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Il maschilismo delle donne e il nuovo clerico-fascismo2020-03-31T18:12:56+02:00

Il maschilismo delle donne e il nuovo clerico-fascismo

Febbraio 2017

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Il 31 agosto 2016 ci arriva sul tavolo un documento del Ministero della Salute intitolato “Piano nazionale per la fertilità” a firma del Ministro Lorenzin e di un folto gruppo di studiosi di varie discipline, un documento che inneggia alla fertilità, annuncia un “Fertility day” (speriamo vietato ai minori) e indica quello che da oggi in avanti dovrà essere l’obiettivo della donna che ha a cuore la propria dignità e il proprio prestigio: “Difendere la sua fertilità, preparare una culla nel suo futuro”. Detta così sembrerebbe la pubblicità di una cooperativa di falegnami, ma il documento non ha pietà per nessuno e continua in questo modo: “Per favorire la natalità, se da un lato è imprescindibile lo sviluppo di politiche intersettoriali e inter-istituzionali a sostegno della Genitorialità, dall’altro sono indispensabili politiche sanitarie ed educative per la tutela della fertilità che siano in grado di migliorare le conoscenze dei cittadini al fine di promuoverne la consapevolezza e favorire il cambiamento. Lo scopo del presente Piano è collocare la Fertilità al centro delle politiche sanitarie ed educative del nostro Paese. A tal fine il Piano si prefigge di: 1) Informare i cittadini sul ruolo della Fertilità nella loro vita, sulla sua durata e su come proteggerla evitando comportamenti che possono metterla a rischio 2) Fornire assistenza sanitaria qualificata per difendere la Fertilità, promuovere interventi di prevenzione e diagnosi precoce al fine di curare le malattie dell’apparato riproduttivo e intervenire, ove possibile, per ripristinare la fertilità naturale 3) Sviluppare nelle persone la conoscenza delle caratteristiche funzionali della loro fertilità per poterla usare scegliendo di avere un figlio consapevolmente ed autonomamente. 4) Operare un capovolgimento della mentalità corrente volto a rileggere la Fertilità come bisogno essenziale non solo della coppia ma dell’intera società, promuovendo un rinnovamento culturale in tema di procreazione. 5) Celebrare questa rivoluzione culturale istituendo il “Fertility Day”, Giornata Nazionale di informazione e formazione sulla Fertilità, dove la parola d’ordine sarà scoprire il “Prestigio della Maternità”. Il lavoro del “Tavolo consultivo in materia di tutela e conoscenza della fertilità e prevenzione delle cause di infertilità” ha documentato il profilo multidisciplinare del tema delineando alcuni punti sostanziali per l’elaborazione di un Piano Nazionale per la Fertilità. L’attuale denatalità mette a rischio il welfare. In Italia la bassa soglia di sostituzione nella popolazione non consente di fornire un ricambio generazionale. Il valore di 1,39 figli per donna, nel 2013, colloca il nostro Paese tra gli Stati europei con i più bassi livelli. Questo determina un progressivo invecchiamento della popolazione. In un passato relativamente recente la fecondità tardiva riguardava la nascita del terzo o quarto figlio. Negli ultimi anni la maternità ad età elevate accade sempre più frequentemente per la nascita del primogenito. Il peso della cura dei bambini è molto rilevante per le donne più istruite e con lavori di responsabilità che si confrontano con alti costi opportunità e si trovano a dover ridurre la loro attività lavorativa. Il ritardo alla nascita del primo figlio implica un minor spazio di tempo, ancora disponibile, per raggiungere il numero desiderato di figli. La combinazione tra la persistente denatalità ed il progressivo aumento della longevità conducono a stimare che, nel 2050, la popolazione inattiva sarà in misura pari all’84% di quella attiva. Questo fenomeno inciderà sulla disponibilità di risorse in grado di sostenere l’attuale sistema di welfare, per effetto della crescita della popolazione anziana inattiva e della diminuzione della popolazione in età attiva. Va evidenziato che la contrazione della fecondità riguarda tutti gli Stati UE. Anche i Paesi anglosassoni, la Francia e i Paesi del nord Europa, che hanno attuato importanti politiche a sostegno della natalità, restano comunque al di sotto della soglia di sostituzione (2.1,comunemente definito “numero medio di figli per donna”, che consente a una nazione di fornire un ricambio generazionale) con differenze di pochi decimi di punto rispetto alla media UE, pure se registrano più alti tassi di natalità rispetto all’Italia o alla Germania. Il nostro Paese si pone quindi all’interno di una tendenza comune nel continente, dovuta non solo a fattori sanitari ed economici ma anche e soprattutto culturali e sociali, la cui analisi dettagliata esula dal presente Piano della Fertilità; fattori che comunque meriterebbero di essere approfonditi con attenzione.” Come abbiamo cercato di spiegare in questo libro siamo contrari (diciamolo pure, molto contrari) a questi tentativi di ritrasformare le donne in uteri che camminano, ricacciandole nell’angusto spazio che si ricava per loro, in tutte le case, tra la cucina e la nursery, quello spazio dal quale sono sgattaiolate fuori con tanta fatica e siamo ancor più contrari a questa storia del dare prestigio alla maternità (chissà come riderebbe Rita Levi Montalcini) vestendo del saio delle penitenti le donne che di figli non ne vogliono avere ( e il diritto alla autonomia?) o non ne possono avere, così siamo andati a verificare nel lungo testo accluso le critiche al nostro ( e non solo nostro, per carità) paradigma: non una parola. E siamo altrettanto contrari (molto contrari) alla bufala del paese che piange perché le culle sono vuote, abbiamo già sommessamente suggerito ai nostri amministratori di annegare un minor numero di nuovi potenziali cittadini nel mare nostrum, non riteniamo che sia poi tanto difficile. Ci è sembrato un po’ strano che illustri studiosi proponessero una teoria abbastanza peculiare senza tener conto delle posizioni contrarie, così che riteniamo di poter affermare che quello accluso non è un documento scientifico, è propaganda fidei. A questo punto avremmo potuto anche evitare di commentare questo finto documento, ma ci ricordava cose del passato che ci fanno ancora paura, un commento lo abbiamo ritenuto necessario: perché il Fertility day nasce nello stesso brodo culturale nel quale si è formato tutto il pensiero clerico fascista sulla donna. Dunque, lasciateci fare qualche commento a questo peculiare linguaggio che è stato scelto per scrivere il “documento” e poi parleremo brevemente della massaia rurale, la donna ideale secondo il fascismo. 5.1 Le parole La prima cosa che salta agli occhi leggendo questo testo è l’assoluta mancanza di alcune parole che tutti siamo abituati ad usare , parole che fanno parte del lessico della laicità come autodeterminazione della donna, libertà riproduttiva, diritti. Questa non può certamente essere una svista, si tratta di una scelta fatta per presentare il documento per quello che è, l’espressione di una forma ben nota di paternalismo di stato, qualcosa della quale, in un’epoca contrassegnata profondamente e irrevocabilmente dall’ autonomia dei cittadini, non sentiamo certamente la mancanza, ma della quale gli autori del documento sembrano compiacersi. E’, è vero, un paternalismo un po’ diverso da quello al quale erano assuefatte le nostre ave, se non altro perché prevede anche la partecipazione di donne, magari quelle più “maschili”, arroganti e molto interessate al potere, ma resta comunque un atteggiamento inutile e controproducente: oggi lo sviluppo delle democrazie passa attraverso i diritti dei cittadini e il loro coinvolgimento diretto nelle scelte che li riguardano, e certamente non attraverso politiche istituzionali paternalistiche. Tra le parole usate ci sono invece termini problematici, quali “Rivoluzione Culturale”, che già ai tempi di Mao Zedong venivamo educati a usare con cautela e che oggi bisognerebbe usare con prudenza; “enfasi” (per arginare il pericolo della denatalità), un termine negativo applicato alla rovescia che si condanna da solo; “innovazione” , lemma da matita rossa se usato per parlare di azioni note, come la formazione dei cittadini; si parla poi dei consultori come se ne parlava nel lessico dei quartieri, “fonti di promozione di cultura” si diceva nel gergo del territorio prima che il Ministero della Salute ( proprio lui, ministro Lorenzin) ne facesse scempio. E poi l ‘idea più indifendibile, l’idea di costituire servizi di Medicina e Chirurgia della Fertilità, in assoluta controtendenza con quanto, sul piano della organizzazione di servizi sanitari, accade nel mondo, ( sarà bene che gli amministratori della salute preparino un piano previsionale di fattibilità, che osservi con attenzione i costi di questa idea così originale), e alla faccia di tutto quello che la medicina sta finalmente cercando di costruire, meglio tardi che mai, una visione olistica della salute, che consideri la donna come persona e non come una portatrice di organi specifici dedicati alla riproduzione (e il sesso?) e che si occupi della sua salute, cioè anche della sua dignità, delle sue speranze e dei suoi sentimenti (uno dei quali, ripetiamo, solo uno dei quali è il desiderio di maternità). Il documento affronta, poi, il problema della divulgazione scientifica, della informazione, dei media, argomento importante, e come se fosse colpito da una improvvisa crisi di follia chiama in campo, ex abrupto, in modo a nostro parere superficiale, la promozione della fiducia, come se la fiducia fosse una merce, un prodotto culturale qualsiasi e non una componente essenziale delle relazioni sociali che è terribilmente difficile promuovere e che deve essere guadagnata dagli operatori mettendo in campo azioni rivolte ai cittadini ai quali, in cambio, richiedono fiducia. La fiducia è un tema delicato e complesso, centrale in tutte le relazioni sociali, punto nevralgico della crisi sociale, di sistema, che, in aggiunta ai problemi della globalizzazione, il nostro paese sta vivendo. Occuparsi di individuare “azioni positive” utili per il recupero di un bene collettivo cruciale, come la fiducia sociale, la colla che ci tiene insieme tutti, è un tema molto serio, temiamo che le Giornate della Fertilità non siano lo strumento più adatto, a meno di non voler considerare i cittadini italiani come “ minori a vita” e le donne come serbatoio di stabilità sociale. La fiducia sociale non è più, purtroppo, preventiva, anzi è vero il contrario, regna la diffidenza preventiva. Per guadagnare la fiducia dei cittadini e delle donne in particolare , l’intervento davvero risolutivo riguarda il mercato del lavoro, riguarda le politiche di sostegno economico alla formazione delle nuove famiglie, la conciliazione tra lavoro domestico e lavoro professionale esterno: è questo che frena davvero sia l’indipendenza dei giovani dalle famiglie, (dalla quale ha origine una accelerazione della formazione dei nuovi nuclei sociali), che l’ anticipazione delle scelte di genitorialità. Richiamare la “bellezza” della genitorialità e il suo prestigio sociale, non sembra proprio una strada adatta, rivisita vecchi percorsi che la storia ha già bollato duramente, si pensi ad iniziative analoghe in epoca fascista. Le strade per incidere sulla cultura esistente, qualunque essa sia, sono molto più complicate, e anche volendo riconoscere a questa iniziativa delle “buone intenzioni”, sembra proprio che essa manchi della profondità analitica necessaria. Ci si potrebbe fermare qui, ma va ricordato che i tentativi istituzionali di regolazione dei comportamenti dei cittadini possono essere anche pericolosi, inutili o persino controproducenti, con singolari effetti contro-intuitivi . Si pensi alle conseguenze della circolare Degan, che volendo regolare le donazioni di gameti nel sistema pubblico diede il via al sistema privato, o alla legge 40, che volendo essere uno strumento di conservazione e di coercizione della libertà dei cittadini, ha chiarito bene che questa strada, in un sistema democratico costituzionale, è impossibile da percorrere. Infine, ammettiamo di essere un po’ perplessi a proposito di come il documento viene presentato perché non esiste il minimo accenno all’esistenza di posizioni contrarie, un riferimento indispensabile se si pensa all’enorme numero di dissensi che questo progetto inevitabilmente farà scendere in campo. Mentre scriviamo sui social media sale già la marea di critiche, la campagna stampa è stata ritirata e chissà cosa altro succederà. In definitiva la scelta di un fertility day per risvegliare l’istinto naturale della maternità nelle donne italiane si inquadra perfettamente nel conflitto di paradigmi del quale abbiamo più volte accennato e che riguarda la proposto di un nuovo concetto di genitorialità che sostituirà inevitabilmente quello tradizionale , che viene sollecitato dalle nuove conoscenze e dagli straordinari progressi della scienza in campo riproduttivo e che costruisce la sua autorità soprattutto sulfatto che è ormai comune acquisizione il fatto che non esisto un istinto di genitorialità ma esistono solo sentimenti, variegati, spesso pieni di incertezze, mutevoli e, come spesso accade ai sentimenti, contraddittori. Abbiamo già spiegato come i conflitti di paradigmi vedano d’abitudine tra differenti protagonisti: coloro che difendono il paradigma antico, coloro che combattono per far vincere il nuovo e i cosiddetti mediatori, che in realtà sono affezionati all’antico , a riconoscono almeno alcune delle verità contenute nel nuovo e cercano di diminuire i danni e di attenuare il dolore della sconfitta, cercando di limitare i riconoscimenti al minimo indispensabile con nuove ipotesi che generalmente li riempiono di ridicolo. Nella antica disputa tra coloro che sostenevano il sistema eliocentrico copernicano, il nuovo paradigma, e quanti ritenevano che questa rivoluzione non solo contraddicesse il modello geocentrico, nato dalla sintesi del sistema cosmologico di Aristotele con quello astronomico di Tolomeo, ma addirittura cercasse di toglire credibilità al Libro del Libri l’antico testamento, si propose d come mediatore Tycho Brahe , sostenitore convinto del geocentrismo, ma disposo a riconoscere che qualcosa di vero c’era anche nella teoria di Copernico: il suo sistema, il cosiddetto sistema ticonico, prevedeva un modello del tutto inedito ( e anche molto ridicolo, la stessa sorella di Brahe ne sembrava divertita) in cui i pianeti giravano intorno al sole, ma poi se lo portavano con sé in corte e tutti insieme giravamo intorno alla terra. Ebbene possiamo immaginare che gli estensori del documento sono i moderni Tycho Brahe, continuano a ritenere che il sole gira intorno alla terra ( la genitorialità è un istinto, il ruolo della donna è quello assegnatole dalla natura, fare figli e occuparsi delle faccende domestiche, fare figli è l’unico mezzo col quale una donna può assicurarsi dignità e prestigio), ma fingono di apprezzare anche qualche ipotesi del nuovo paradigma, rinunciano al concetto di “dignità della procreazione”, accettano l’importanza della prevenzione e, di conseguenza della informazione ( per cui, obtorto collo,ammettono senza dirlo l’educazione sessuale) convinti che per sconfiggere l’alito del demonio bisogna rassegnarsi a mangiare qualche caramella di menta. 5.2 Guarda un po’ chi si rivede! Era nato, nella prima metà dell’Ottocento, un nuovo movimento filosofico, definito da Henry de Saint Simon “il Positivismo”, che ebbe poi modo di diffondersi nella seconda metà dello stesso secolo in tutta l’Europa e che influenzò la nascita del “verismo” in Italia e del “naturalismo” in Francia. Simile per alcuni aspetti all’illuminismo, del quale condivideva la fiducia nella scienza e nel progresso, e per altri aspetti al romanticismo e alla concezione romantica della storia, il positivismo si presentò inizialmente come un progetto di rinnovamento e di superamento della crisi politica e culturale che era seguita alla Rivoluzione francese per poi proporsi come elaborazione ideologica della borghesia industriale e progressista caratterizzandosi soprattutto per il tentativo di applicare il metodo scientifico a tutte le sfere della conoscenza e della vita dell’uomo. Il pensiero positivista si confrontò inizialmente con una visione romantica della donna, considerata un essere sentimentale e irrazionale, emotiva, fragile e psicologicamente instabile e, lungi dal criticarla, la confermò, basandosi sui fondamenti scientifici che venivano utilizzati per dimostrare che la donna era un essere umano “inferiore”, un convincimento che comunque era straordinariamente diffuso. Non va dimenticato che in quegli stessi anni si elaboravano teorie – apparentemente convalidate da esperimenti pseudo-scientifici – che giustificavano il razzismo. Le discipline scientifiche maggiormente accreditate – come la medicina, la biologia e la neonata psicologia – diffusero l’immagine di un essere irrazionale e isterico, “uomo mancato” (ricordate Tommaso?) che aveva assoluto bisogno di dipendere dall’uomo in quanto, se lasciato a se stesso e lasciato libero di agire e di scegliere poteva risultare socialmente pericoloso. E’ molto probabile – e lo diceva già Engels nella sua “Origine della famiglia” – che questa particolare attenzione al ruolo della donna nella società fosse da ricercare nel fatto che il processo di industrializzazione , la cosiddetta fase di transizione sociale, aveva chiamato la donna a gestire un ruolo maggiormente attivo nella realtà sociale ed economica , consentendole di entrare (con qualche esitazione e molti maltrattamenti) nel mondo del lavoro salariato. Ciò rappresentava, per gli uomini, un nuovo pericolo al quale non erano preparati: quello di un nuovo equilibrio sociale, certamente meno vantaggioso per loro e contemporaneamente accelerava nelle donne la consapevolezza della propria condizione e la formazione di una coscienza politica. Diventò dunque indispensabile elaborare nuove teorie scientifiche che confermassero l’inferiorità del genere femminile nei confronti di quello maschile, un problema che fu inizialmente (e solo in parte) risolto da scienziati come Paul Julius Möbius e da intellettuali come Otto Weininger. Le teorie di Möbius, basate soprattutto sul confronto tra il volume del cranio degli uomini e quello delle donne, non avrebbero in effetti dovuto godere di alcun credito, ma non fu così. In Italia, solo per fare un esempio, Cesare Lombroso e Guglielmo Ferrero dimostrarono “scientificamente” che le donne avevano una minor sensibilità nei confronti del dolore e che ciò era dovuto a una “minore reazione psichica agli stimoli interni”; elaborarono così una teoria secondo la quale esistevano in pratica soltanto tre tipi di donna – la delinquente, la prostituta e la femmina normale – tutti comunque inferiori all’uomo soprattutto per quanto riguardava le capacità cognitive nel loro complesso. Anche in questo caso le teorie dei due studiosi erano giustificate in modo assolutamente puerile: il cervello femminile pesava indubbiamente meno di quello maschile e da ciò nascevano le molte debolezze mentali e psicologiche della donna, alla quale dovevano pertanto essere riservati ruoli facilmente gestibili, come quello di madre e di sposa, svolti con relativa efficacia e comunque sempre minacciati dalla forte inclinazione femminile alla menzogna e alla crudeltà. Del resto, anche le tesi di Weininger (che aveva scritto in tutte lettere che le donne si distinguevano soprattutto per le loro mancanze e i loro difetti, poca memoria, nessun senso dell’etica, carenza assoluta di logica, e venivano apprezzate solo per le potenzialità riproduttive, nelle quali non era comunque possibile riconoscere alcun valore morale) furono più tardi riprese da Julius Evola, una peculiare figura di filosofo fascista che ne trattò addirittura nel 1958 ( Metafisica del sesso, Atanòr, Todi-Roma). Fu in definitiva ancora una volta la diversità biologica a legittimare l’idea dell’inferiorità femminile: si finì addirittura col trasformare uomini e donne in entità simboliche nelle quali si riconobbero rispettivamente i principi della ragione e della sottomissione, inutile precisare chi fosse l’essere umano ragionevole e chi il sottomesso. 5.3 Un matrimonio inevitabile: l’ideologia fascista e la cultura cattolica Se si vuol capire la relazione che si creò tra l’ideologia fascista e la cultura cattolica per quanto riguarda l’atteggiamento e le scelte che dovevano essere tenute nei confronti del ruolo delle donne nella società, è sufficiente leggere il Sillabo e dare una rapida occhiata ai documenti del Concilio Vaticano I: il terreno d’incontro è molto grande e si può facilmente comprendere come il fascismo fece di tutto per non perdere l’occasione di fondere la sua politica patriarcale e misogina con le posizioni più conservatrici della Chiesa cattolica. I risultati di questa anomala fusione (che si potrebbe definire eterologa, visto che ne stiamo parlando come di un processo chimico) si ritrovano ancor oggi nei molti documenti che i sacerdoti cattolici più reazionari continuano a mettere in rete. Ne riportiamo brevi parti di uno, molto recente, che da un sacerdote particolarmente prolifero, don Curzio Nitoglia (La dottrina sociale al Concilio Vaticano I. www.doncurzionitoglia.net, 22 luglio 2013): “ L’unico vero rimedio ai mali della questione sociale è lo spirito cristiano: “cercate innanzitutto la santità e la vita eterna ed il resto vi sarà dato in sovrappiù”. Purtroppo lo Stato moderno liberale o comunista ha laicizzato, ha eliminato l’influsso del Vangelo sulla polis e la societas ed ha abolito le Corporazioni religiose degli artigiani ed operai, ha impoverito il mondo dell’artigianato, della agricoltura a favore della grande industria, ha scoraggiato il risparmio a favore dei “bankster”, (una parola che nasce dalla crasi tra banchiere e gangster e che fu proposta per la prima volta da Léon Degrelle, uomo politico belga, fascista e giornalista, nel 1937, come termine derogatorio per indicare gli operatori dell’alta finanza) che hanno reso il popolo massa pronta per essere fagocitata dal marxismo e dal liberismo; ha favorito il lavoro delle donne, dei bambini, ha disprezzato il riposo domenicale, il giusto tempo da dare a se stessi, alla famiglia e a Dio. Quindi ha rivoluzionato la società, la famiglia e l’individuo, non più ordinati e finalizzati a Dio, ma al denaro e al benessere materiale su questa terra, la quale non è più a misura d’uomo ma l’uomo è diventato una rotella dell’ingranaggio industriale anonimo ed economico/finanziario. Naturalmente questa terra è diventata un campo di battaglia, la guerra di tutti contro tutti in cui vince il più forte (che non sempre è il migliore moralmente, ma solo il più prepotente fisicamente). Oggi (2001-2013) la rivoluzione liberale e quella socialista si sono unite e dominano il mondo dando il peggio che portano in sé: 1°) il liberalismo concede la licenza assoluta e il consumismo amorale, che portano al caos anarchico dei poteri forti e ricchi; 2°) il socialismo è sempre pronto a fomentare disordini e guerre civili, ed inoltre non concede più al cittadino quel certo ordine sociale e civile che davano i regimi forti nel passato: avendo sposato il liberismo libertario e libertino è diventato fonte di anarchia dei poveri; 3°) infine, dopo aver tolto la Fede e la Speranza soprannaturali all’uomo odierno ed averlo illuso per decenni sino al 2008/2009 su un’era di pace, ricchezza, benessere fisico, hanno lasciato sprofondare il mondo intero (2009/2013) in uno stato di povertà e crisi economica, che si ripercuote sulla sussistenza economica e sulla salute dei cittadini, i quali sono non solo in preda alle malattie (data la natura umana che per definizione è corruttibile), ma non ricevono più i sussidi per curarsi e non hanno di che vivere decentemente, per cui cadono nella disperazione e talvolta si suicidano. Lo Stato o il Governo deve garantire innanzitutto l’ordine interno della Società civile e la tranquillità dei cittadini. Il laicismo deruba la Società e i cittadini dell’uno e dell’altra, inoltre toglie loro anche Dio e l’aldilà, promettendo a parole un “paradiso” in terra (sovietica o americanista), ma trasformando in realtà la terra in un inferno (Gulag e libertarianismo/freudiano alla Milton Friedmann). Il grande pericolo che sovrasta la vecchia Europa è l’invasione od occupazione da parte di masse enormi inviate dall’Africa e dall’Asia, le quali in sé hanno ricchezze enormi ma che i “poteri forti” non lasciano sfruttare agli indigeni, che rappresentano la nuova manovalanza della Rivoluzione del “proletariato” (senza neppure la prole) o meglio “extra-comunitariato” sbandato e pronto alla guerra di classe, di razza e di religione. Gli uomini di Chiesa, che dovrebbero insegnare la Dottrina sociale, son diventati con il Vaticano II delle marionette nelle mani dei poteri forti o massonici ebraico/americani e vanno a Lampedusa o dall’on. “Luxuria” a Genova ad incoraggiare coloro che metteranno a ferro e a fuoco un’Europa diventata un’enorme Sodoma e Gomorra. Oggi vi è un razzismo all’incontrario: se prima l’occidente ha schiavizzato l’Africa (nel Brasile la schiavitù è stata abolita solo nel 1888) oggi è l’Africa a dominare l’occidente ed anche l’Europa che è diventata una costola della “Magna America”. Non esiste una “Magna Europa” (come pretende “Alleanza Cattolica”), che si estende culturalmente sino in nord-America, ma esiste un’America del nord la quale si è estesa sino alla vecchia Europa e ne ha disseccato le radici e divelto le fondamenta culturali, morali, religiose, spirituali e civili. Siamo tutti “americani” e gli Stati che si ostinano a restare se stessi (Russia, Libia, Tunisia, Egitto, Siria, Libano, Palestina) vedono improvvisamente delle rivoluzioni colorate o primaverili nascere “spontaneamente” teleguidate dalle tre forze che reggono gli Usa: il Calvinismo, la Massoneria e il Giudaismo talmudico. Di fronte a un caos talmente profondo e universale solo l’Onnipotenza divina può mettervi rimedio, noi dobbiamo fare il nostro dovere quotidiano, dedicarci alla “preghiera e penitenza” come ha raccomandato la Madonna da Lourdes a Fatima ed aspettare il castigo che ci siamo ampiamente meritato per aver apostatato da Dio ed avergli preferito l’Uomo, che è diventato “l’asso piglia tutto” dell’epoca moderna, come scriveva acutamente padre Cornelio Fabro”. 5.4 L’angelo del focolare è espulso dal lavoro Tra i molti punti d’incontro tra la politica del fascismo e il messaggio della religione ci sembra particolarmente interessante quello relativo alla volontà di espellere le donne dal lavoro salariale per obbligarle a concentrarsi sul proprio ruolo “naturale” di casalinghe. Così, Chiesa e regime si adoperarono insieme per esaltare la maternità e la cosiddetta “vera femminilità”, per richiamare le donne ai loro compiti fondamentali di educatrici e di “angeli del focolare”, in aperto contrasto con i movimenti che privilegiavano la cosiddetta “modernizzazione”, l’attivismo politico e l’odiato “femminismo”. Sia da parte politica che da parte religiosa vennero persino predisposti momenti di gestione del tempo libero che si basavano su organizzazioni e associazioni di vario genere e avevano lo scopo di esaltare la maternità, la “buona e virtuosa femminilità” e la difesa della famiglia e delle sue tradizioni. Del resto le due organizzazioni dimostravano la stessa ostilità (diversamente motivata) nei confronti dell’aborto, della contraccezione, della vita sessuale extramatrimoniale e di molte dottrine politiche e sociali ispirate alla cultura liberale e marxista. Pio IX, l’autore del Sillabo, aveva indetto nel 1870 il Concilio Vaticano I, con il quale la dottrina della Chiesa cattolica diventava un concreto progetto politico e sociale e aveva scritto due encicliche – Quanta Cura, alla quale era allegato il Sillabo, e Quod Apostolici Muneris – che condannavano tutte le ideologie politiche moderne, dal liberalismo al socialismo, criticavano la Rivoluzione francese e il Risorgimento italiano e facevano riferimento alla libertà di pensiero che aveva caratterizzato l’illuminismo come alla libertà di “perdere se stessi”. Nell’Enciclica Quod Apostolici Muneris, pubblicata nel 1878, c’è una lunga e minacciosa critica al socialismo, al marxismo e al materialismo storico che non poteva che entusiasmare, più di 40 anni dopo la sua pubblicazione, l’animo fortemente anticomunista dei fascisti: “Già dall’inizio del Nostro Pontificato, secondo quanto richiedeva la natura dell’Apostolico ministero, con Lettera enciclica a Voi indirizzata, Venerabili Fratelli, segnalammo la micidiale pestilenza che serpeggia per le intime viscere della società e la riduce all’estremo pericolo di rovina; indicammo contemporaneamente i rimedi più efficaci per richiamarla a salute e per salvarla dai gravissimi pericoli che la sovrastano. Ma nel giro di poco tempo crebbero talmente i mali che allora deplorammo, da sentirci ora costretti a rivolgervi di nuovo la parola, come se alle Nostre orecchie risuonasse la voce del Profeta: “Grida, non darti posa; alza la tua voce come una tromba” (Is 58,1). Comprendete facilmente, Venerabili Fratelli, che Noi parliamo della setta di coloro che con nomi diversi e quasi barbari si chiamano Socialisti, Comunisti e Nichilisti, e che sparsi per tutto il mondo, e tra sé legati con vincoli d’iniqua cospirazione, ormai non ricercano più l’impunità dalle tenebre di occulte conventicole, ma apertamente e con sicurezza usciti alla luce del giorno si sforzano di realizzare il disegno, già da lungo tempo concepito, di scuotere le fondamenta dello stesso consorzio civile. Costoro sono quelli che, secondo le Scritture divine, “contaminano la carne, disprezzano l’autorità, bestemmiano la maestà” (Gd 8), e nulla rispettano e lasciano integro di quanto venne dalle leggi umane e divine sapientemente stabilito per l’incolumità e il decoro della vita. Ai poteri superiori (ai quali, secondo l’ammonimento dell’Apostolo, conviene che ogni anima si tenga soggetta, e che da Dio ricevono il diritto di comandare) ricusano l’obbedienza e predicano la perfetta uguaglianza di tutti nei diritti e negli uffici. Disonorano l’unione naturale dell’uomo e della donna, rispettata come sacra perfino dai barbari, e indeboliscono e anche lasciano in balìa della libidine il vincolo coniugale per il quale principalmente si mantiene unita la società domestica. Presi infine dalla cupidigia dei beni terreni, che “è radice di tutti i mali, e per amore della quale molti hanno traviato dalla fede” (1Tm 6,19), impugnano il diritto di proprietà stabilito per legge di natura, e con enorme scelleratezza, dandosi l’aria di provvedere e di soddisfare ai bisogni e ai desideri di tutti, si adoperano per rubare e mettere in comune quanto fu acquisito o a titolo di legittima eredità, o con l’opera del senno e della mano, o con la frugalità della vita. Rendono pubbliche queste mostruose opinioni nei loro circoli; le consigliano nei libercoli; le diffondono nel popolo con un mucchio di gazzette. Pertanto si è accumulato tanto odio della plebe sediziosa contro la veneranda maestà e l’impero dei Re, al punto che scellerati traditori, sdegnosi di ogni freno, più volte a breve intervallo di tempo, con empio ardimento rivolsero le armi contro gli stessi Sovrani”. C’era dunque grande diversità tra la morale di riferimento del genere maschile e quella del genere femminile, per gli uomini era certamente essenziale l’impegno civile, per le donne era dirimente la vocazione alla maternità insieme alla capacità di reprimere i propri impulsi sessuali. Lo scriveva, all’inizio del XX secolo, uno dei più famosi pedagogisti cattolici, Friedrich Wilhelm Förster: “La donna non può dimostrare in modo più degno la sua superiorità e il suo ritegno di fronte all’egoismo della passione puramente carnale se non appunto attenendosi incrollabilmente alla forma matrimoniale consacrata. Anzi, si può affermare che nella donna appunto la maternità, che la eleva al di sopra dell’uomo, deve riposare sopra queste garanzie del vincolo tra i due sessi, vincolo che deve essere reso più solenne coll’intervento della religione e della tradizione; perché appunto dalla maternità la donna è messa in rapporto più vivo e profondo con l’avvenire e in più intimo e misterioso contatto con il creatore che non l’uomo, la cui azione è limitata al presente” ( Il problema sessuale nella morale e nella pedagogia. Discussioni coi moderni riformatori. Sten, Torino, 1910). 5.5 Una politica piena di contraddizioni In realtà non è semplice decifrare e ricostruire la politica del partito fascista nei confronti del genere femminile, una politica altrettanto disomogenea e contraddittoria quanto lo fu l’ideologia sulla quale si fondava. Quello che determinava le maggiori contraddizioni era il fatto che le stesse basi teoriche sulle quali il movimento fascista doveva fondarsi, identificavano l’immagine della donna con quella, alquanto anacronistica, dell’angelo del focolare, una persona quasi asessuata dedicata alla procreazione e all’educazione dei figli, mentre il partito si doveva pragmaticamente confrontare, sul piano economico, con una fase di transizione piena di difficoltà e difficile da interpretare: era oltretutto necessario risolvere il problema dell’inurbamento di molte famiglie contadine, richiamate nelle città dalla industria appena nascente, un evento che aveva già creato grandi scompensi nelle famiglie di molti paesi europei. Tutto ciò al termine di una guerra mondiale che aveva notevolmente impoverito la popolazione, riempito il paese di debiti, modificato abitudini e rapporti sociali, un momento certamente assai poco adatto a prefigurare una società pre-capitalistica che avrebbe dovuto contare, in teoria, su donne disponibili a sacrificarsi impegnandosi contemporaneamente a produrre un gran numero (otto milioni, questa era la richiesta di Mussolini) di future baionette e a dare una mano ai mariti nel lavoro extra-moenia. La classe dirigente del partito si dovette rendere conto del fatto che produrre gli otto milioni di baionette sui quali il Duce sperava di poter contare era fuori dalla portata delle nostre coppie (che al contrario facevano sempre meno figli) e cercò di riparare come poteva: la propaganda fascista fece tutti gli sforzi possibili per inculcare nella testa delle donne che fare figli era la missione che era stata loro assegnata (una missione alla quale il loro patriottismo doveva impegnarle allo spasimo) e che dovevano lasciare il lavoro al quale si erano finalmente adattate per ritornate tra le mura domestiche. Nei giornali fascisti del tempo (Critica fascista, La stirpe,La difesa della razza, Giovinezza, Il Secolo fascista) si potevano leggere enfatiche dichiarazioni destinate a esaltare il ruolo materno: “La donna fascista deve essere madre, fattrice di figli reggitrice e direttrice di vite nuove…. Per essa occorre una intensa evoluzione spirituale verso il sacrificio, l’oblio di sé, l’anti-edonismo individualistico….”. “La donna veramente donna non ambisce eguaglianze, non sogna indipendenza, non chiede diritti maschili, ma è dolcemente fiera dei suoi doveri femminili…. Coloro che aspirano ad emanciparsi, coloro che per l’ingegno, per l’attività, per la volontà si sono acquistata una reputazione più o meno legittima hanno nell’aspetto fisico come nella fisionomia morale qualcosa di mascolino… ed è per questo che noi dobbiamo imparzialmente riconoscere che la maggior parte delle donne superiori che furono grandi per se stesse o come ispiratrici di uomini celebri appartengono non al tipo delle mogli oneste e delle madri feconde ma al tipo di Aspasia…”. Persino la sessualità femminile fu privata della sua dimensione più intima e divenne un fatto pubblico, sottoposto a norme, regole e controlli. Lo stesso Giovanni Gentile, “il” filosofo del fascismo, scrisse che “ la donna è colei che si dedica interamente agli altri fino a giungere al sacrificio e all’abnegazione di sé; la donna è soprattutto idealmente madre , prima di essere tale naturalmente. … Madre per i suoi figli, per gli infermi, per i piccoli affidati alla sua educazione: in ogni caso per tutti coloro che possono trarre beneficio dal suo amore e attingere a quella sua innata, originaria, essenziale maternità” (La donna nella coscienza moderna, In: La donna e il fanciullo. Sansoni, 1934). Come era naturale, per poter confinare le donne alle loro funzioni naturali e primarie – quella di madri, di spose e di reggitrici della casa – fu indispensabile impedire loro di svolgere qualsiasi tipo di attività che potesse distrarle dagli obiettivi che coscienza e amor di patria indicavano loro: fu così per il lavoro extra-moenia e fu così ugualmente per l’istruzione. Ferdinando Loffredo – uno dei più interessanti e meno conosciuti ispiratori della politica sociale e della famiglia del fascismo, morto centenario nel 2008 – scriveva: “Sarà fatale che il fascismo affronti e risolva questo problema fondamentale nella creazione della nostra civiltà, realizzando la negazione teorica e pratica di eguaglianza culturale tra uomo e donna che può alimentare uno dei più dannosi fattori della dannosissima emancipazione della donna” ( Politica della famiglia, Bompiani, Milano, 1938). A questo scopo il regime cercò di accentuare al massimo le differenze tra i sessi utilizzando un modello di “pedagogia differenziale” che veniva applicato fin dalla primissima infanzia. Alla base di questa politica stava la convinzione che la donna era comunque (e da qualsiasi lato la si considerasse) inferiore all’uomo e che se era diversa lo era anche in termini qualitativi, anche se, per fortuna, le sue capacità cognitive erano sufficienti a consentirle di svolgere i compiti per i quali era nata. Da ciò la costruzione di percorsi didattici del tutto particolari, adatti alle sue caratteristiche, rispettosi delle sue peculiarità, sufficienti a fare di lei la collaboratrice tenera e affettuosa dell’uomo , sempre e comunque “secondo natura”. Insomma, la donna poteva affrontare percorsi culturali severamente separati da quelli maschili che le consentivano di raggiungere un certo livello di istruzione ma in grado di impedirle di entrare in competizione con l’uomo. La politica del fascismo nei riguardi dell’istruzione femminile fu molto confusa e disordinata agli esordi, ma a partire dal 1930 sfociò in una serie di provvedimenti più razionalmente ordinati, che mantennero la stessa apartheid degli esordi ma presentarono anche alcuni aspetti positivi, come ad esempio l’istituzione di Scuole femminili quali furono le Scuole femminili di avviamento professionale, il Magistero e le scuole superiori per maestre rurali, assistenti sociali e insegnanti di economia domestica. Le donne rimanevano, invece, escluse da tutti gli insegnamenti fondamentali dei Licei e fu loro persino impedito di partecipare ai Littoriali della cultura e dello sport. Il Governo italiano investì molte energie nello sforzo di impedire alle donne di accedere ai livelli superiori di istruzione, più energie di quante – se consideriamo i dati di quel periodo storico relativi alla scolarità – sarebbero comunque state necessarie. Nell’anno scolastico 1934-1935 le bambine che frequentavano le scuole elementari in Italia erano l’88% rispetto agli scolari di sesso maschile, ma questa percentuale era solo pari al 69% nelle scuole medie e al 16% negli Istituti superiori e nelle Università. In definitiva il fascismo era riuscito a consolidare una cultura (certamente già esistente da secoli) che scoraggiava le donne a continuare gli studi e le convinceva che una eventuale carriera professionale avrebbe certamente ostacolato la loro “missione” naturale che con quegli studi e quelle carriere non aveva niente a che fare. Chi voglia saperne di più può leggere il libro di Loffredo, Politica della famiglia, nel quale l’Autore dichiara, tra l’altro, di “essere favorevole della restaurazione della demograficamente necessaria sudditanza della donna all’uomo” e condanna “quel fenomeno morboso e malsano che si sintetizza nell’emancipazione dell’individuo femmina”. Loffredo era convinto che le cause del calo demografico potevano essere identificate nella crisi dell’istituto familiare e riteneva necessario favorire la formazione di nuove famiglie facendo nascere nelle persone il desiderio di crearsi una discendenza , un sentimento che si era innaturalmente e progressivamente affievolito nei cittadini a causa dell’emancipazione femminile e della diffusione del materialismo individuale. Il nemico giurato di questa crisi dell’istituto familiare, sempre secondo Loffredo, doveva essere identificato nell’”individuo liberale”, un soggetto chiuso nel suo benessere e nel suo egoismo, interessato solo ai beni materiali , dimentico di ogni valore spirituale e religioso. Avendo constatato che matrimoni e nascite erano soprattutto in calo nei luoghi nei quali era maggiormente diffuso il benessere materiale, Loffredo proponeva di diminuire il tenore di vita degli italiani che vivevano e lavoravano nel nord del Paese e di favorire invece la vita dei contadini nelle campagne, un luogo che considerava ancora una rilevante risorsa demografica. Ammetteva però la scarsa rilevanza di questo suo progetto e identificava la reale causa della crisi che stava attanagliando il Paese nel successo che in alcune parti di esso arrideva all’emancipazione della donna, e al progresso culturale professionale e psicologico di una parte della popolazione femminile, tutti pericoli costanti per la società in quanto capaci di generare famiglie moralmente corrotte. Secondo Loffredo la donna italiana era stata assorbita dalla mentalità edonistica e individualista dell’inizio del secolo che l’aveva distratta e allontanata dal suo destino naturale, quello della vita domestica e del lavoro dei campi. Di qui la necessità di evitare per lei ogni occasione di emancipazione, di qui il bisogno di percorsi educativi differenziati , il divieto di dedicarsi a lavori extra-domestici e a ogni genere di attività sportiva. Su questa necessità di tenere le donne lontane dallo sport ( oltre che, naturalmente, da una istruzione che non fosse elementare) Loffredo ebbe molte occasioni di intervenire. Le attività sportive, affermava, erano semplici pretesti per abbandonare le pareti domestiche e occasioni per considerare con maggior attenzione il proprio corpo. Quello che si poteva concedere alle femmine era, al massimo, l’esercizio fisico, l’attività fine a se stessa: nessuna concessione invece all’agonismo, responsabile oltretutto della perdita del pudore, una delle maggiori virtù femminili. E in ogni caso, concludeva Loffredo, sia lo sport che il lavoro salariato erano responsabili di una mentalità anti-generativa e di una destrutturazione del nucleo familiare che si corrompeva e perdeva la sua capacità di aggregazione. Analizzando i vari problemi proposti dall’occupazione femminile Loffredo sottolineava come non tutte le attività fossero egualmente negative: le operaie, ad esempio, non modificavano in modo significativo il loro atteggiamento nei confronti della riproduzione e della maternità, cosa che accadeva invece comunemente alle impiegate, al punto che si poteva dichiarare che “la macchina da scrivere era lo strumento che distruggeva la famiglia”. La conclusione inevitabile di tutto ciò era che la donna aveva una assoluta necessità di essere tutelata e che questa protezione non poteva essere applicata “nel lavoro” ma doveva molto semplicemente escluderla “dal lavoro”. Almeno in apparenza alcuni dei suggerimenti di Loffredo furono ascoltati. Il regime limitò in molti modi l’occupazione femminile, ad esempio escludendo e donne dall’insegnamento di materie come lettere e filosofia nei licei (1926) e non ammettendole ai concorsi per le amministrazioni statali (1933); in seguito fu regolata l’assunzione del personale femminile negli impieghi pubblici, limitando al 5% la presenza delle donne nei ruoli direttivi e al 20% quella nei ruoli di minor prestigio. Nel 1938 nuove norme imposero una quota massima del 10% di assunzioni femminili nelle aziende di media grandezza, le più numerose nel Paese. Il Regime non escluse mai del tutto le donne dal lavoro nelle fabbriche e nelle piccole imprese, ma le tenne generalmente lontane dai ruoli impiegatizi: in ogni caso durante tutto il ventennio le donne non superarono mai il 25% del personale occupato nelle fabbriche. Le teorie di Ferdinando Loffredo – un economista che, lo ripetiamo, è considerato un importante ispiratore della politica del fascismo in campo sociale – possono risultare stupide, odiose o anche solo ridicole a molti di noi, ma certamente piacquero al partito politico che ha governato l’Italia per molti anni dopo la caduta del fascismo, la Democrazia Cristiana. Si può trovare in rete una intervista rilasciata dallo stesso Loffredo a Giuseppe Brienza nel 2002 nella quale racconta le sue vicissitudini di reduce: tornato in Patria nel 1945 (la guerra lo aveva sorpreso in Germania) fu subito contattato da Amilcare Fanfani, già allora un leader della DC, che gli chiese di collaborare con il suo partito ( che era alla ricerca di esperti in materia di politiche sociali. Loffredo gli espresse le sue preoccupazioni: il suo passato lo esponeva con assoluta certezza a un processo per collaborazionismo (aveva aderito oltretutto alla Repubblica Sociale) e aderire a un partito politico non gli sembrava una buona idea, almeno in quel momento. Fanfani lo tranquillizzò, gli disse che sarebbe stato sufficiente attendere qualche mese e che poi avrebbe potuto accasarsi nel partito dei cattolici. Non abbiamo trovato tracce di processi per collaborazionismo nella storia di Loffredo, che comunque chiese a Fanfani di essere presentato a Gedda, allora presidente dell’Azione Cattolica, incontro fortunato perché Loffredo ne uscì con l’incarico di Presidente (o direttore) del “Fronte della Famiglia”, una delle molte associazioni collegate con la Democrazia Cristiana che aveva, tra i suoi compiti, quello di fare propaganda contro il divorzio. Tenne questo incarico per alcuni anni, durante i quali fu avvicinato da numerosi dirigenti democristiani che gli fecero “ tutta una serie di offerte di incarichi di responsabilità ( ben remunerati) in enti e in aziende del sottogoverno e del parastato”; poiché era sottintesa la sua adesione al partito, Loffredo le rifiutò tutte. Può essere interessante ricordare che uno dei suoi ultimi saggi in materia di sicurezza sociale (pubblicato nel 1958 su Previdenza sociale) riguardava scritti e documenti di PIO XII in materia di dottrina sociale della Chiesa, una dottrina che Loffredo dichiarava di apprezzare enormemente. Debbo anche dire che personalmente, nelle discussioni che ho avuto con interlocutori cattolici, mi sono reso conto che molti di loro non erano riusciti a liberarsi completamente della dottrina che avevano condiviso con il fascismo, della quale continuavano ad essere permeati e che camuffavano in modo maldestro e contro voglia. 5.6 Le donne magistrato Abbiamo già più volte accennato alle difficoltà che incontrano le donne che si propongono di ottenere , dalla società nella quale vivono, le stesse opportunità che vengono concesse agli uomini ( difficoltà che l’esistenza di un Ministero per la pari opportunità conferma completamente, il Ministero non avrebbe ragione di esistere se le opportunità fossero le stesse per i due sessi). A titolo di esempio, prenderemo in esame quello che è successo in Italia a proposito dell’ingresso delle donne nella Magistratura, una storia certamente degna di essere raccontata. Per farlo, assumiamo come riferimenti bibliografici gli scritti di Giuseppe Di Federico e Angela Negrini ( La Donna nella Magistratura Ordinaria. Polis, 2 agosto 1989); di Gabriella Luccioli (La presenza delle donne nella Magistratura italiana. www.donnemagistrato.it); L.Barzilai ( La donna magistrato. In: Rassegna dei magistrati, Giuffrè 1962); A.Candian ( Donne nei Collegi Giudiziari? Istituto Editoriale Cisalpino, 1956); B. Veca ( Primi cenni sula incostituzionalità della legge che ammette le donne nei pubblici uffici. Editoriali House Books Italian Divulgations, 1968); E.Ranelletti ( La “donna giudice” ovverosia la “Grazia” contro la “Giustizia”. Giuffrè, 1957). E’ molto probabile che, per capire le ragioni che hanno tenuto lontano le donne dalla professione di magistrato sia necessario andare molto lontano nel tempo, fino a quando cioè Paolo di Tarso (I Timoteo, 2,8-15) scriveva la sua prima lettera a Timoteo e gli diceva: “Voglio dunque che in ogni luogo gli uomini preghino alzando al cielo mani pure, senza collera e senza polemiche. Allo stesso modo le donne, vestite decorosamente, si adornino con pudore e riservatezza, non con trecce e ornamenti d’oro, perle e vesti sontuose, ma come conviene a donne che adorano Dio, con opere buone La donna impari in silenzio, in piena sottomissione. Non permetto alla donna di insegnare né di dominare sull’uomo; rimanga piuttosto in atteggiamento tranquillo. Perché prima è stato formato Adamo, e poi Eva; e non Adamo fu ingannato ma chi si rese colpevole di trasgressione fu la donna che si lasciò sedurre. Ora lei sarà salvata partorendo figli, a condizione di perseverare nella fede, nella carità e nella santificazione, con saggezza”. In realtà, Paolo non fa che ribadire quanto è scritto nella Genesi (3,16) : “ Alla donna disse: moltiplicherò i dolori del tuo parto e delle tue gravidanze; con dolore partorirai i tuoi figli e i tuoi desideri dipenderanno da tuo marito, ed egli dominerà su di te”. E se è vero che la concezione biblica ha formato il codice culturale dell’Occidente, si può capire come per secoli l’idea di essere giudicati da una donna provocasse negli uomini un forte senso di contrarietà. Ma vediamo come andarono le cose nel nostro Paese. La legge 1176 del 1919 che ammetteva le donne all’esercizio delle professioni e degli impieghi pubblici le escludeva esplicitamente dall’esercizio della giurisdizione. L’articolo 8 dell’ordinamento giudiziario del 1941 definiva in questo modo i requisiti necessari per accedere alle funzioni giudiziarie: “essere cittadini italiani, di razza ariana, di sesso maschile e iscritti al PNF” fu oggetto di un ampio dibattito in seno alla Assemblea Costituente , dibattito del quale si trovano molte tracce nei documenti relativi alle riunioni della seconda sezione della seconda commissione della Commissione per la Costituzione, e in particolare in quelli che riguardano le sedute del 10 gennaio 1947. Era in discussione l’Articolo 20 del progetto Calamandrei, quello che riguardava i requisiti necessari per essere ammessi ai concorsi e che scriveva in modo esplicito che le donne non potevano essere discriminate per la sola appartenenza al genere femminile. Credo che per capire quanto forti fossero le preoccupazioni e i timori che la figura di una donna-magistrato sollecitavano sia necessario leggere almeno alcuni degli interventi dei partecipanti alla discussione. Tra gli oppositori più energici alla norma suggerita da Calamandrei deve essere citato Giuseppe Cappi, democristiano, secondo il quale “ nella donna prevale il sentimento sul raziocinio, mentre nella funzione del giudice deve prevalere il raziocinio sul sentimento”, tanto che “ le donne avrebbero potuto essere utilizzate in determinati giudizi, senza la possibilità di accedere alla carriera giudiziaria e diventare magistrati”. A sostegno di questa opinione, l’onorevole Giuseppe Codacci Pisanelli ( anche lui esponente democratico cristiano) dichiarava che “ soprattutto per i motivi addotti dalla scuola di Jean-Martin Charcot ( il neurologo che diresse per 33 anni la Salpêtrière) riguardanti il complesso anatomo-fisiologico, la donna non può giudicare”. Contrario, ma in modo più cauto, anche l’onorevole Salvatore Mannironi, democristiano anche lui, favorevole “per principio “ai diritti delle donne, ma convinto, per l’esperienza acquisita nel campo dell’avvocatura, che le donne non avevano le attitudini necessarie per lavorare nella magistratura in quanto mancanti di quel potere di sintesi e di equilibrio indispensabili per sottrarsi all’influenza delle emozioni. Tra le altre voci contrarie la più articolata mi sembra quella di Giovanni Leone, il futuro presidente della repubblica, che affermò: “Si dichiara che la partecipazione illimitata delle donne alla funzione giurisdizionale non sia per ora da ammettersi. … Negli alti gradi della magistratura, dove bisogna arrivare alla rarefazione del tecnicismo, è da ritenere che solo gli uomini possano mantenere quell’equilibrio di preparazione che più corrisponde per tradizione a quelle funzioni”. La decisione finale dei Padri Costituenti fu quella di non menzionare il problema della partecipazione femminile alle funzioni giurisdizionali e di stabilire invece gerarchicamente , all’articolo 51, che “tutti i cittadini dell’uno e dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge”. Solo con l’articolo 1 della legge costituzionale 30 maggio 2003 n.1 fu aggiunta una seconda parte a questo comma: “A tal fine la repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini”. Prima che il comma dell’articolo 51 fosse completato, almeno secondo la prima interpretazione ufficiale, la Costituzione consentiva al legislatore ordinario di prevedere l’appartenenza al genere maschile tra i requisiti necessari per accedere ai concorsi per la magistratura, in deroga al principio di parità tra i sessi, il che naturalmente rinviò di molti anni l’ingresso delle donne nelle funzioni giudiziarie. In ogni caso la polemica sulle “pretese“ delle donne non si placò mai completamente. Nell’agosto del 1948 l’avvocato Orfeo Cecchi, docente nella Università di Milano, scriveva, nel “Mondo Giudiziario”, queste parole: “Alla donna che si discosta dalle soavi funzioni dell’amore e della maternità abbiamo il sacrosanto dovere di dire tutta la verità senza stupidi riguardi e senza goffe e masochistiche ipocrisie. La donna è uno stadio intermedio tra il bambino e l’uomo , come si rileva anche dalla fisionomia, dalla mancanza di peli sul viso , dal tono della voce, dalla debolezza organica e dalla psicologia a base istintiva , sentimentale e spesso capricciosa. Ha soprattutto, quando è giovane, scarsissimi scrupoli e freni morali. Ha spiccatissime attitudini per l’intrigo, per la simulazione, per il mendacio e per lo spionaggio. E’ tremenda nell’odio e nella vendetta. Orbene è a un essere simile, dominato e sopraffatto dalla simpatia o antipatia sessuale, che si vogliono affidare anche le difficilissime e delicate funzioni di magistrato.” La Legge 27 dicembre 1956 consentì una presenza minoritaria di donne in qualità di giurati nei Collegi giudicanti delle Corti d’assise con la precisazione che in ogni caso almeno tre giudici dovevano essere di sesso maschile. Un accorato appello contro l’ammissione delle donne alle funzioni giudiziarie comparve immediatamente in un libro di Eutimio Ranelletti ( La donna giudice, ovverosia la “Grazia” contro la “Giustizia”. Giuffrè, 1857) nel quale si poteva leggere, tra le numerose motivazioni che impongono di escludere le donne da una funzione che richiede intelligenza, serenità ed equilibrio, che la donna, al contrario, “ è fatua, è leggera, è superficiale, emotiva, passionale, impulsiva, testardetta anzichenò, approssimativa sempre, negata quasi sempre alla logica e quindi inadatta a valutare serenamente, obiettivamente, saggiamente, nella giusta portata, i delitti e i delinquenti”. Secondo Ranelletti, un Magistrato di grande prestigio, destinato a diventare Presidente della Corte di Cassazione, l’inferiorità delle donne nelle materie giuridiche era ben conosciuta dai professori universitari, in quanto “la studentessa di giurisprudenza ripete quasi sempre a memoria, incapace di penetrare l’essenza dell’istituto giuridici su cui è interrogata”. Insomma, questo era l’orientamento più diffuso in Italia, un orientamento che non si poteva considerare il frutto di isolate bizzarrie ma solo il risultato di un solido e radicato pregiudizio. Era lo stesso pregiudizio che aveva fatto scrivere a Bruno Villabruna, deputato del Partito Liberale e Padre Costituente, che “ le donne hanno un modo di vedere, di sentire, di ragionare che molto spesso non si concilia con quello degli uomini. E allora, il giorno che avrete affidato la Giustizia ad un corpo giudiziario misto, cosa avrete ottenuto? Avrete portato nel sacro tempio della Giustizia un elemento di più di confusione, di dissonanza, di contrasto”. La legittimità costituzionale della legge 1441/1956 fu riconosciuta dalla Consulta con la sentenza 56 del 1958 nella quale si affermava che la legge era nel giusto in quanto aveva tenuto conto – nell’interesse dei pubblici servizi – delle differenti attitudini proprie degli appartenenti a ciascun sesso e che questo sarebbe stato sindacabile solo nel caso che ne fosse risultato un danno al canone fondamentale dell’eguaglianza giuridica. Nel 1960 la Corte Costituzionale, con la pronuncia n 33, dichiarò parzialmente illegittimo l’articolo 7 della legge 1176 / 1919, nella parte nella quale stabiliva l’esclusione delle donne da tutti gli uffici pubblici che implicavano l’esercizio di diritti politici; il 9 febbraio del 1963 il Parlamento approvò la legge n 66 con la quale le donne erano ammesse ad accedere a tutte le cariche, professioni e impegni pubblici, magistratura inclusa. Dall’entrata in vigore della Costituzione erano passati più di 15 anni e si erano svolti sedici concorsi per uditore giudiziario ( per un totale di 3127 vincitori) dai quali erano state illecitamente escluse le donne. Il primo concorso aperto alla partecipazione femminile fu bandito il 3 maggio 1963: 8 donne risultarono vincitrici e tutte entrarono in ruolo il 5 aprile del 1965. Questa è solo parte della storia che le brave persone che hanno avallato il documento del Ministro Lorenzin avrebbero dovuto conoscere prima di firmare . Adesso, compiuto il nostro dovere, ci mettiamo entrambi alla finestra, vogliamo vedere di che pasta sono fatte le donne italiane. Per chiarezza, noi scommettiamo su di loro. CONCLUSIONI Le occasioni per stabilire che un nuovo paradigma è stato scelto, che cioè la società ha accettato un nuovo modello di comportamento e una modificazione di grande rilievo nelle scelte di vita, non sono sempre segnate da eventi storici rilevanti o da episodi in grado di lasciare un chiaro segno nella memoria di tutti. Non è così per il tema che abbiamo trattato, un tema che riguarda la sterilità, la genitorialità, la famiglia, un paradigma che in un Paese come il nostro, che ha sempre dovuto patire le interferenze del cattolicesimo nella vita pubblica e privata dei cittadini, ha molto stentato ad affermarsi. L’occasione per emergere il nuovo paradigma l’ha avuta – e questo sembra proprio uno scherzo del destino – a seguito di un esagerato impeto di ribellione del mondo cattolico che ha reagito alla proposta di applicare una nuova e per alcuni rispetti sconvolgente tecnica riproduttiva, come l’Inquisizione reagiva all’alito di Satana dei riformisti, costruendo roghi. Possiamo dunque immaginare che la legge 40 del 2004 sia stata l’ultimo rogo della moderna Inquisizione, un rogo costruito (piuttosto maldestramente) allo scopo di liberarsi per sempre della modernità e delle sue diavolerie. In realtà si è trattato di autocombustione di una legge stupida e maldestra, altri fuochi non ne sono stati accesi e comunque se dovesse mai accadere, se si presentasse alle soglie della nostra società qualche nuovo incendiario, ci penserebbero il buonsenso e il desiderio di libertà e di laicità dei cittadini a mortificarne le velleità, magari rivolgendosi molto semplicemente alla Magistratura, corpo ormai presidiato saldamente dalle donne. Quello che sta accadendo oggi, incluso il Fertility Day della signora ministro Lorenzin, è un infelice connubio tra la malacopia del clerico-fascismo del famigerato ventennio e le convulsioni terminali degli sconfitti, reazioni isteriche, generalmente di breve durata. Niente di cui preoccuparsi, mettiamoci tutti a sedere e aspettiamo, non meritano attenzione. Maggiore attenzione dovremmo invece porre, tutti noi, alle profonde modificazioni alle quali sta andando incontro la società: negli ultimi decenni abbiamo assistito a profondi cambiamenti del concetto di salute degli esseri umani, mutamenti che hanno profondamente cambiato il significato e gli scopi della medicina; contemporaneamente si è fatta strada l’idea che queste nuove definizioni dovessero adattarsi alle differenze di genere fino a diventare specifiche per i due sessi. Nel campo del progresso delle conoscenze si è poi affermata la necessità che ogni investimento, ogni proposta di studio e di investigazione dovessero ottenere un consenso sociale informato, con le inevitabili ricadute sulla promozione di cultura proprie di tutti i consensi informati, sulle modalità di preparazione dei nuovi protocolli di ricerca scientifica e sui criteri etici che li debbono regolare, secondo il principio che vuole che la regola morale derivi direttamente dal sentire comune e non dalle dottrine. In modo più specifico si è sviluppato il conflitto di paradigmi che abbiamo cercato di descrivere in questo testo, un conflitto che riguarda soprattutto la vita riproduttiva e il rapporto della società con le unità di convivenza sociale e affettiva. Del primo sono responsabili le straordinarie trasformazioni consentite dal progresso delle conoscenze e che riguardano la riproduzione e la genetica; il secondo ha invece a che fare con la moltiplicazione delle famiglie, legittimata in quasi tutti i Paesi Europei dalle rispettive legislazioni. Non c’è mai stata, in passato, una richiesta di mutamento altrettanto straordinaria quale quella che i cittadini chiedono alle scienze biologiche e mediche. La definizione di malattia più comunemente accettata oggi non ha più niente a che fare con il concetto di “assenza di malattia” ma si basa piuttosto sull’esistenza di un equilibrato benessere fisico psicologico e sociale rispettoso della dignità, della autonomia e dei diritti delle persone. Viene contemporaneamente richiesta una attenzione particolare al concetto moderno di dignità, interpretata come una sorta di cenestesi dello spirito capace di garantire qualità all’esistenza solo se incentrata sul rispetto dell’autonomia, basato a sua volta sull’aiuto della società a realizzare le proprie speranze e le proprie inclinazioni. E’ in effetti convincimento comune il fatto che nell’animo femminile non esistano istinti naturali e specifici che indirizzino tutte le donne verso la maternità, ma solo sentimenti, come tali variegati e incostanti, più o meno virtuosi, più o meno pressanti, in ogni caso incapaci di contribuire a crescere o diminuire prestigio e dignità. Scriveva Elisabeth Badinter a questo proposito che nell’animo femminile esistono molte più virtù, molti più destini e molte più speranze di quanto gli uomini possano immaginare e capire. Mortificare queste virtù, questi destini e queste speranze con l’ipotesi del “fertility day”, non è degno delle donne italiane.