte, cioè tanto in colei che dona quanto in colei che riceve. Debbo dire che, come spesso mi accade, non crediamo a tutto quello che dicono gli psicologi sul tema della fisiologia e della patologia della riproduzione. Non crediamo, per esempio, che esistano ancora dati sufficienti, in questo campo, per potersi fare un’opinione. Non riteniamo che sia giusto prendere spunto da un’esperienza personale, o dall’analisi di una piccola o piccolissima casistica di pazienti, per trarre conclusioni generali. Non siamo convinti del valore delle indagini fatte senza gruppi di controllo, senza valutazione statistica e così via. Non pensiamo che chi è costretto a ricorrere alle cure di uno psicologo possa essere considerato completamente rappresentativo della popolazione da cui proviene. Non consideriamo giusto sottovalutare l’opinione degli operatori non-psicologi, che hanno però esperienza diretta di questi casi, per averli seguiti quotidianamente anche dopo la loro conclusione clinica.

l- Capacità cognitive e salute psicologica dei bambini

In questi ultimi anni sono stati pubblicati vari studi, soprattutto da parte di autori Belgi, dedicati alla valutazione delle capacità cognitive dei bambini nati da inseminazione con seme di donatore, da dono di oociti e da “gravidanza per altri” (la cosiddetta maternità surrogata”. Queste valutazioni sono tutte assolutamente ottimistiche, ma non è l’intelligenza di questi bambini che preoccupa chi è contrario alle donazioni di gameti, bensì la loro felicità e la normalità della loro vita familiare. Secondo la nostra personale esperienza, in realtà relativamente esigua, molte donne che hanno partorito dopo aver ricevuto un oocita da un’altra donna sono rimaste in rapporto con i medici che le hanno avuto inizialmente in cura e le hanno aiutate a districarsi in un percorso molto tortuoso: ebbene raramente abbiamo potuto percepire in loro sentimenti che non fossero di piena soddisfazione, sia nei riguardi del figlio, che nei confronti di come era stato accolto dal marito. Inoltre sappiamo che non ci sono notizie di rifiuti, in gravidanza o dopo la nascita, di bambini nati in questo modo.

Personalmente, non crediamo di avere una posizione estremista su questo tema. Ad esempio, poiché crediamo nell’etica della responsabilità, non troveremmo né strano né destabilizzante se una coppia che desidera avere accesso a una donazione di gameti affrontasse un percorso simile a quello delle coppie che vogliono adottare un figlio, visto che entrambe debbono poter dimostrare di essere in grado di fare una promessa: ti starò vicino, ti chiamerò figlio, ti dichiarerò il mio amore ogni volta che mi cercherai e avrai bisogno di me. I percorsi non potrebbero naturalmente essere identici, ma in entrambi i casi da essi dovrebbe emergere una figura di genitore prevalentemente sociale, capace di includere nella sua codificazione anche la componente biologica, senza però coincidere con essa e senza ricavare alcuna dimensione giuridica da eventi naturali. Insomma, pensiamo che non dovrebbe interessare a nessuno come un bambino viene concepito, ma che dovremmo tutti essere preoccupati di sapere se chi se ne è preso cura si è realmente assunto la piena responsabilità della sua crescita felice e della sua educazione serena.

Nello stesso modo, pensiamo che il problema del segreto sia un falso problema: non è difficile spiegare a un adolescente che è importante solo colui che ha preso la decisione di farlo nascere (e se ne è assunto la responsabilità) e conta invece meno di zero chi ha fornito il programma genetico, oltretutto insignificante per quanto riguarda la sua struttura di uomo. Altri Paesi si stanno muovendo in questo senso, possiamo farlo anche noi.

C – La gravidanza per altri.

La gravidanza per altri, quella che viene definita da alcuni, con evidente e incivile disprezzo, affitto di utero o maternità surrogata, è stata proposta come mezzo per aiutare le donne incapaci di avere un figlio con le proprie forze, e la prima citazione la potete trovare nella Bibbia (Genesi 16,1-15 17,15-19 21,1-4) e c’è chi ha persino indicato la vergine Maria come il primo esempio di madre surrogata, visto che il figlio che aveva portato in grembo era figlio di Dio e non poteva avere, almeno in teoria, rapporti genetici con gli uomini. La tecnica, come tutti sanno, è stata molto semplificata dalla messa a punto delle tecniche di fertilizzazione in vitro che ha reso possibile trasferire alle madri surrogate embrioni creati con i gameti della coppia committente, evitando così qualsiasi contributo genetico da parte della madre “gestante”, ma era stata eseguita in passato con tecniche più grossolane, eseguendo lavaggi endouterini nel momento del possibile impianto di un embrione e trasferendolo immediatamente nell’utero scelto per portare a termine la gravidanza. Il primo riferimento bibliografico a questo tipo di maternità è stato pubblicato nel New England Med. J. da Utian e coll. nel 1985.

Ancora oggi si tende a fare confusione con i termini che definiscono le varie madri surrogate, e lo stesso termine “surrogata” è stato attribuito sia all’una che all’altra protagonista. “Gestational surrogacy” “full surrogacy” e “IVF surrogacy” sono comunque definiti come i gameti di una “genetic couple” “commissioning couple” o “intended parents” in un “surrogacy arrangement” che vengono usati per produrre embrioni: questi embrioni sono successivamente trasferiti a una donna che accetta di agire come ospite. Essa non è in alcun rapporto genetico con i bambini che possono nascere da questo accordo. Quando invece si parla di “natural surrogacy” o “partial surrogacy” la donna che si propone come ospite viene inseminata con il seme del marito della coppia genetica; è evidente che in questo caso esiste una relazione genetica tra l’ospite e il bambino, perché si tratta di prestito d’utero e di dono di oocita. Esistono due modalità di organizzare una maternità surrogata: in una, si stabilisce un rapporto contrattuale tra le parti ed è evidente che in questi casi la coppia genetica deve pagare un prezzo. Questa maternità surrogata contrattuale è possibile negli Stati Uniti, dove esistono organizzazioni molto efficienti. La seconda modalità è quella oblativa, basata quindi su un atto di generosità, costruito generalmente sulle fondamenta di una parentela o di una solida amicizia. Questa maternità surrogata è accettata in Inghilterra, anche se il suo percorso verso l’accettazione è stato molto tormentato. The Warnock committee in effetti, nel 1984, ne raccomandava la proibizione e solo l’intervento della British Medical Association riuscì a modificare l’atteggiamento del Governo inglese. Nel 1985 la BMA ne accettò il principio generale ma solo “in selected cases with careful controls” e due anni più tardi la stessa associazione chiarì che, in ogni caso, i medici “should not partecipate in any surrogacy arrangements” e che comunque si trattava di una “last resort option”.

Nel 1990 The Human Fertilisation and Embriology Act fu approvato dal Parlamento inglese: nel documento non c’è proibizione nei confronti della maternità surrogata. L’ultimo Report della BMA di cui sono a conoscenza e che è del 1996 afferma che “surrogacy is an acceptable option of last resort in cases where it is impossible or highly undesirable for medical reasons for the intended mother to carry a child herself”.

Le indicazioni principali per ricorrere ad una maternità surrogata sono:

– dopo una isterectomia;

– per assenza congenita dell’utero;

– a seguito di ripetuti fallimenti FIVET;

– in casi di aborto ricorrente;

– se esistono condizioni di salute incompatibili con una gravidanza.

Si dice – ma non esistono prove reali che si tratti di affermazioni basate sulla verità – che la maternità surrogata basata sul contratto sia stata e sia eseguita anche per motivazioni meno accettabili, come la paura di imbruttire con la gravidanza o il desiderio di non abbandonare il lavoro. Si dice – ma ancora una volta senza prove reali – che le associazioni americane basate sul profitto non guardino molto per il sottile e abbiano accettato e accettino impegni relativi a coppie che avrebbero benissimo potuto avere figli senza ricorrere a questa tecnica. Nei casi di “partial surrogacy”, nei quali viene anche offerta una ovodonazione, si propone un importante problema etico, che è quello relativo all’età della donna che riceverà il bambino, essendo noto che molte di queste richieste arrivano da donne in menopausa e che solo una parte di queste menopause è prematura.

Ci sono stati – e sono stati molto propagandati – problemi legali, nelle maternità surrogate, problemi che sono nati soprattutto al momento di consegnare il bambino. Su questi problemi esiste un’ampia letteratura, che sembra dimostrare come nella maggior parte dei casi la colpa debba essere attribuita a un counseling inadeguato o addirittura non eseguito. La maggior parte dei guai nasce comunque nei casi di “partial surrogacy”, e deriva dal desiderio della madre di tenere per sé il figlio. Una causa frequente di problemi è la nascita di un bambino malconformato. Un ulteriore problema può derivare dal fatto che, al di fuori dei contratti, nei quali i pagamenti sono resi espliciti senza possibilità di discussione, possono nascere discussioni sul significato di “reasonable expenses”, che è quanto la coppia genetica dovrebbe pagare all’ospite nei casi di maternità surrogata “oblativa”, visto che l’altruismo assoluto sembra più spesso un bel sogno che un fatto concreto. È comunque vero che le maternità surrogate hanno fatto lavorare i tribunali, anche se non tanto spesso come qualcuno vorrebbe.

La maternità surrogata è comunque vietata in molti Paesi, senza distinzione tra contratto e oblazione. L’ammettono, oltre a Inghilterra e Stati Uniti, Argentina, Brasile, alcuni Stati Australiani, Canada, Ungheria, Israele e Sud Africa. Sono particolarmente ostili, nei confronti della surrogazione, la religione cattolica e l’islamica, anche se poi bisogna accettare il fatto che molti moralisti laici accettano di malagrazia l’atto oblativo, ma condannano quello contrattuale, generalmente parificato a una forma di prostituzione. Non tutti però: c’è chi ritiene che nessuno è in diritto di proibire ad un essere umano di fare quel che vuole del proprio corpo, senza prima essersi fatto una serie di domande: perché lo fa? cosa faccio io per rimuovere le condizioni sociali che lo costringono a fare questa scelta? cosa farà questa persona se io gli impedirò di trarre profitto dalla vendita del proprio corpo o di parte di esso?

Le informazioni sulle “donazioni del grembo” sono attendibili solo se limitate alle cosiddette maternità surrogate totali, quelle che non includono la contemporanea donazione di oociti. Queste ultime, chiamate anche di “surrogazione parziale”, in realtà spesso non richiedono l’intervento di un medico e non hanno quasi mai bisogno di accedere alle tecniche di PMA, ragione per cui sfuggono a una valutazione quantitativa e statistica.

Al di là del fatto che la surrogazione sia o no ammessa, è fondamentale – perché possa essere utilizzata senza complicazioni – che venga praticata in Paesi che si sono preoccupati di adottare procedure legali che attribuiscano la genitorialità alla madre genetica, evitando possibili conflitti.

La maternità surrogata “totale” è ammessa in una ventina di Paesi (Canada, Grecia, Hong Kong, Ungheria, Israele, Olanda, Nuova Zelanda, Russia, Inghilterra, Australia, Brasile, India, Sud Africa, Tailandia, Stati Uniti, Columbia, Ecuador, Finlandia, Perù, Romania) con regolamenti spesso molto diversi.

In Argentina, ad esempio, un paese in genere citato tra quanti non ammettono questa pratica, esiste la possibilità di ottenere un permesso speciale da una Commissione che giudica caso per caso. L’Australia, dal canto suo, ha norme lievemente diverse nei differenti Stati, l’Australia dell’Ovest ammette la surrogazione solo per uso compassionevole; l’Australia del Sud ha una legge analoga, ma la possibilità di ricorrere alla surrogazione oblativa deriva indirettamente dalla condanna specifica di quella commerciale; lo Stato di Vittoria consente la surrogazione per ragioni altruistiche e condanna ogni tipo di remunerazione. Anche il Brasile ha norme analoghe che proibiscono i Centri di PMA di essere coinvolti in queste tecniche se esistono accordi finanziari tra le parti. In Grecia la surrogazione (ammessa solo per le coppie residenti nel Paese) necessita di una autorizzazione giudiziaria rilasciata prima del trasferimento, se esiste un accordo scritto e senza compensiamo tra le parti. L’autorizzazione viene accordata se la richiedente è nella assoluta impossibilità di avere un figlio e la donna che si presta alla gestazione è francamente idonea.

In Israele la coppia richiedente deve essere sposata e la donna surrogata nubile; è necessaria una autorizzazione da parte di una speciale commissione del Ministero della Salute. La situazione degli Stati Uniti è invece assolutamente variegata, ogni Stato ha norme diverse.

L’Inghilterra ha approvato nel 1985 il cosiddetto Surrogacy arrangements Act che istituisce una serie di reati in merito alla presenza di maternità surrogata nel Regno Unito, proibendo a intermediari commerciali di concordare con donne le prestazioni come madre surrogata e penalizzando la pubblicità di servizi relativi a questi interventi. La norma è estremamente dettagliata e in pratica lascia spazio solamente agli atti oblativi. L’attribuzione della maternità è affidata a un Tribunale ed è ammessa su richiesta della coppia entro 6 mesi dalla nascita del bambino; lo stesso Tribunale deve accertare che non è stata pagata alcuna somma di danaro, salvo le spese ragionevolmente sostenute dalla madre surrogata.

E’ opinione condivisa l’opportunità di intrattenere le coppie sul problema di quanto dire al bambino sulla sua nascita e discutere con la madre surrogata su cosa dovrà eventualmente dire ai suoi figli a proposito di questo loro fratello d’utero. Un ulteriore problema potrebbe essere quello dell’allattamento al seno, per il quale anche la madre genetica potrebbe prepararsi.

La terapia cui deve essere sottoposta la madre genetica non differisce da quella che si usa per una qualsiasi fertilizzazione in vitro. Gli embrioni vengono in genere congelati per il periodo necessario per stabilire l’assenza di una positività all’AIDS nella coppia che ha dato i gameti.

Le madri surrogate vengono sottoposte ad un protocollo di indagini molto complesso che deve stabilire non solo l’assenza di malattie che possono danneggiare il bambino, ma anche di malattie che possono controindicare la gravidanza. Il trasferimento dell’embrione si esegue sia in cicli naturali che in cicli artificiali. Questi ultimi, poiché consentono l’uso di analoghi del GnRH, vengono preferiti soprattutto per evitare l’insorgere di gravidanze spontanee. In genere non ci sono differenze tra queste gravidanze e quelle che si osservano dopo una normale fertilizzazione in vitro. Che le madri surrogate “per contratto” tendano ad essere cattive madri, mantenendo abitudini igieniche non accettabili in gravidanza, (fumo, alcool, uso di droghe) sembra una maldicenza ed è comunque privo di qualsiasi prova.

Ci sono stati – e sono stati molto propagandati – problemi legali, nelle maternità surrogate, problemi che sono nati soprattutto al momento di consegnare il bambino. Su questi problemi esiste un’ampia letteratura, che sembra dimostrare come nella maggior parte dei casi la colpa debba essere attribuita a un counseling inadeguato o addirittura non eseguito. La maggior parte dei guai nasce comunque nei casi di “partial surrogacy”, e deriva dal desiderio della madre di tenere per sé il figlio. Una causa frequente di problemi è la nascita di un bambino malconformato. Un ulteriore problema può derivare dal fatto che, al di fuori dei contratti, nei quali i pagamenti sono resi espliciti senza possibilità di discussione, possono nascere discussioni sul significato di “reasonable expenses”, che è quanto la coppia genetica dovrebbe pagare all’ospite nei casi di maternità surrogata “oblativa”, visto che l’altruismo assoluto sembra più spesso un bel sogno che un fatto concreto. È comunque vero che le maternità surrogate hanno fatto lavorare i tribunali, anche se non tanto spesso come qualcuno vorrebbe.

Sono particolarmente ostili, nei confronti della surrogazione, la religione cattolica e l’islamica che chiamano tutte le forme di “gravidanza per altri” con lo stesso nome, evidentemente derogatorio, di affitto d’ utero, fingendo di ignorare l’esistenza di atti oblativi. Molti moralisti laici accettano di malagrazia l’atto oblativo, ma condannano quello contrattuale, generalmente considerato come una forma di prostituzione. Non tutti però: c’è chi ritiene che nessuno sia in diritto di proibire ad un essere umano di fare quel che vuole del proprio corpo, senza prima essersi fatto una serie di domande: perché lo fa? cosa faccio io per rimuovere le condizioni sociali che lo costringono a fare questa scelta? cosa farà questa persona se io gli impedirò di trarre profitto dalla vendita del proprio corpo o di parte di esso?

Non è perfettamente chiara la ragione per cui la maternità surrogata trova tanta ostilità in molti settori della società ( è contraria, ad esempio, una parte del mondo femminista); nessuno può essere così stupido da accettar per buone le motivazioni che troviamo scritta in una proposta di documento presentata al CNB : ” In tutti questi documenti il CNB ha ricordato e fatto proprio il nitido principio bioetico espresso dall’art. 21 della Convenzione di Oviedo sui diritti umani e la biomedicina (1997): il corpo umano e le sue parti non debbono essere, in quanto tali, fonte di profitto”. Principio che, essendo stato ribadito dall’art. 3 della Carta Europea dei Diritti Fondamentali (2000), possiamo affermare costituisca uno dei cardini del tessuto etico dell’ Unione europea. Per questi motivi, il CNB ritiene opportuno ricordare, in riferimento al vivacissimo dibattito italiano degli ultimi mesi relativo alla maternità surrogata, che la gestazione per surrogazione in particolare quando è a titolo oneroso, il c.d. “utero in affitto”, costituisce una delle forme più evidenti di mercificazione del corpo umano.

“Il CNB non intende, in questa mozione, affrontare il problema della maternità surrogata in quanto tale (peraltro vietata nel nostro paese dall’art. art. 12, comma 6 della L. 40/2004), riservandosi di intervenire su questo complesso problema con uno specifico parere, ma vuole sottolineare il fatto che la gestazione per surrogazione, in particolare quando è a titolo oneroso, oltre a eludere il divieto di fare del corpo umano un oggetto di lucro implica necessariamente, avendo come fine la consegna del neonato dalla gestante a terzi, la stipula di un contratto fra le parti, e cioè i genitori committenti e la madre surrogata; la modalità contrattuale di gestione della gravidanza, a prescindere dalle sue forme, esclude intrinsecamente la fattispecie di dono, e porta con sé diverse violazioni dei valori fondamentali della persona. In particolare:

a) I rigidi e pressanti controlli e condizionamenti sullo stile di vita, la condotta, il regime sanitario a cui la gestante è costretta per garantire il corretto adempimento della prestazione;

b) La drammatica condizione psicologica di una donna che sente svilupparsi dentro di sé, giorno per giorno, un legame biologico e affettivo, ma ha la certezza di doverlo interrompere, ad ogni costo e definitivamente, per rispettare un impegno contrattuale;

c) La composizione dei reciproci interessi delle parti coinvolge la vita di un soggetto terzo, il nascituro, che non partecipa al contratto e che non può fornire il proprio consenso, salvo ad apprendere, un giorno, di essere stato oggetto di una transazione commerciale;

d) L’inevitabile sottoposizione del neonato, oggetto del contratto di maternità surrogata, a un indebito controllo di “qualità” da parte del committente;

e) L’impossibilità di predeterminare, secondo giustizia e non rinviando alle mere e spesso arbitrarie scelte contrattuali delle parti, il rilievo da dare agli eventi avversi che potessero emergere nel corso della gestazione e del parto e di individuare in modo nitido e ragionevole a quale dei soggetti coinvolti nel processo di maternità surrogata andrebbe conferito il potere di operare le conseguenti scelte sanitarie rilevanti (da una decisione abortiva o di riduzione embrionale fino a quella di una qualsivoglia terapia prenatale, che comportasse ricadute anche sulla salute della gestante).”

A parte l’ipocrisia di espressioni come “, in particolare quando è a titolo oneroso”, viene inevitabilmente da chiedersi, solo per fare un esempio, per quale ragione un donna che ha scelto, per affetto e compassione, di fare un figlio per la propria sorella, debba trovarsi in una “drammatica situazione psicologica”, debba sentire svilupparsi dentro di sé “un legame biologico e affettivo” e debba patire le pene dell’inferno per ” la certezza di doverlo interrompere, ad ogni costo e definitivamente, per rispettare un impegno contrattuale”. Questo romanticume civettuolo e ipocrita non trova conferma nella letteratura medica che ha espresso su questi temi giudizi realmente autonomi, In altri termini, questa è “dioetica” e non è saggio tenerne conto.

D – Il trapianto d’utero ( deve essere rimpolpata con un po’ di storia e deve essere controllata la letteratura)

Sarebbe anche bene che chi ritiene di doversi cimentare in queste valutazioni critiche si documentasse bene sulle alternative possibili. In Svezia, ad esempio, una equipe di chirurghi guidata da Mats Brännström direttore del Dipartimento di Ostetrica e Ginecologia dell’Università di Göteborg sono già nati sei bambini da donne alle quali era stato trapiantato l’utero. Si è trattato di trapianti da vivente (una parente, almeno fino a oggi) eseguiti prevalentemente per agenesia uterina (la cosiddetta sindrome di Rokitanski) e per isterectomie da cause diverse, in donne di età compresa tra i trenta e i quaranta anni. Siamo stati presenti a una conferenza di Mats Brännström , e siamo stati impressionati dalla sua descrizione dei possibili rischi: si tratta di interventi che durano in media nove ore e che rappresentano un possibile rischio per la vita di entrambe le donne operata; ma la cosa non finisce qui, perchél a trapiantata è costretta ad assumere per tutto il tempo in cui è portatrice di questo viscere estraneo, farmaci antirigetto che si sono dimostrati innocui per le sue eventuali gravidanze ma non per lei (possono indurre diabete e ipertensione e aumentare il rischio di malattie tumorali). Trapianti di utero, dopo questi successi, sono stati tentati in Gran Bretagna e sono attesi in altri Paesi Europei , Italia compresa, e alcuni di questi tentativi utilizzeranno cadaveri, almeno in prima battuta. Lo stesso Brännström ha spiegato che quella del trapianto non può essere la soluzione definitiva (troppi rischi) , soluzione per la quale ha indicato la produzione di uteri artificiali.

E – L’ectogenesi

Non si tratta di una utopia, diversi gruppi di ricercatori stanno cercando di svilupparne uno, con tecniche diverse, e nel prossimo luglio, a Londra, è prevista un riunione di questi studiosi con un notevoli numero di potenziali finanziatori, con l’intento di predisporre un protocollo unico di ricerca. Mi piace ricordare he il primo caso di ectogenesi del quale si abbia conoscenza fu tentato con successo nel mio Istituto di Bologna ( C. Bulletti e coll. Early human pregnancy in vitro utilizing an artificially perfused uterus. Fertility and Sterility, 1988, 49,991): chi voglia poi capire come la ricerca si sia sviluppata negli anni successivi può fare riferimento a un articolo di Carlo Bulletti pubblicato negli Annals of the New York Academy of Sciences del 2011 (The Artificial Womb).

C’è da chiedersi, a questo punto, quanto siano effettivamente nel giusto coloro che guardano all’ectogenesi come a un modo per liberare un certo numero di donne dall’angoscia di non poter procreare, quali che siano le motivazioni di questa impossibilità.

Recentemente un gruppo americano, ha presentato i risultati di uno studio che la stampa italiana ha presentato con molta enfasi come “utero artificiale” (ma la stampa americana ne ha parlato appena).

Per quello che è possibile sapere, l’intenzione di questi ricercatori è quella di sperimentare, nei prossimi anni, farmaci che dovrebbero facilitare l’impianto dell’embrione, ragione per cui hanno bisogno di avere un modello sperimentale: la loro scelta è stata quella di preparare un tessuto adatto su una matrice non biologica. Tutto ciò ha ben poco a che fare con l’ectogenesi: in effetti non abbiamo nessuna tecnologia che ci permetta di costruire organi, ma possiamo solo preparare tessuti. Non c’è neppure bisogno di dire che per l’ectogenesi ci vuole un utero, non del tessuto uterino. Malgrado ciò, e malgrado il fatto che molti di noi abbiano cercato di spiegare che l’ectogenesi non c’entrava per niente, l’attenzione dei bioeticisti si è concentrata sul problema del povero bambino nato in una macchina.

Negli ultimi vent’anni, a partire da differenti esperienze, gli psicologi hanno parlato della possibilità che il feto possieda una personalità prima della nascita. Queste supposizioni dovrebbero essere confortate da vari racconti di individui in ipnosi che hanno ricordato esperienze vissute nel periodo prenatale o particolari relativi alla nascita. In base al presupposto che il feto possa essere cosciente, consapevole e capace di memoria, è stato anche ipotizzato che le esperienze che vive durante il periodo prenatale possano influire sullo sviluppo della sua emotività e della sua mente. Vari studi avrebbero dimostrato che l’attitudine della madre verso il feto ha un forte impatto sulla salute fisica e psichica del nascituro: le cosiddette “cool mothers”, quelle che per problemi di carriera hanno la gravidanza “in gran dispetto” partorirebbero figli letargici e apatici. È stato coniato il termine “toxic womb” per indicare le madri che influenzerebbero negativamente “l’umanizzazione” del bambino in utero ed è stata applicata questa definizione alle madri surrogate. In base a questi presupposti sono stati elaborati programmi che hanno lo scopo di insegnare ai genitori ad entrare in relazione e a stimolare il bambino in utero per migliorarne e accelerarne lo sviluppo psico-fisico. Il più elaborato di questi programmi appartiene (si faccia attenzione al nome) alla Pre-natal University della California e si basa sulla stimolazione (con stimoli tattili ed uditivi) del bambino a partire dalla 28a settimana di amenorrea.

Tutte queste teorie sono in contrasto con quanto sappiamo sullo sviluppo del sistema nervoso del feto, che non è mielinizzato e non è assolutamente in grado di fissare ricordi (e quindi di rievocarli in seguito) e di provare emozioni. Lo statuto scientifico di tutto quanto si sostiene in questo campo è debolissimo se non inesistente e i miei collaboratori si sono rifiutati di iniziare una ricerca in questo campo malgrado le mie insistenze. Non esiste una sola ricerca empirica che autorizzi a pensare che tra madre e feto passi qualcosa di “non molecolare”, un “afflato dell’anima” che il laboratorio non è in grado di verificare, ma che cementa un rapporto d’affetto che non si incrinerà mai. So che il mio punto di vista è fastidioso, perché poco romantico e, in qualche modo, materialista, ma sono disponibile a mutare d’avviso, di fronte ad una sola prova concreta. Ma questa prova non c’è, almeno fino ad oggi, né sinceramente saprei consigliare dove cercarla.

Comunque, sulla base di queste considerazioni, molti bioeticisti hanno accolto la notizia di una possibile ectogenesi con alti lai, ripetendo fino alla noia che non ci può essere umanità intera, nel nuovo nato, senza un precedente rapporto positivo con una madre affettuosa e tenera (e geneticamente giusta).

Tutto ciò è scorretto. Con l’aggravante di sollevare particolari sospetti sull'”umanità” dei bambini dati in adozione, certamente nati, almeno in gran parte, da “toxic wombs”, da “cool mothers” o da “madri ambivalenti”. Senza contare il gran numero di donne che partoriscono dopo aver detestato per nove mesi la creatura che cresceva nel loro grembo e poi sono diventate madri affettuose e tenere di bambini perfettamente normali.

Se si tiene conto di quanto ho scritto, dovrebbe essere chiaro che la scienza sta cambiando le regole del gioco, giudicare secondo gli antichi paradigmi non ha alcun senso, è una inutile perdita d tempo. Difendere la famiglia tradizionale, costruire elenchi di merito, con famiglie di serie A e di serie B dovrebbe farci arrossire tutti di vergogna. Mi viene in mente che negli Stati Uniti c’è una commissione che autorizza i ricercatori a utilizzare, per i loro studi, oociti prelevati dalle ovaia di feti abortiti. Quando accadrà (perché certamente accadrà) che da uno di questi oociti nasca un bambino, sarà certamente il primo del suo genere: nata da una madre mai nata, con una nonna materna che aveva scelto di abortire, non crediamo che sarà interessato al nostro giudizio etico e se gli chiederemo di commentare la sua nascita, probabilmente ci risponderà che “è la scienza, bellezza”.

Crediamo che la società si stia rendendo lentamente conto di quanto sta accadendo; lo desumo anche per il fatto che la nostra più antica e rispettabile Enciclopedia, la Treccani, riferimento culturale per alcune generazioni di intellettuali, ne accenna, alla voce “Procreazione Assistita” nella recentissima IX Appendice:

“In ultima analisi, i nuovi problemi posti dalla fecondazione assistita possono richiedere a molti di noi un cambiamento delle opinioni ereditate dall’etica tradizionale. Sembra necessario riconoscere che una trasformazione così profonda come quella che si profila circa la funzione riproduttiva della famiglia può comportare una nuova etica, con parametri diversi da quelli tramandati dalla tradizione.

Se è vero che la Rivoluzione biomedica, come continuazione della Rivoluzione industriale, comporta «la più fondamentale trasformazione dell’umanità di cui si hanno documenti scritti», allora è ragionevole pensare che la scienza stia aprendo una fase storica nuova e che gli antichi paradigmi debbano essere messi in discussione.”

F – GENE EDITING

Il numero di malattie genetiche che affliggono la nostra esistenza e di quelle che trasmettiamo ai nostri figli e ai nostri nipoti per rattristare, abbreviare o mortificare la loro è in continua crescita e ammonta ormai a diverse migliaia , il che giustifica la grande attenzione e il notevole numero di studi che la medicina ha dedicato al problema. La strada della conoscenza è stata lastricata di errori e per molto tempo la medicina si è accontentata dell’ eugenetica negativa ( questo bambino è affetto da una malattia genetica e io non lo faccio nascere). La cosiddetta genetica positiva dopo un lungo periodo di tempo durante il quale è stata esclusa dagli interessi della ricerca scientifica, da qualche decennio sembra essersi liberata di almeno una parte dei veti che la mortificavano e, con molta prudenza, si è finalmente data due finalità: correggere le basi delle malattie genetiche con interventi sulle cellule somatiche; impedire la trasmissione delle malattie ereditarie intervenendo sulle cellule riproduttive o sugli embrioni agli stati inziali di sviluppo. Si è trattato, almeno fino a tempi del tutto recenti, di una sperimentazione difficile, caratterizzata da molti fallimenti: l’inserimento di un gene normale che sostituisse il suo omologo non funzionante (o comunque responsabile di un problema clinico) è stato fatto per decenni utilizzando tecniche che davano scarse garanzie e modestissimi risultati e le varie metodiche sono state via via abbandonate. Oggi sembra che finalmente possiamo disporre di una tecnica di correzione o sostituzione genetica nuova, semplice, efficace e poco costosa – la CRISPR-Cas9 -molto vicina alla perfezione, che richiede però ancora di essere sperimentata alla ricerca di difetti che gli scienziati potrebbero aver sottovalutato. Questo ” gene editing” può riguardare sia le cellule somatiche di un individuo adulto – e in questo caso deve essere considerato in linea di principio come una vera e propria cura, senza effetti sul problema della possibile trasmissione ai discendenti – sia i gameti e gli embrioni nelle fasi iniziali del loro sviluppo, nel qual caso l’obiettivo dovrebbe essere anche quello di cancellare quella malattia dai rischi ereditari di quella famiglia.

a – Gene editing sulle cellule somatiche

La Food and Drug Administration (FDA) ha approvato per la prima volta una richiesta di eseguire un intervento di ingegneria genetica nel 1990 e la prima persona a subire questo tipo di trattamento è stata una bambina affetta da deficit di adenosindeaminasi. Ci fu un iniziale successo, peraltro parziale e temporaneo, sufficiente comunque a indurre alcuni ricercatori a tentare la stessa terapia in altre forme morbose: coloro che si aspettavano una sorta di protesta collettiva furono delusi, il fatto che questa tecnica non avesse (in teoria e in prima approssimazione) effetti sulle cellule germinali e, quindi, sulla progenie eliminava il rischio più temuto, quello appunto delle conseguenze sulla discendenza delle persone trattate. Questa differenza tra le due terapie ( quella sulle cellule somatiche e quella sulle cellule riproduttive) fu più e più volte sottolineata e consentì ai sostenitori della ingegneria genetica di presentare le loro cure come se appartenessero alla stessa famiglie di una serie di altre terapie di routine, le trasfusioni di sangue e i trapianti di organo, fallaci come tutte le terapie esistenti nel mondo ma i sui fallimenti e i cui effetti collaterali non hanno ripercussione sulla salute della possibile discendenza dei soggetti trattati. In una delle analisi delle terapie genetiche scritta recentemente da Demetrio Neri ( ) sono però sottolineati due punti che – a nostro personale avviso – invalidano completamente queste (superficiali) certezze. Il primo punto riguarda la possibilità che le modificazioni genetiche indotte nelle cellule somatiche possano comparire anche nelle cellule germinali, quelle che hanno una funzione riproduttiva, cosa che è stata documentata in alcuni animali e almeno una volta in un soggetto umano (Boyce N. Trial halted after gene shows up in semen. Nature. 2001, 414, 677). La scoperta provocò una animata discussione dalla quale sembrò uscire vincitore (forse anche per stanchezza degli interlocutori) chi sosteneva che il coinvolgimento della linea germinale doveva essere considerate come un effetto collaterale (oltretutto raro e improbabile) non diverso da quelli che anche le più corrette e sperimentate terapie possono generare. Demetrio Neri fa osservare che questa tesi dovrebbe essere considerata inaccettabile da coloro che sostengono che il divieto di interferire intenzionalmente con il genoma dei discendenti (sempre naturalmente a scopo terapeutico e preventivo) si fonda sulla volontà di proteggere le future generazioni: il buonsenso in effetti imporrebbe di proibire anche le cure potenzialmente in grado di causare lo stesso danno come effetto collaterale sfavorevole. D’altra parte, aggiungiamo noi, chiamare in causa la scarsa probabilità di un tale evento è assolutamente improprio: anzitutto non sono mai state fatte ricerche sistematiche per stabilire la frequenza di questa contaminazione; in secondo luogo l’ipotesi che una frequenza significativa sarebbe spontaneamente emersa dalla evidenza clinica non regge, perché non sappiamo di quale tipo di mutazioni si tratta e mutazioni non patologiche, patologiche si scarso rilievo o di difficile diagnosi non si sarebbero evidenziate da sole.

Anche l’idea di eseguire opportune sperimentazioni sugli animali non sembra attuabile, tenendo conto delle conclusioni dello stesso Boyce che riportiamo :

“These clinical trials also raised the troubling possibility of inadvertent germline alteration when semen samples were found to be transiently positive for vector DNA. This is in contrast to prior studies conducted in experimental animals, reinforcing the importance of the choice of animal model system employed when conducting pre-clinical studies, if one wishes to extrapolate results obtained in their model to what would likely happen in the clinic. ”

Se ne dovrebbe dedurre che dal punto di vista della protezione delle future generazioni non esistono sostanziali differenze tra le due terapie e che è scelta del tutto peculiare ( e, diciamolo, irrazionale) quella di coloro che, contrari alla gene editing sulle cellule germinali e sugli embrioni lo approva quando il bersaglio sono le celle somatiche.

Il secondo problema riguarda la probabilità, ora certamente molto elevata, che la terapia genica sulle cellule somatiche esca dalla incerta fase ( ancora in gran parte sperimentale e certamente colma di problemi irrisolti ) attuale per divenire una terapia di routine caratterizzata da significativi successi nella cura di una serie di malattie genetiche. La auspicabile efficacia delle nuove terapie avrà come conseguenza un effetto positivo sulla fertilità delle persone curate che, una volta guarite, avranno certamente figli che altrimenti non sarebbero stati concepiti (anche perché quelle di loro curate in età infantile o adolescenziale avranno molte maggiori probabilità di raggiungere l’età riproduttiva) e trasmetteranno la loro malattia genetica a un certo numero di discendenti. Nascerà così un maggior numero di soggetti portatori di gravi malattie genetiche ( e aumenteranno con ogni probabilità gli omozigoti) e il successo della ingegneria genetica sarà fonte di danno per molti nuovi nati ( oltre ad altre conseguenze possibili come l’aumento degli aborti e delle spese mediche). Da parte di alcune Istituzioni ( tra tutte cito l’FDA) sono giunti suggerimenti quali la limitazione dei trattamenti ai soli soggetti sterili, l’obbligo di condizionare il diritto ad avere un figlio all’uso di tecniche di selezione embrionale, la previsione di cure genetiche gratuite a tutti questi soggetti. Non c’è dubbio che si potrebbe determinare in questi casi un conflitto di interessi e sembra a molti evidente che a garantire l’interesse delle nuove generazioni potrebbe essere la scelta di eseguire il gene editing sulle cellule riproduttive.

E’ bene ricordare a tutti che le attuali esitazioni, le perplessità, i distinguo e le richieste di moratoria sul tema della terapia genica delle cellule somatiche sembrano ormai privi di interesse visto che la ricerca scientifica prosegue imperterrita senza tenerne conto. Incuranti di quanto veniva detto nelle lontane aule della bioetica occidentale alcuni scienziati cinesi hanno ottenuto dal Comitato etico dell’Università del Sichuan e del West China Hospital il consenso di sperimentare il gene editing sull’uomo ed è possibile che la fretta che stanno dimostrando (il consenso è stato ottenuto nel giro di settimane, la sperimentazione ha già avuto inizio, almeno per quanto ci è dato capire) sia dovuta a una sorta di competizione che è cominciata tra Cina e gli Stati Uniti, che progettano qualcosa di molto simile. La sperimentazione verrà eseguita su un malato terminale (un cancro ai polmoni metastatizzato in molte parti del corpo che toglie qualsiasi senso al timore di effetti collaterali e di complicazioni) e avrà lo scopo modificare il DNA dei linfociti T per indurre le cellule immunitarie del malato ad attaccare le cellule neoplastiche. E’ pensabile, tenendo conto del protocollo generale di sperimentazione presentato dai biologi, che questo studio abbia soprattutto lo scopo di ricercare le mutazioni indesiderate e di rendersi conto della sicurezza della tecnica. E’ facile immaginare a quale pressione saranno sottoposti i ricercatori in caso di un successo, anche solo parziale, di questa “Rivoluzione DNA”.

b- Il gene editing delle cellule germinali e degli embrioni.

La possibilità di intervenire sul genoma delle cellule germinali e degli embrioni nelle fasi iniziali di sviluppo ha creato una netta divisione tra gli addetti ai lavori, paragonabile a quella nata a proposito della possibilità di clonare gli esseri umani. Alcuni ritengono che questa terapia vada interpretata come una forma di medicina preventiva (che definiscono come “ispirazione primaria dell’impresa medica”) e la paragonano al sistema delle vaccinazioni: così, riconoscendo che si tratta di una terapia che non ha concluso la sua fase sperimentale, accettano tutte le forme di cautela proposte purché sia chiaro che si tratta di misure pro tempore e che non debbono interferire con la necessità di incrementare la ricerca di base con lo scopo preciso di arrivare nei tempi più brevi possibili a raggiungere il volume di conoscenze e la sicurezza necessaria per passare alla fase di sperimentazione clinica, comunque necessaria a un certo punto degli studi sperimentali e che conclude tutti i protocolli di ricerca medica. Contro l’ipotesi di utilizzare il gene editing come forma di medicina preventiva sono state sollevate moltissime obiezioni: si è parlato soprattutto dei possibili danni dei quali potrebbero patire le future generazioni, della ovvia impossibilità di ottenere il loro preliminare consenso, di un non meglio definito “pendio scivoloso” verso applicazioni non terapeutiche ( la mai abbastanza vituperata eugenetica) e persino di alcuni aspetti discriminanti che queste cure potrebbero assumere in alcuni casi particolari.

Come abbiamo detto la possibilità di utilizzare con successo una di queste terapie è stata a lungo vanificata dal fatto che le varie tecniche utilizzate per introdurre il materiale genetico nelle cellule non erano in grado di collocarlo nel luogo nel quale avrebbe sostituito il gene anormale così che gli interventi risultavano utili solo in una minima percentuale di casi . La nuova tecnica di gene editing sembra aver risolto questo problema.

CRISPR-Cas9 è l’acronimo di Clustered regularly interspaced short palindromic repeats, una breve sequenza palindromatica ( che cioè può essere letta nei due sensi) di DNA non codificante, che è presente in alcuni batteri , una sorta di memoria immunitaria che fa parte di un sistema di difesa antivirale.

Consigliamo a chi voglia saperne di più sull’argomento ( e soprattutto a chi voglia capire meglio le dinamiche delle discussioni e delle critiche che hanno fatto seguito alla scoperta di questa tecnica e alle sue prime applicazioni), di consultare due articoli di Demetrio Neri ( Embryo editing: la nuova frontiera della medicina preventiva. Bioetica, Rivista interdisciplinare, 2015, 3-4, 193 ; Embryo editing: a proposito di una recente autorizzazione dell’HFEA – BioLaw Journal, 1,2016 ) che rappresentano a nostro avviso un raro esempio di chiarezza, razionalità e senso critico . In questi articoli Neri descrive la tecnica come un GPS (Global Positioning System) biologico e utilizza come esempio esplicativo quello di un correttore di bozze di un computer capace di intervenire automaticamente per correggere gli errori, segnalare l’esistenza di anomalie, intervenire (se richiesto) per correggerle cercando contemporaneamente nell’intero testo identici errori.

Nel 2015 sono comparse su Nature e su Science due lettere firmate da scienziati, filosofi e bioeticisti famosi, lettere molto diverse nei toni e nelle motivazioni, ma che concordano sulla richiesta di una moratoria che dovrebbe riguardare l’applicazione clinica del gene editing sulle cellule embrionali. Uno degli scopi della moratoria dovrebbe essere quello di trovare il tempo per organizzare una conferenza internazionale dedicata alla discussione dei molti temi etici che l’ingegneria genetica propone.

Sulla parola “moratoria ” si gioca un po’ di credibilità dei bioeticisti, che la usano senza curarsi troppo di specificarne il significato. Moratoria, nei dizionari di italiano , indica una sospensione a tempo indeterminato e su questa indeterminatezza si gioca la malafede dei nostri gesuiti scientifici, la moratoria nucleare significa sospensione possibilmente definitiva della loro produzione e basta condizionare la durata di questa sospensione a eventi impossibili che la moratoria diventa una “messa al bando”. In queste astuzie lessicali il CNB è particolarmente abile, è riuscito a classificare la sedazione palliativa profonda continua nell’imminenza della morte come una forma di terapia ( per le persone di buon senso è una forma di eutanasia che risparmia ai medici l’onta del tribunale). Ma poiché chi abusa di trucchi lessicali può subire le vendette dei dizionari, in molti documenti al termine in oggetto, moratoria, si aggiunge una fase di convenienza ” allo stato attuale delle conoscenze”, che stabilisce al di là di ogni ragionevole dubbio che chi richiede la moratoria non ha preclusioni di principio ma solo temporanee e legate allo sviluppo delle conoscenze, al cui progresso, prima o poi, dovrà per forza corrispondere il termine della moratoria. Dunque, il CNB sembra rinunciare a una parte delle sue obiezioni di principio.

Di moratorie per le sperimentazioni e le terapie in campo genetico ne sono state proposte per anni, addirittura dai tempi in cui questa materia era trattata con qualche credibilità scientifica solo nei libri di fantascienza. Se ricordiamo bene la prima proposta è stata fatta nel 1990 al Congresso del CIOMS ( Center for international organisations of medical sciences) tenuto in Giappone ( a Tokio e a Inuyama). La dichiarazione finale , approvata alla unanimità, chiedeva che l’applicazione delle tecniche di ingegneria genetica fosse condizionata alla soluzione di alcuni problemi tecnici: il gene inserito non doveva determinare effetti negativi e patologici; doveva essere inserito nel genoma in modo da non essere responsabile di anomalie cromosomiche nelle future generazioni; doveva essere assicurato il controllo delle modificazioni del genoma nel senso che gli interventi di sostituzione e di modifica dovevano essere iniziati senza possibilità dii errore. Nel corso del convegno si discusse anche la peculiarità della correlazione tra geni diversi dello stesso genoma, che si verifica in una condizione di equilibrio che la modificazione di un gene potrebbe alterare con effetti inattesi, ma il problema era complesso, sovrabbondava di ipotesi ed era carente di certezze per cui fu lasciato in disparte.

Richieste analoghe si possono trovare in molti altri documenti prodotti dalle più svariate istituzioni (in Italia ne esistono a firma del CNB – 1991 – e, in Europa, dell’EGE – 1994 -) e tutti o quasi tutti contengono espressioni come “allo stato attuale delle conoscenze” o “al momento presente”, che oltre a testimoniare dell’assenza di obiezioni di principio sembrano far riferimento ai soli problemi tecnici e alle questioni di sicurezza e di efficacia. Se è così, e non ci pare che esistano altre possibili interpretazioni, ci chiediamo quali debbano essere i limiti di un intervento eseguito da un Comitato di Bioetica, limiti che certamente esistono. In assenza di competenze scientifiche specifiche (in questi casi, per farsi una idea dei problemi i comitati di bioetica si rivolgono a un esperto della materia che fa una lezioncina di trenta minuti, lascia venti diapositive e non può certo immaginare di aver trasferito tutte le conoscenze tecniche necessarie a illustri uomini di cultura che fino al suo arrivo di questi temi sapevano molto poco). Per quanto posso capire i Comitati in questione debbono orientarsi solo in merito alla esistenza di problemi di principio che siano di ostacolo alla sperimentazione di un progetto o alla applicazione clinica di una sperimentazione giunta al termine, esprimere un giudizio etico (o più di un giudizio etico) e motivarlo ( o motivarli), lasciando alle commissioni tecniche e agli scienziati il compito di valutare problemi come la sicurezza o il rischio di effetti collaterali. Ne consegue che una richiesta di moratoria “allo stato attuale delle conoscenze” significa che bisogna darsi da fare e che si può andare avanti.

Se andiamo alla ricerca di obiezioni di principio e ci esprimiamo su una linea puramente teorica dovremmo poter trovare le posizioni etiche più conservatrici in questa materia nelle dottrine delle religioni, ma non è così o comunque non è esattamente come era possibile attendersi. Per avere una idea generale del problema si può consultare Rapporto del 2000 della AAAS (American Association for the Advancement of Science), che riassume la posizione ufficiale delle maggiori istituzioni religiose. Poiché la posizione ufficiale della Chiesa cattolica romana è in linea con i documenti delle altre sette, mi sembra interessante riassumere l’Istruzione della Congregazione per la dottrina della fede, la Dignitatis personae, che è stata resa pubblica nel 2008. Il documento considera eticamente ammissibile la terapia genica somatica, per poi formulare un giudizio «attendista» sulla terapia genica nella linea germinale: «Poiché i rischi legati ad ogni manipolazione genetica sono significativi e ancora poco controllabili, allo stato attuale della ricerca non è moralmente ammissibile agire in modo che i potenziali danni derivanti si diffondano nella progenie. Nell’ipotesi dell’applicazione della terapia genica sull’embrione, poi, occorre aggiungere che essa necessita di essere attuata in un contesto tecnico di fecondazione in vitro, andando incontro quindi a tutte le obiezioni etiche relative a tali procedure. Per queste ragioni, quindi, si deve affermare che, allo stato attuale, la terapia genica germinale, in tutte le sue forme, è moralmente illecita.» Ancora una volta l’illiceità dell’intervento sull’embrione non dipende da ragioni di principio, ma è legata ai rischi attualmente connessi alla tecnica, ai danni che da essi potrebbero risultare per i discendenti e al fatto che, sempre “allo stato attuale della ricerca”, la tecnica impone alle coppie di ricorrere alla fertilizzazione in vitro, con tanti saluti alla dignità della procreazione. Il giorno che la PMA non sarà più necessaria e quando le tecniche avranno risolto gli attuali problemi di sicurezza (una cosa che le nuove tecniche sembrano garantire) il giudizio di illiceità potrà essere riconsiderato proprio perché non dipende da ragioni di principio. E’ vero che rimane la proibizione di eseguire sperimentazioni sugli embrioni umani, ma qui si propone lo stesso problema che è stato discusso a proposito delle cellule staminali: la risposta ai quesiti verrà dalla sperimentazione eseguita in Paesi che la sperimentazione sugli embrioni la ammettono e si dovrà discutere la liceità di tener conto di queste informazioni, derivate da ricerche considerate moralmente illecite: l’immoralità rischierà di tracimare anche su ricerche simili eseguite con le stesse finalità ma con tecniche considerate eticamente legittime? Per spiegare meglio questo punto mi riferisco a una relazione tenuta da Demetrio Neri a Messina ( La sperimentazione sugli embrioni umani alla luce della ricerca biomedica avanzata (genome editing), Messina….)

Neri si chiede se sia lecito trarre beneficio da un atto malvagio compiuto da altri e si chiede come si possa connettere connette il permesso contenuto nel secondo comma dell’art.13 della legge 40 col divieto contenuto nel primo. Ricordiamo che il secondo comma consente eccezionalmente, e in deroga al divieto contenuto nel comma 3, di intervenire per alterare il corredo genetico dell’embrione purché tale alterazione intervenga a salvaguardia della salute e dello sviluppo dell’embrione stesso. In realtà, se l’embrione ha diritto alla vita gli si deve riconoscere anche il diritto alla salute e allo sviluppo: da qui la tutela fornita dal comma 2. Questa logica è difficilmente conciliabile con la quella della ricerca scientifica perché è difficile pensare che tecniche così sofisticate potrebbero permettere di intervenire sull’embrione in modo terapeuticamente efficace e sicuro fin dalla prima volta e senza una sperimentazione precedente, prima in vitro e poi in vivo su modelli animali e infine, prima di poter essere dichiarate sicure e testate per l’applicazione clinica in campo umano, una sperimentazione su embrioni umani, quella appunto vietata dal comma 1 dell’art.13, ma permessa in alcuni paesi europei tra cui la Gran Bretagna e la Svezia. In realtà, continua Neri, è per lo meno probabile che il nostro Paese abbia deciso di far fare il lavoro sporco agli altri (inglesi, cinesi e svedesi, ad esempio, per poi farlo usare ai cittadini italiani, ammesso che i risultati siano positivi. Si tratta di un problema di etica pubblica, che il CNB dovrebbe affrontare, mentre l’impressione che si trae dalla lettura di questo documento è che la maggioranza ne tenga conto ma che abbia deciso, come unica reazione, di ammiccare al legislatore. Neri era già intervenuto in passato su questo argomento ponendo il problema dei due filoni di ricerca sulle staminali, quello eticamente accettabile (staminali da cellule mature) e quello riprovevole (staminali embrionali. Poiché le nuove acquisizioni scientifiche, utili per far progredire più rapidamente le conoscenze, tracimano in continuità da una linea all’altra, era stato post il quesito dei quesiti: ammesso che la ricerca legittima porti a risultati straordinari in campo terapeutico, queste cure potranno essere utilizzate o varrà il principio della cooperatio materialis ad malum.? Perchè se fosse così e se si accettasse l’idea che l’immoralità originaria può macchiare tutti i successivi passi, non importa quanto grandi possano essere i benefici ottenibili e, soprattutto, indipendentemente dalla condivisione formale o meno dell’atto immorale originario da parte dei successivi fruitori , anche le tecniche più vantaggiose non potrebbero in alcun modo essere utilizzate.

In realtà soluzioni possibili ne esistono, tutte impregnate di una insopportabile ipocrisia ma certamente necessarie per evitare la lapidazione dei moralisti cattolici da parte dei fedeli delusi.

Si possono dunque escogitare vie per giungere a compromessi anche in settori della morale che di compromessi non dovrebbero tollerarne. Ad esempio esistono coppie nelle quali entrambi i partner sono portatori di una malattia genetica dominante e che quindi non hanno alcuna probabilità di diventare genitori di un figlio sano; possono rivolgersi alla donazione di un gamete o possono accettare che la scienza sperimenti su di loro la terapia genica, nella peggiore delle ipotesi finirà con un altro aborto e con un’altra delusione.

Ma torniamo alla legislazione italiana, che affronta questa tematica all’interno della legge 40/2004 sulla Procreazione medicalmente assistita: è vero che il comma 1 dell’art. 13 vieta la sperimentazione sugli embrioni umani, ma il comma 2 consente “la ricerca clinica e sperimentale su ciascun embrione umano” a condizione che “si perseguano finalità esclusivamente terapeutiche e diagnostiche ad essa collegate volte alla tutela della salute e dello sviluppo dell’embrione stesso e qualora non siano disponibili metodologie alternative”. Ammettiamo che si tratta di una formulazione un po’ confusa, ma ci sembra di poter concludere che il giorno in cui uno dei paesi che consentono la sperimentazione sugli embrioni varerà un procedimento sicuro e privo di effetti collaterali, l’Italia ne autorizzerà l’uso.

In ambito europeo, tuttavia, nel 1997 la Convenzione sui diritti umani e la biomedicina (Convenzione di Oviedo) è intervenuta sulla materia sorprendendo tutti con una secca proibizione, contenuta nell’articolo 13: «Un intervento mirato a modificare il genoma umano può essere intrapreso solo per scopi preventivi, diagnostici o terapeutici e solo se la sua finalità non è quella di introdurre modificazioni nel genoma dei discendenti.» Di conseguenza il Consiglio d’Europa ha adottato una posizione di assoluta chiusura ( del tutto nuova rispetto a quelle sostenute nel passato) e ha precluso ai paesi europei che ratificano la Convenzione lo sviluppo di questa linea di ricerca. Le norme, ovviamente, possono (in questa materia bisogna dire debbono, se si vuol tener conto delle molte sollecitazioni ad una revisione sistematica delle norme che riguardano la bioetica che necessitano di un consenso sociale informato) essere cambiate, se ci sono buone ragioni per farlo: ma perché ci siano queste buone ragioni occorre permettere la ricerca di base, oppure – piuttosto ipocritamente- aspettare che altri le procurino.

Se si considerano, alla luce di quanto abbiamo scritto sinora, le lettere inviate a Nature e a Science si scopre che le posizioni da esse sostenute sono molto simili a quelle che si ritrovano rispettivamente negli articoli che ho citato che riguardano la Convenzione di Oviedo e la richiesta di moratoria di Inuyama.

La lettera su Science presenta le applicazioni della nuova tecnica e ricorda che la «prova di principio» della fattibilità a livello embrionale è stata data da esperimenti sui topi e, soprattutto, su primati non umani : esiste dunque la possibilità che la nuova tecnica possa essere messa a punto in avvenire ( i guai degli esperimenti cinesi dimostrano che siamo ancora lontani da questa possibilità) appena trovata una soluzione per i problemi di sicurezza che hanno indotto la comunità scientifica a chiedere una moratoria . In conclusione è necessario mantenere la moratoria sull’applicazione clinica delle nuove tecniche per quanto riguarda l’embrione umano, ma occorre «incoraggiare e sostenere una ricerca trasparente per valutare l’efficacia e la specificità della tecnologia CRISPR-Cas9 in modelli umani e non umani rilevanti per le potenziali applicazioni nella terapia genica nella linea germinale..» La lettera comparsa su Nature è scritta con toni molti differenti ed è ispirata da una forte preoccupazione per le ripercussioni negative che quella che viene definita una vera «protesta pubblica» nei riguardi della possibilità che la TGLG interferisca negativamente sull’applicazione di queste nuove tecnologie sulla linea somatica, quelle in cui gli autori della lettera sono impegnati e che riguardano un protocollo per curare l’HIV e uno per la talassemia. E’ difficile capire cosa effettivamente provochi negli autori della lettera questa sensazione di essere oggetto di ostilità, il panorama normativo in proposito è quanto mai variegato a livello mondiale , ovviamente c’è molta discussione, con un misto di reazioni di eccitazione e di inquietudine nell’opinione pubblica; questo non giustifica la decisione di presentare il panorama attuale come una protesta talmente generalizzata da mettere a rischio anche la prosecuzione dell’applicazione della tecnica a livello somatico. Questo (infondato) timore spinge gli autori della prima lettera a proporre la moratoria come strumento per scoraggiare ogni ricerca (non, dunque, solo l’applicazione clinica) che implichi la modificazione della linea genetica ereditaria, e a chiedere di giungere a un bando definitivo ( del resto già in atto in una quarantina di paesi, tra i quali appunto quelli che hanno ratificato la Convenzione di Oviedo). Le motivazioni addotte a sostegno di questa presa di posizione sono piuttosto generiche: si accenna alle «implicazioni etiche e di sicurezza di questa ricerca», al fatto che «questa ricerca potrebbe essere sfruttata per modificazioni non terapeutiche» (cosa che in realtà può esser detta anche per la terapia genica somatica) e si insiste sul fatto che le indicazioni cliniche per l’uso di queste tecniche sull’embrione umano sono molto rare e in gran parte risolvibili con metodi già in uso Gli unici due argomenti che, a tutta prima, sembrano specificamente a carico della TGLG sono quello della mancanza di consenso e, soprattutto, quello degli effetti imprevedibili sulle generazioni future che, a detta degli autori, gravano sulla TGLG e non sulla TGS. Per questa ragione, conclude la lettera, «la chiave di tutta la discussione e la ricerca futura è di rendere chiara la distinzione tra il genome editing nelle cellule somatiche e nelle cellule germinali. Una moratoria volontaria da parte della comunità scientifica potrebbe essere un modo efficace per scoraggiare la modificazione della linea germinale umana e per elevare la pubblica consapevolezza della differenza tra queste due tecniche. Le legittime preoccupazioni riguardanti la sicurezza e l’impatto etico dell’editing sulla linea germinale non devono impedire i significativi progressi che si stanno facendo nello sviluppo clinico di approcci che potenzialmente possono curare serie malattie debilitanti

Come si vede bene, la moratoria e la discussione pubblica non devono servire a stabilire se e a quali condizioni la terapia genica germinale possa essere consentita, devono soltanto scoraggiare ( e quindi vietare) questa applicazione quando le conoscenze non sono adeguate e fino al momento in cui le Istituzioni scientifiche (non i bioeticisti) le considereranno acquisite nella misura necessaria a garantire l’assenza di effetti collaterali sfavorevoli, nella misura in cui la scienza può arrivare a queste conclusioni. e favorire quella sulla linea somatica. Il punto nodale dell’argomentazione è la differenza tra le due tecniche in ordine agli effetti sulle generazioni future, cosa oltretutto che non corrisponde a verità. Gli autori danno per scontata l’esistenza di questa differenza, che si tratta solo di chiarire a beneficio dell’opinione pubblica e delle Istituzioni. Questa tesi è molto diffusa negli interventi che hanno fatto seguito alle due lettere ed è molto probabile che avrà un ruolo centrale nella futura discussione

La possibilità di correggere del genoma con una tecnica innovativa, semplice, in via di rapido perfezionamento e non troppo costosa non poteva coomunque non stimolare i biologi a presentare protocolli di ricerca nei quali si proponeva di intervenire sul genoma delle cellule germinali e degli embrioni nella fase iniziale di sviluppo per correggere errori responsabili di malattie genetiche ereditarie. Come abbiamo detto la tecnica continua a migliorare e molti dei problemi tecnici che proponeva sono stati risolti (o stanno per esserlo), il che fa considerare vicina la fine di questa prima fase sperimentale. Come in tutte le ricerche analoghe la sperimentazione dovrà poi dedicarsi allo studio degli effetti del gene editing sugli animali per passare a una fase ulteriore per la quale sono necessari embrioni umani. Questo, come vedremo, è il problema più complesso perché la sperimentazione su questi embrioni è vietata in molti Paesi; nei luoghi nei quali è ammessa esistono comunque regole molto rigide la principale delle quali riguarda il fatto che in nessun caso gli embrioni che sono stati oggetto di sperimentazione possono essere trasferiti in utero: anzi, dopo un periodo di tempo che non può in alcun caso superare i 14 giorni ( regola per la quale si stanno chiedendo eccezioni da parte di vari laboratori) questi embrioni debbono essere distrutti. A rendere più urgente la necessità di stabilire chiare regole in questo settore della ricerca è intervenuta la recente pubblicazione di uno studio di alcuni ricercatori cinesi della Università Sun Yat – Sen di Guanzhoh (del quale molti europei erano a conoscenza) avvenuta su una rivista assai poco conosciuta ( Protein Cell, aprile 2015: CRISPR/CAs9- mediated gene editing in human tripronuclear zygotes) che riporta i primi risultati di usa sperimentazione di gene editing eseguita su embrioni umani portatori di una anomalia genetica, la beta talassiemia. L’articolo era stato rifiutato dalla due maggiori riviste scientifiche , Nature e Science , per “motivi etici” motivi che è assai difficile condividere trattandosi di esperimenti eseguiti su embrioni non trasferibili e destinati comunque ad essere distrutti. In realtà si è trattato di motivi religiosi ed è peculiare che una rivista scientifica non sappia distinguere tra le due cose.

In realtà la ricerca non aveva dato buoni risultati: su 86 embrioni sottoposti a gene editing, solo 71 si erano sviluppati fino a otto cellule e dei 54 che erano stati presi in esame solo 28 non mostravano più il gene anomalo. Ma il vero fallimento riguardava il fatto che solo pochissimi di questi embrioni possedevano un DNA normale, e che in molti casi erano comparse mutazioni impreviste.

Dopo la pubblicazione di questi dati sono intervenute in pratica tutte le istituzioni che a vario titolo si occupano dei rapporti tra la scienza e la morale. A Washington è stato convocato un International Summit on human gene editing (dicembre 2015) dalla Chinese Academy of Science, dalla Royal Society e dalla US National Academy of Medicine: il Summit ha rilasciato una dichiarazione finale nella quale si approva l’uso clinico del gene editing nelle cellule somatiche e si chiede alla comunità scientifica internazionale di definire i criteri per un uso accettabile della tecnica sulle cellule della linea germinale e degli embrioni. Molto più critico e molto meno possibilista è stato invece il documento dell’Unesco (ottobre 2015) che fa riferimento alla Convenzione di Oviedo, sottolinea il dissenso esistente sullo statuto ontologico dell’embrione e termina affermando in termini un po’ troppo catastrofisti che queste tecniche possono mettere a rischio la nostra comune dignità e la giustizia (?).

Il primo febbraio del 2016 l’HFEA (UK Human Fertilisation and Embriology Authority) ha autorizzato alcuni scienziati che ne avevano fatto richiesta presentando un protocollo di ricerca di utilizzare le nuove tecniche di gene editing su embrioni umani . La richiesta portava la firma di una biologa del Francis Crick Institute di Londra, Kathy Niakan, il cui gruppo è interessato a utilizzare la Crispr/Cas9 nei primi giorni di sviluppo embrionale. L’autorizzazione della HFEA obbliga però gli sperimentatori a interrompere la ricerca quando l’embrione ha raggiunto il settimo giorno di sviluppo e consta di circa 250 cellule e di distruggere subito dopo le blastocisti. Ufficialmente lo scopo della ricerca è quello di acquisire maggiori informazioni sulle fasi iniziali dello sviluppo embrionale, ma è evidente che l’interesse reale riguarda la possibilità di eseguire terapie geniche e di verificarne difficoltà, effetti collaterali e rischi. La ricerca deve comunque essere definitivamente approvata dalla commissione etica locale e deve considerare comunque la proibizione vigente in Inghilterra a qualsiasi modifica del genoma di un embrione destinato ad essere impiantato: Molti ricreatori inglesi riteniamono che questa norma potrebbe essere rivista e modificata se le sperimentazioni in atto dovessero dare risultati incoraggianti.

Ancora una volta è letteralmente esplosa la polemica, con toni addirittura più isterici di quanto non fosse occorso nelle occasioni precedenti e soprattutto con un eccesso di dichiarazioni improntate ad un pessimismo effettivamente ingiustificato considerate le limitazione imposte dall’HFEA ai ricercatori Si tenga anche presente che i rischi di mutazioni accidentali (off target) evidenziati dalla ricerca cinese, diventano ogni giorno meno probabile vista la velocità con la quale queste tecniche vengono corrette e migliorate e considerato il fatto che i continui riferimenti all’esistenza di un pendio scivoloso è un retorici escamotage di chi non ha argomenti validi per assegnare credibilità razionale ai propri dubbi e si limita a nutrirli delle proprie emozioni viscerali.

Non tutti i documenti pubblicati usano questi toni che variano dal pessimismo all’annuncio dell’ apocalisse. Ne fa testo il documento Statement on gene editing approvato dall’European Group on Ethics In Science and New Technologies e toni analoghi li troviamo nelle linee guida proposte nel Maggio del 2016 dall’International Society for stem cell research . Queste nuove regole stabiliscono che queste tecniche debbano essere proibite a fini riproduttivi “almeno per il momento” e che gli interventi ereditabili richiedono forti interventi di sicurezza, niente di diverso dalle altre comuni prese di posizione, tutte caratterizzate dal riferimento allo stato attuale delle conoscenze.

Attualmente la polemica ha assunto toni addirittura più isterici di quanto non fosse occorso nelle occasioni precedenti e soprattutto con un eccesso di dichiarazioni improntate ad un pessimismo effettivamente ingiustificato, considerate le limitazione imposte dall’HFEA ai ricercatori . Si tenga anche presente che i rischi di mutazioni accidentali (off target) evidenziati dalla ricerca cinese, diventano ogni giorno meno probabili vista la velocità con la quale queste tecniche vengono corrette e migliorate e si consideri il fatto che i continui riferimenti all’esistenza di un pendio scivoloso è un retorico escamotage di chi non ha argomenti validi per assegnare credibilità razionale ai propri dubbi e si limita a nutrirli delle proprie emozioni viscerali. In realtà si ripropone la vecchia, ma mai superata diatriba sullo statuto ontologico dell’embrione, palleggiata per anni tra filosofi e biologi : complessivamente, e con un buon contributo numerico delle religioni, la bioetica ha formulato almeno una decina di ipotesi che definiscono come inizio della vita personale un periodo che va dalla attivazione dell’oocita (i cattolici) alla acquisizione di un aspetto umano (gli ilomorfisti, ancora una volta cattolici) e che non vuole accettare il fatto che tutte queste definizioni sono al contempo credibili e fallaci e vanno di conseguenza ignorate.

In realtà sappiamo tutti che la morale di senso comune, quella sulla cui base si costruiscono le regole etiche, si modifica a seguito dell’intuizione dei vantaggi che possono derivare dalle conoscenze possibili. Non può essere un caso che proprio in questi giorni si siano riuniti a Londra i ricercatori che si occupano della costruzione di un utero artificiale e a San Francisco i genetisti che ritengono giunto il momento di scrivere il nostro genoma. Si tratta evidentemente di un conflitto di paradigmi ed è consuetudine che in questi casi siano, prima o poi, le nuove proposte a prevalere. In ogni caso, per concludere, leggiamo in alcune delle revisioni della letteratura sul gene editing la sollecitazione ad affidare la responsabilità di una decisione ai genitori dei bambini che hanno ereditato gravi malattie genetiche, incompatibili con una accettabile qualità di vita, e la condividiamo.

INDICE

I MOLTI SIGNIFICATI DELLA GENITORIALITA’

1- I bizzarri percorsi biologici dei miti

2- La biologia dei filosofi

3- L’antica Grecia

A -Il significato di Eros

B – Scarso prestigio, pochi diritti

C – Il matrimonio

D – Il gineconomo

4 – L’antica Roma

A – Tutunus MutunuS

B – Venere, dea multiforme e lasciva

C – Domo mansi, lanam feci

D – Diritti e doveri

E – La salute delle donne

F – Lucina

G – Casta, pia, pudica, lanifica, domiseda

H – L’età imperiale

I – La Lex Opia e le Leggi Suntuarie

L – I concilia plebis

M – Alla conquista delle professioni

N – L’emancipazione della donna romana

O – Il problema della mortalità perinatale

P – La Lex Iulia “de adulteriis coercendis”

5 – IL MEDIOEVO

A – Ianua diaboli

B – La tentazione della carne

C – La donna non è l”immagine di Dio

D – Il principio della inferiorità femminile negli antichi documenti

E – Le posizioni antifemminili dei teologi del duecento

F – Ma le donne, hanno un’anima?

G – La donna è un mas occasionatus

H – Troppi liquidi

I – Non c’è piacere nel peccato

L – Il difetto della ragione

M – Le promesse della vita virginale

N – Il corpus iuris canonici

6 – L’ISLAM

A – Una analisi complessa e un confronto impossibile

a – Gerarchia e divisione dei compiti

b – Dignità. onore e sicurezza

c – Il Corano

d – Stessi meriti e stessi premi?

B – Le Houri

a – Donne di natura angelica che fanno compagnia ai beati

b – Belle, modeste, pure, caste, voluttuose, splendide

c – Quante mogli? 2 o 72?

d – E le altre donne?

e – Il Paradiso musulmano e gli Hymns on Paradise di Ephram il siriano

C – Occasioni, diritti, doveri

D – La famiglia estesa e la famiglia patriarcale

E – Il matrimonio

F – L’adulterio

G – Il divorzio

H – L’Harem

I – Il possibile cambiamento in atto

7 – LA CINA

A – La storia troppo lunga di un Paese troppo grande

a – Dalla dinastia Xià alla Repubblica Popolare

b – Il politeismo e il culto scamanico

c – La nascita delle nuove religioni

d – L’influenza delle religioni sulla condizione femminile

e – Il regime feudale e la sottomissione

B – Le due forze del principio supremo

C – La fasciatura dei piedi

D – Il principio dell’appartenenza

E – Il matrimonio tradizionale

F – Ripudiare e punire

G – La vita sessuale e riproduttiva

H – L’erotismo

8 – IL SETTECENTO

9 – OGGI

10 – LA MORALE DI SENSO COMUNE

11 – IL CONFLITTO DI PARADIGMI

12 – LE NUOVE OFFERTE: DONAZIONI, COMPRAVENDITE, AFFITTI ET SIMILIA

A – La prostituzione non sessuale

B – Gameti e embrioni

a – Dono di oociti

b – Dono di embrioni

c – Donazioni a donne fertili

d – Indagini preliminari

e – Il dono e l’acquisto

f – Il segreto

g – Le coppie omosessuali e i loro figli

h – Casi particolari: i figli di donne anziane e di donne sole

i – Critiche e consensi

l – Capacità cognitive e salute psicologica dei bambini

C – La gravidanza per altri

D – Il trapianto di utero

E – L’ectogenesi

F – Gene Editing

a – Gene Editing delle cellule somatiche

b – Gene Editing delle cellule germinali e degli embrioni