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Se fossi il Buondio2020-03-31T11:17:28+02:00

Se fossi il Buondio

Luglio 2008

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Leggo il Corriere della Sera da molti anni e ho resistito imperterrito al suo ondivagare politico, alle sue cadute di stile e di gusto e persino ad alcuni atti di maleducazione nei miei confronti. Una lettera come quella di Adriano Celentano sul caso Englaro, però, non l’avevo mai vista pubblicare. Penso che se fossi il Buondio mi sentirei in dovere di scrivere due righe all’autore della nefasta missiva (“la ringrazio per l’affettuosa collaborazione, purtroppo ragioni di forza maggiore mi costringono a rinunciare ai suoi servizi ………”).

Non ce l’ho con Celentano, non ci mancherebbe altro, ce l’ho con chi ne pubblica le confabulazioni e ce l’ho con quella moltitudine di cittadini che per la semplice ragione di essere convinti dell’esistenza, da qualche parte, di un misterioso e poco benevolo essere supremo, vogliono imporre ad altri (altrettanto numerosi) cittadini che, per fortuna o per disgrazia, non hanno il dono della fede, una serie di impressionanti limitazioni (alla loro libertà, ai loro diritti, alla loro dignità) sulla base di una improvvisata, improbabile, querula razionalità. Parliamone.

Ha scritto Giovanni Boniolo che se si vuole discutere di queste cose è anzitutto necessario distinguere vita da esistenza e inizio e fine della vita da inizio e fine dell’esistenza. Le definizioni ci dovrebbero aiutare a capire: una cosa è vivente se è caratterizzata da processi biochimici di natura metabolica che attraverso l’utilizzazione di energia esterna permettono la costruzione, il mantenimento e – infine – la distruzione della sua struttura fisica e ne condizionano il comportamento. L’esistenza indica invece l’intera vita di una specie biologica, o un periodo di questa vita, o la vita di un membro di questa specie, cui è stato attribuito valore. Il quesito fondamentale, la domanda che prima o poi tutti si pongono è dunque a chi appartengono vita ed esistenza. Se si tiene conto delle definizioni, la vita non è di nessuno, è e basta; a chi appartenga l’esistenza dipende invece dal punto di vista da cui le si attribuisce valore, perché è solo a seconda della quantità di questo valore che ci preoccupiamo del suo destino.

Da uomo laico, sono interessato ad essere libero di esistere, perché da questa libertà ne discendono altre, come quella di scegliere modo e momento di porre fine alla mia esistenza: perché il problema di un uomo laico è comunque sempre e soprattutto la libertà, se è vero che la laicità rappresenta l’atteggiamento intellettuale di chi considera essenziale la libertà di coscienza, intesa come libertà di credenza, conoscenza, critica e autocritica.

Su questo tema, a chi appartenga la nostra esistenza ci riveliamo per quello che siamo, degli stranieri morali. Se l’esistenza non è nostra, se ci è stata donata, prestata o data in enfiteusi, dobbiamo risponderne a qualcuno. Se è nostra, abbiamo diritto di disporne, compatibilmente con i debiti che abbiamo contratto con la società: perché se non esiste un traghettatore con il quale cercare un accordo, il problema è unicamente nostro, ce la dobbiamo sbrigare da soli.

Ma qual è l’elemento più importante della nostra esistenza, quello al quale attribuiamo il maggior valore? La vita in sé, perché sacra e inviolabile e che dobbiamo rispettare e accettare comunque sia, qualsiasi cosa ci faccia, senza poterla ritenere responsabile delle nostre sofferenze? O possiamo apprezzarla diversamente e valutarla in rapporto a quanto ci concede? E cosa ci aspettiamo da lei per poterle assegnare un valore? Dignità? Qualità? E’ una scelta complessa e non facile, l’unica cosa certa è che non c’è possibilità d’accordo su questo tema tra credenti e non credenti: è qui che entrano in campo le isole per stranieri morali perché ognuno di noi deve poter scegliere in assoluta libertà e lo Stato questa libertà la deve garantire. L’alternativa, il prezzo che potremmo pagare è il conflitto sociale, la guerra di religione.

Quando cerchiamo un rapporto “umano” con le altre persone, quando entriamo in comunicazione con loro, lo facciamo chiedendo alle nostre esistenze di dialogare. Non credo che qualcuno di noi sia interessato o dia particolare rilievo a come funziona l’intestino dei nostri amici: essi esistono perché sono in grado di pensare, comunicare, entrare in relazione con gli altri, soffrire e gioire, mettere in campo le proprie capacità cognitive: quando tutte queste capacità scompaiono per sempre, noi siamo costretti ad ammettere che il nostro amico ha abbandonato il suo corpo, non lo abita più. Che in quel corpo ci sia ancora vita, che l’intestino abbia ancora movimenti peristaltici, che produca gas e feci, che la barba continui a crescere, sono tutti epifenomeni della presenza di barlumi di vita ai quali non attribuiamo alcun valore, eventi che non ci aiutano neppure a considerare con minor dolore il fatto primario, il nostro amico ci ha lasciato, in quel corpo non abita più nessuno. Di quel contenitore vuoto la società può fare molte cose: è auspicabile che si comporti seguendo i desideri e le istruzioni espressi in vita dal nostro amico.

Il rifiuto delle cure, se espresso da una persona capace di intendere, è un diritto protetto e garantito dalla Costituzione, non può essere messo in dubbio. Nel caso di Eluana Englaro si tratta però di sospendere cure già in atto, e il problema si connota immediatamente per l’interferenza di argomenti pretestuosi e sgradevoli. Poiché nessuno ha il coraggio di dichiarare che esiste per Eluana una benché minima probabilità di ritorno allo stato cosciente ( anche se di tanto in tanto qualcuno ha la faccia tosta di buttar là l’ipotesi di un sempre possibile miracolo), l’oggetto del contendere è diventata l’interpretazione del significato dell’alimentazione e dell’idratazione artificiali: atti medici o forme di assistenza ordinaria?

Il Comitato Nazionale per la Bioetica ha votato a maggioranza (18 voti contro 8) un documento nel quale si afferma che nutrire e idratare le persone in stato vegetativo persistente costituisce una forma di assistenza ordinaria di base e proporzionata, un segno di civiltà, un atteggiamento che assume un forte significato umano (immagino che entri come sempre in ballo la pietà, i cattolici sono monomaniaci) e simbolico, qualcosa che ha a che fare con la dimostrazione di “sollecitudine per l’altro”. Dunque, sospendere l’alimentazione e l’idratazione artificiali ai pazienti in stato vegetativo persistente (come la signora Schiavo, che tra le altre cose non aveva praticamente più il cervello, come ha dimostrato l’autopsia) è illecito.

I riferimenti bibliografici dei cattolici del CNB sono sempre gli stessi, mai una sorpresa: in questo caso ci rimandano alla Carta degli operatori sanitari ( Pontificio consiglio per la pastorale per gli operatori sanitari, Città del Vaticano 1994) nella quale si afferma che l’alimentazione e l’idratazione rientrano tra le cure normali sempre dovute, all’ammalato, tranne nei casi in cui non risultino “gravose per lui” (e quando mai potrebbe accadere? Queste cure possono essere considerate forme di generico accanimento, non di accanimento terapeutico). Questa posizione del magistero ribadisce quella espressa nella Dichiarazione sull’eutanasia (Sacra congregazione per la dottrina della fede, 1980) e l’apparente scappatoia è messa lì per bellezza, non ha significato pratico.

Qui si pone un problema, un problema molto serio. Tutto il mondo scientifico, tutte le società mediche che si occupano di questi temi sostengono che alimentazione e idratazione artificiale sono veri e propri atti medici che sottendono sofisticate e complesse conoscenze scientifiche e che solo i medici possono elaborare e mettere in atto. Chiedo dunque a tutti questi esperti di fisiopatologia della nutrizione: chi vi dà il diritto di contestare la medicina e la scienza? Ritenete forse che ubbidire alle istruzioni del vostro Magistero giustifichi questa vostra sgradevole e odiosa arroganza? Chi vi autorizza a pontificare (!) su temi dei quali non sapete assolutamente niente, con l’unico scopo di rivestire di sentimentalismi sciropposi le vostre personali opinioni? Questa è materia di sofferenza, che merita compassione da parte di tutti, non vi sembra odiosa la sceneggiata con le bottiglie d’acqua minerale?

Lo so, mi sono arrabbiato, non avrei dovuto: ma tollerare un Celentano mi è ancora possibile, mille Celentani no, proprio non ce la faccio. E poi questa opinione di molti cattolici sul significato dell’alimentazione, il fatto che si indichi, nel darmi da mangiare e da bere (anche nel modo così terribilmente tecnologico dei reparti di rianimazione), l’espressione del riconoscimento della mia umanità, mi insospettisce un po’. Non credo che accetterò mai un invito a cena da parte di Francesco D’Agostino, non vorrei che decidesse di nutrirmi per via intravenosa (o peggio).