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La proprietà del corpo2020-03-31T16:29:26+02:00

La proprietà del corpo

Dicembre 2012

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Parlare del corpo è come parlare della persona o del tempo, si corre il rischio di dire cose assennate per un adeguato periodo di tempo senza che gli altri ti capiscano o trovino nelle tue parole una corrispondenza adeguata con i loro sentimenti o le loro convinzioni. Lo spiegava assai bene  Agostino, a proposito riferendosi al concetto di tempo: se nessuno mi chiede di spiegarglielo, lo so; se voglio spiegarlo a chi me lo chiede non lo so più.

E poi di che corpo parliamo? I temi possono essere molto diversi, spesso in rapporto molto lasso tra di loro. Dietmar Camper  faceva riferimento al corpo come a una sorta di servitore che non parla, un termine usato frequentemente nel linguaggio teatrale, luogo di applicazione per nulla passivo  di repressioni e discipline che si presentano generalmente mascherate da emancipazione. Ma esiste anche il corpo protesi, fattore di disturbo della spiritualizzazione, che alcuni vogliono tecnologica e altri teologica. E il corpo può anche essere una macchina che deve funzionare, una macchina organizzata in parti – i tessuti, gli organi – che però oggi non sembrano essere componenti di un tutto e hanno vita e valore in sé. Ed è comunque cosa diversa dalla sua immagine, il corpo fatto di ossa e carne, destinato a morire e a diventare polvere, l’immagine destinata a sopravvivere ( anche se Cosimo Marco Mazzoni scrive che anche le immagini del corpo, ferme e astratte come sono, rappresentano una storia di morte, costruiscono una sorta di scenografia cimiteriale).

A chi appartenga il corpo può sembrare a prima vista un problema di esclusivo interesse giuridico, una questione che ha raggiunto dimensioni che erano impensabili fino a pochi anni or sono. L’ambito della discussione spazia  dalla tutela dell’identità genetica alla questione della salute, dalla relazione terapeutica alle alterazioni volontarie in campo estetico e funzionale, dalla libertà procreativa a quella sessuale, dalla libertà dei costumi di vita alla responsabilità sociale per la propria salute, dalla gestione della gravidanza e della nascita a quella della malattia terminale e della fine della vita. Ognuno di questi punti è oggetto di discussione  e il rischio è quello di costruire un castello di carta fatto di parole, un fragile edificio assemblato usando un grande numero di opinioni senza prima aver trovato un criterio, una chiave di edificazione: molti muratori non sostituiscono un architetto.

Nel 1998 Maria Chiara Tallacchini ha pubblicato su Bioetica un articolo intitolato Habeas Corpus, nel quale ha indicato quello che a suo parere è il fulcro delle difficoltà che incontriamo quando vogliamo discutere il problema dell’appartenenza del corpo, sia dal punto di vista giuridico che da quello bioetico. Il diritto del corpo secondo la Tallacchini, oscilla tra coppie di termini opposti, riassumibili in tre principali dicotomie, il corpo come soggetto e come oggetto, il corpo come insieme di parti uguali e/o diverse, il corpo come entità naturale e come entità artificiale. In tutte queste dicotomie siamo di fronte all’ambiguità del corpo  – della sua qualificazione, della sua consistenza, del suo spazio – e quindi all’ambiguità della sua appartenenza.  Nel commentare questo articolo, Paolo Zatti afferma che di questa doppia verità che accompagna il corpo nelle avventure del biodiritto, percepiamo in trasparenza le origine remote: corpo come sostanza dell’umano, oppure suo vestito, origine dell’io, oppure sua prigione (Per uno statuto del corpo, Giuffrè 2008).

Esattamente come Zatti non sono in grado di addentrarmi nella foresta culturale che ospita le fonti di questa doppia verità, quella stessa che – secondo Galimberti – cerca di far convivere spiritualismo e scienza empirica, tra corpo fisico e proprio corpo vivente, tra corpo oggettivato dalla scienza che si offre all’indagine clinica e proprio corpo come è concretamente vissuto e sperimentato dall’esistenza.

E poi c’è la pletora di problemi sorti con lo sviluppo delle biotecnologie che impongono la necessità di affermare un potere individuale di disposizione del proprio corpo, ma che sollecitano anche a limitare questo potere per non lasciare il corpo esposto alle insidie del mercato, un concetto ampiamente discusso da Palmerini in un suo testo del 2005 ( Le scelte sul corpo: i confini della libertà di decidere. CSM Roma). E Rodotà ( Ipotesi sul corpo giuridificato, 1994) conclude che sono necessarie relazioni giuridiche in cui la realtà biologica dell’individuo è assorbita nel valore e nella tutela dell’identità e altre in cui è necessario mantenere una distinzione tra io soggetto e io oggetto.

Michela Marzano ( Il corpo tra diritto e diritto: Materiale per una storia della cultura giuridica, 1999) indica come fonte di questa difficile conciliazione tra diritto soggettivo e corpo questa affermazione di Kant: “ L’uomo non può disporre di se stesso perché non è una cosa: egli non è una proprietà di se stesso perché ciò sarebbe contraddittorio”.

La giurisprudenza del XIX secolo limitava il diritto sul corpo – inteso come relazione proprietaria – alle parti staccate, mantenendo solo un vago ius in corpus nelle relazioni coniugali. E’ ancora Zatti che scrive, commentando queste parole, che la difficoltà sembra nascere dalla struttura originariamente proprietaria della categoria del diritto soggettivo, che non solo costituisce un ostacolo a rappresentare giuridicamente una relazione tra soggetto e corpo identificati, ma crea un equivoco tra il concetto di proprietà e quello di appartenenza. La proprietà, che è una modalità dell’appartenenza, diventa il suo modello esaustivo, mentre l’appartenenza è enormemente più vasta e molteplice della proprietà.  Vedrò di sviluppare questo concetto, ma prima voglio fare alcune considerazioni su questa affermazione: non sono padrone del mio corpo perché il mio corpo non è una cosa.

In realtà, mi sento di essere padrone di molti elementi che riguardano intimamente la mia vita e che faticherei molto a definire cose: ritengo di essere padrone della mia esistenza, dei miei pensieri, delle mie emozioni, dei miei segreti. E fino a un certo punto mi sento padrone dei miei passi, e ho usato liberamente il mio corpo per difendermi e aggredire, nei limiti ammessi dalle regole sociali,  come meglio non avrei potuto fare se ne fossi stato padrone.  E’ solo una questione semantica? Quando, riferendomi al mio corpo, lo chiamo proprio così, il mio corpo, cosa voglio dire, cosa intende dire ognuno di noi? E’ possibile che esista una cosa che è mia e sulla quale non ho diritti? Nessun diritto? Qualche diritto? Chi stabilisce i confini di questi eventuali diritti?

In realtà – ma lo scrive molto meglio di me Zatti – l’appartenenza è una relazione affidata all’aggettivo possessivo. Di ciò che mi appartiene dico che è mio.

Mio ha due significati: di pertinenza – mi riguarda – e di esclusione – riguarda solo me- . Ritorno a Paolo Zatti  e a una sua affermazione: Il nesso – di pertinenza e di esclusione – può separare me dal non me, me soggetto dal mio oggetto. Mio è ciò che non è me. All’opposto mio può assorbire me in ciò che è mio,  oppure collocare me, in parte o in tutto, in ciò che dico mio. Dico mio ciò che è parte o luogo del mio essere me.

Nel linguaggio comune, mio può implicare una relazione tra soggetti e una reciprocità ( mio padre). L’appartenenza del coniuge conserva alcuni degli aspetti dello ius in corpus. Mio può indicare la mia appartenenza a qualcosa (il mio partito). Mio può essere un artificio (la mia coscienza).

Mie sono la salute, l’integrità fisica, la reputazione, la vita privata, le emozioni….

Al centro di questa sfera dell’appartenenza, così variegata, si colloca il corpo.

La sfera dell’appartenenza delimita il non estraneo, che possiedo come esperienza, e che perciò è mio proprio. Il mio corpo occupa uno spazio privilegiato perché è il mio proprio corpo vivente, il mio corpo come esperienza. Scrive Galimberti: “Il mio corpo, che conosco nella molteplicità delle esperienze quotidiane, si rivela per ciò che mi inserisce in un mondo, ciò grazie a cui esiste, per me, un mondo. Il corpo cosa che conosco nei libri di fisiologia o nelle tavole di anatomia non è un’altra realtà, ma è la stessa presente in un’altra modalità, nella modalità oggettivante della scienza biologica”.

Dunque si individua, riguardo al corpo, un modo molto particolare di declinare l’appartenenza, ovvero quello che mi impegna a utilizzare l’aggettivo possessivo: mio. Il corpo vivente è mio nel senso che la sua storia mi costruisce. Nel corpo è il divenire dell’io ed è in questo senso che lo chiamo mio il mio corpo. Ciò che dico mio è interamente me. L’appartenenza si identifica inevitabilmente nell’identità.

Se mi limitassi a stabilire che tra me e il mio corpo esiste un legame basato sull’appartenenza, aprirei la porta a un numero indeterminato di definizioni e di interpretazioni. Debbo quindi arrivare a una definizione più precisa, scegliendo tra le molte che trovo sul tavolo della discussione.

Posso scegliere il termine dominium, sinonimo dello ius primordiale quello che ognuno esercita sulla propria persona.

Oppure posso immaginare un modello di appartenenza molto più labile e meno perentorio basato sull’idea che il corpo ci è affidato, cioè che lo amministriamo o lo abbiamo in uso o in enfiteusi. Si potrebbe anche discutere sul significato della parola dono, che nel tardo latino ha praticamente sostituito l’atto del semplice dare, tanto che in francese la parola è, appunto, donner.

I giuristi hanno cercato di valorizzare gli aspetti attinenti al corpo all’interno dei diritti della personalità In realtà abbiamo accettato un’idea spiritualistica di persona e di personalità senza chiederci quanta corporeità resta ancora da scoprire nei diritti fondamentali della prima e nella tutela della seconda e quanto corpo è implicato nell’attuazione di quelle prerogative alle quali ci riferiamo quando pensiamo a ciò che ci riconosce riguardo a noi stessi. La dignità, l’identità, la libertà e l’autodeterminazione, la privacy, sono tutte prerogative da declinare con la specificazione “nel corpo”. Rivendico la mia dignità nel mio corpo, la mia libertà nel mio corpo. Nello stesso modo privacy significa difendere dall’invasione una sfera di elementi – materiali e immateriali – che sono, con la persona, in una relazione di appartenenza, ma tale per cui la loro relazione forma il luogo in cui io sono me stesso, in cui vivo, in cui colloco -–riconosco, cerco, trovo- la mia identità.

Scrive Husserl, nelle sue Meditazioni Cartesiane, che il corpo è la sola e unica cosa in cui direttamente governiamo e imperiamo, dominando in ciascuno dei suoi organi.  Mi pare che dovendo scegliere all’interno dei molti significati dell’appartenenza, il termine che dovrebbe trovare maggiori consensi è quello di governo, inteso come il diritto che ciascuno di noi ha di disporre – in un sistema di libertà – di sé medesimo, delle proprie risorse personali, delle proprie capacità, delle proprie energie e, infine, della propria esistenza. La parola governo comprende del resto riferimenti molto utili nella fattispecie: confine, controllo, libertà, decisione, potere di configurazione, di conduzione, di impiego, e anche di utilizzazione. Sono evidentemente inclusi tutti i diritti erga omnes, dalla privatezza  alla stessa proprietà, ma  resi capaci, per l’ampiezza del termine, di riferirsi all’intero spettro della corporeità. Nell’idea di governo si riconosce anche il colore della sovranità, a  indicare il fatto che il corpo vivente, in quanto sé, è fondamentalmente sottratto alla giurisdizione dello stato. Non possiamo accettare interferenze dello Stato sul nostro corpo come non le possiamo accettare sulla nostra anima – o sulla nostra coscienza, o sulla nostra moralità, o sul nostro concetto di bene e di male. Non è una sovranità assoluta, non è l’imperium, ma è una sovranità naturale, non costituita dal diritto positivo.

Affermare la sovranità di ciascuno su ciò che è costitutivo dell’identità e non distinguibile da essa  (il corpo è mio nel senso che è il luogo in cui io sono me stesso) è come affermare la dignità della persona. La dignità, come condizione in cui non si può essere fatti strumento di scopi e di interessi altrui è artefice di un principio di sovranità nello spazio dell’identità.

Esistono dunque limitazioni – quelle in particolare della dignità e dei suoi principi e dell’identità – che rendono compatibile la sovranità individuale con la solidarietà sociale: il potere è limitato al cerchio dell’identità, a ciò che è essenziale per essere noi stessi, in cui riconosciamo e viviamo noi stessi. Resta da definire il diritto alla mercificazione del corpo, alla sua trasformazione in cosa che può essere acquistata e venduta,  che non esiste in modo primario, ma che può essere giustificata dagli stati di necessità e comunque da tutte le contingenze causate da condizioni di patologia sociale.

Quando penso a definirmi, a dare una risposta alla domanda “ chi sono io?”, mi viene in mente per prima cosa la mia mente, non mi viene certo subito in mente il corpo: tendo cioè a definirmi pensando a cose che hanno a che fare con le capacità cognitive, poi con la consapevolezza, poi ancora con le relazioni, le esperienze, i ricordi, i progetti. Fatevi la stessa domanda e vi darete, con qualche approssimazione, risposte simili. Tutte queste cose non esisterebbero se non ci fosse il mio corpo, il corpo  che mi appartiene o, come abbiamo detto, che io governo e che mi consente di esistere e di definirmi. Il mio cervello in un vaso di vetro, mantenuto in vita senza alcuna speranza di essere trapiantato in un nuovo corpo – che comunque diventerebbe , dopo il trapianto, il mio corpo – è altrettanto inutile quanto lo è uno splendido gioiello in una cassaforte della quale si è perduta la chiave, un posto perfettamente noto ma al quale non è possibile accedere. Al di fuori del mio corpo la mia stessa identità si perde, se si interrompono le mie relazioni con il mondo esterno e se non esistono più quelle con il mio corpo sono destinato a diventare una cosa diversa da me: certamente può continuare la mia vita ma è molto dubbio che io possa conservare la mia identità e nello stesso momento in cui mi cristallizzo come persona e divento incapace di progettare è presumibile che io debba considerare finita la mia esistenza.

L’esistenza ha bisogno di motivazioni: per esistere è necessario progettare.

Dico che tutto ciò è possibile, ma certamente non ne posso essere certo, non è certamente una cosa della quale possiamo fare esperienza, sarebbe assolutamente paradossale.

Posso essere invece molto fermo nel dichiarare che, se all’interno del mio corpo si interrompono definitivamente le mie capacità cognitive, il mio corpo può continuare a vivere, ignorando la fine della mia esistenza e malgrado il fatto che io, o se volete quella entità che io considero me stesso, l’ha abbandonato. Il valore di quel corpo, dal momento in cui io l’ho abbandonato è completamente diverso , molto simile a quello di un guscio vuoto: se ha un significato questo gli viene assegnato dal fatto che i suoi organi possono essere utilizzati da altri corpi, naturalmente abitati, e dal significato simbolico che assume per coloro che lo amavano quando era il mio corpo. Ma dal momento in cui io ho cessato di esistere quel corpo, che si ostina a dimostrare di possedere una vita biologica, ha cessato di essere di proprietà di qualcuno, non esiste più una persona che lo governa e sulle sue sorti può dire una parola definitiva solo un accordo o un compromesso sociale.

Debbo quindi rispondere ad almeno due domande:

  • fino a che punto posso disporre del mio corpo durante la mia esistenza, e quali sono- se esistono – i limiti del mio governo su di lui;
  • in che misura posso influenzare il destino del mio corpo, una volta che la esistenza è terminata e io lo ho abbandonato.

Parlo naturalmente partendo dal mio punto di vista di ateo, di un uomo cioè che ragiona basandosi sul fatto che dio non esiste. Penso che l’espressione etsi deus non daretur valga per un agnostico, a me tocca dire che ragiono quia deus non est.

 

Immagino che se dio esistesse dovrei ritenere di aver ricevuto da lui- con qualche tipo di contratto che non riesco in realtà a capire – tutto quello che ho, tutto quello che sono e in particolare la mia esistenza. Non sarei dunque padrone di nulla se non del diritto di decidere, una libertà alla quale, se sapessi che dio esiste, dovrei naturalmente rinunciare.

Poiché dio non c’è, debbo immaginare di essere padrone della mia esistenza, altri possibili proprietari non riesco proprio a immaginarne.  E il fatto di essere padrone della mia esistenza mi consente di governare sul mio corpo.

Come vedete distinguo vita da esistenza, tenendo conto delle definizioni generalmente accettate, che considerano i differenti livelli di analisi, descrittivo quello che riguarda la vita, assiologico quello che concerne l’esistenza. Una cosa è vivente se è caratterizzata da processi biochimici di natura metabolica che, attraverso l’utilizzazione di energia esterna, permettono la costruzione, il mantenimento e la distruzione della sua struttura fisica e che ne condizionano il comportamento. L’esistenza indica l’intera vita di una specie biologica, o un periodo di questa vita, o la vita di un membro di questa specie ai quali è stato attribuito valore.

Mi sembra quasi naturale che, considerando la nostra esistenza, la prima domanda che ci viene da porci sia: cosa è per lei la cosa più importante: la vita che la pervade, perché è sacra e inviolabile e che per conseguenza deve essere accettata e rispettata comunque sia, qualsiasi cosa ci commini? O possiamo invece giudicarla e pesarla, tenendo conto di quanto ci ha concesso e ci concede? E cosa ci dobbiamo attendere dalla nostra esistenza per poterle assegnare un valore? Dignità? Qualità? E’ una scelta difficile che in alcuni casi può addirittura diventare drammatica. Ma è una scelta che diventa spesso necessaria.

A questo punto diventa essenziale il valore che deve essere assegnato all’autonomia della persona, perché questa autonomia esprime la capacità e quindi il diritto di scegliere in modo razionale la propria condotta di imporre un certo corso ai propri desideri e alle proprie inclinazioni  attraverso un volere capace di indirizzarli alla luce di una visione ideale di sé, alla ricerca di quella identità particolare che ciascuno di noi vuole realizzare.

L’autonomia è dunque il punto centrale della riflessione bioetica sull’uomo, il principio secondo il quale il valore delle scelte personali ha la sua valenza morale indipendentemente dai contenuti, nei limiti in cui le scelte derivano dall’autonoma deliberazione e decisione degli individui.

L’autonomia può essere diritto alla libertà sociale o valore di realizzazione (Anton Leist). La prima innesca meccanismi di tutela e impone il rispetto delle scelte altrui come vincolo nelle relazioni sociali. La seconda è il pilastro su cui fondare il senso della propria vita. L’autonomia è un valore in sé indipendentemente da ogni altro bene che procura e una scelta personale non può essere subordinata e delusa per nessuna altra motivazione che agli occhi altrui appaia più rilevante. Solo in questo modo si accetta il dominio dell’uomo sulla sua vita.

Dunque, siamo padroni della nostra esistenza, fino al punto di decidere di non lasciarla continuare quando ci concede solo sofferenza e quando ci ha privato di tutta la dignità della quale potevamo disporre.

Vorrei anzitutto ricordare a tutti che il concetto di dignità, quello che ognuno di noi intende per dignità, è assolutamente personale, non ci può essere insegnato dagli altri.

L’origine della parola è oscura, ricalca tra l’altro la parola greca assioma, che aveva un duplice significato. In modo molto generico indica una condizione di nobiltà morale nella quale l’uomo si trova soprattutto in ragione della sua stessa natura umana e insieme fa riferimento al rispetto che per tale condizione gli è dovuto dagli altri e che egli deve a se stesso. Ma si può pensare alla dignità anche come una sorta di cenestesi dello spirito, ci rendiamo conto di averne una e riusciamo finalmente a valutarne l’importanza nel momento in cui viene ferita o minacciata. Che cosa poi ciascuno di noi intenda per dignità del morire dipende grandemente da come abbiamo interpretato e realizzato la dignità della nostra esistenza. Immaginate un uomo che per tutta la sua vita si è adoperato perché ai suoi cari giungesse una certa immagine di sé, e che questa immagine abbia cercato di rivestirla sempre e soprattutto di dignità. Il pensiero di vedersela strappare di dosso, questa veste misericordiosa, nel momento della sua morte, l’idea di lasciare ai figli e alla moglie come ultima immagine quella di un uomo privo di un qualsiasi controllo sul proprio corpo, completamente affidato agli altri, soffocato dal proprio vomito, sepolto dalle proprie feci, annegato dalle proprie urine, mortificato dall’effetto dei farmaci, umiliato da chi tenacemente continua a violentarlo nutrendolo artificialmente, può essere intollerabile proprio perché incompatibile con  il suo senso della dignità. Voi, nel nome di un dio al quale probabilmente lui ha smesso di credere o non ha mai creduto,  potrete proibirgli di andarsene in un modo più decoroso e rapido, ma non potrete impedirgli di maledirvi.

Il secondo problema riguarda la possibilità di trovare mediazioni utili su questi temi così difficili e complessi. Io credo che gli interlocutori esistano e siano le persone religiose che riescono a discutere sulla base di principi razionali e laici, rinunciando all’idea di essere assistiti da una verità che sta dietro di loro e che illumina loro la strada. A queste discussioni non possono partecipare preti, sacerdoti e cultori della metafisica, poiché l’esistenza di un dio, che è l’unico sostegno delle loro ipotesi, è una tesi interessante ma impossibile da dimostrare e rimarrà per sempre, per molte persone come me, una romantica menzogna.

Resta un problema – in realtà i problemi che restano sono tanti, devo fare inevitabilmente una selezione – che posso definire come la rinuncia volontaria alla propria dignità.

Se siamo i governatori del nostro corpo, se siamo in pieno diritto di disporne, è possibile che le scelte che facciamo siano contrarie a quello che è considerato il comune senso della dignità della persona. Possiamo ad esempio decidere di vendere una parte del nostro corpo. Possiamo affittarlo. Possiamo prostituirci. E’ ancora possibile in questi casi affermare che si tratta di scelte fatte secondo i principi di un concetto personale della dignità, diverso da quello della comunità, o dobbiamo ritenere che quelle scelte implicitamente concedano agli altri il diritto di intervenire per proteggere il nostro corpo, con divieti e sanzioni?

Secondo me non è possibile immaginare un intervento dello Stato che intenda salvaguardare la disunità del mio corpo – dignità intesa secondo un sentimento generale – e mi proibisca di vendere un rene, di affittare il mio utero o di fare una fellatio a un vecchio maiale

Se quello stesso Stato non si è preoccupato prima (prima!) di assicurarmi una esistenza di accettabile qualità ( il che significa educazione, sicurezza, lavoro, possibilità di essere membro di una società civile e giusta) e a questo diritto ha palesemente rinunciato.

E’ vero però che al cessare della mia esistenza, nel momento in cui abbandono – volontariamente o involontariamente – quel guscio che è stato mio e nel quale ho abitato fino a quel giorno, il mio diritto di disporre del mio corpo inevitabilmente viene a mancare. Questo però è vero solo in teoria. In pratica non possiamo dimenticare tutti i valori simbolici che al quel corpo sono stati assegnati.  Questo è naturalmente uno degli argomenti prediletti dall’antropologia, ma non è poi così difficile immaginare quanto conti quel corpo per tutti coloro che l’amavano quando era abitato e che significato avesse per me, di conseguenza, quando immaginavo le conseguenze del distacco. Continuare a nutrirlo per legge, degradando oltretutto a sostentamento vitale di base un trattamento sostitutivo vicariante. Significa offendere questi sentimenti gratuitamente, senza la seppur minima ragione logica, contraddicendo in molti casi i desideri esplicitamente espressi dall’estinto che aveva immaginato ben altro rispetto per quello che è per lui ancora “la dignità del corpo”.  Possiamo discutere sul momento in cui quell’abbandono è certo al di fuori di ogni dubbio, ma questi sono problemi che dobbiamo affidare alla medicina, filosofia e religione non c’entrano.