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CONSENSO INFORMATO – Dialogo con Filippo Maria Ubaldi e Maurizio Mori2018-12-15T11:28:47+02:00

CONSENSO INFORMATO – Dialogo con Filippo Maria Ubaldi e Maurizio Mori

Aprile 2015

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Breve introduzione. Questa è la storia di una richiesta inevasa, di un civile confronto tra medici che la pensano diversamente e di una questione che può sembrare di lana caprina ma che invece, a mio avviso, riguarda il diritto di avere diritti e la nostra libertà di prendere le decisioni in tutte le materia che ci riguardano una volta che siamo stati debitamente informati e che siamo certi che le nostre decisioni non faranno del male ad altre persone. Comincia con una richiesta di una signora quarantenne, una donna colta e informata, che mi chiede di poter mettere via i suoi gameti per un futuro impiego: non ha al momento un uomo col quale condividere un progetto di genitorialità, vuol fare il possibile per non essere sorpresa dalla menopausa prima di trovarlo. Ha una obiettività ginecologica negativa, FSH inferiore a 10, ormone antimülleriano molto basso, cicli mestruali ancora perfettamente regolari.  Le spiego – e per farlo impiego il tempo necessario, cioè molto – che si tratta di una scelta che i medici, me compreso, sconsigliano, le probabilità di poter utilizzare in modo proficuo quegli oociti è (testuale) “più di zero ma vicino a zero”. Mi fa capire che questi non sono affari miei, ma suoi, e insiste nella richiesta. Preciso che ha capito perfettamente quello che le ho detto, non è donna da ignorare la statistica. A questo punto, ritengo di dover cercare di aiutarla: ne discutiamo e decidiamo che la cosa migliore per lei è di eseguire i prelievi a Roma, e le indico il nome del medico romano più noto ( e a mio avviso certamente uno dei più bravi) in questo campo, il dottor Filippo Ubaldi. Mi chiede di organizzarle un incontro e io delego questo incarico alla dottoressa XY (non vuole essere nominata) che telefona a dottor Ubaldi. La riposta di Ubaldi però è completamente negativa: secondo lui si tratta di una cosa che non deve essere fatta perché è “una presa in giro”, le probabilità di successo sono troppo basse.  Di qui lo scambio di lettere che accludo e l’opinione di un noto bioeticista, Maurizio Mori.

Gentile professor Ubaldi
La dottoressa XY mi ha riferito del dialogo che ha avuto con Lei e mi permetto qualche osservazione. Il tema sul quale Lei ha espresso una precisa posizione è spesso oggetto di discussione in campo bioetico, soprattutto quando si affrontano  problemi di casistica, e le opinioni finali sono, diverse, tutte rispettabili e interessanti: adesso aggiungerò anche la Sua, che non avevo mai sentito prima ma che ha certamente una sua originalità. Mi permetta di riassumere il tema, in puri termini bioetici.

Credo che Lei sia d’accordo che la prima cosa sulla quale bisogna ragionare riguarda le probabilità di un successo, una cosa è se sono certamente nulle, altra cosa è se sono “più di zero, vicine a zero”. Questa differenza è fondamentale non per la conclusione e la scelta del comportamento, ma per stabilire il tipo di colloquio col quale informare il cittadino-paziente. In entrambi i casi, comunque l’informazione dovrà essere completa, comprensibile e semplice, e al termine sarà necessario accertarsi che non esistano equivoci.  Il secondo punto, che deve essere preso in esame quale che sia la conclusione personale nei riguardi delle probabilità di successo, riguarda la necessità di capire cosa significa per quel cittadino paziente vedersi aiutato a tentare un certo percorso o vederselo negato. Sono certo che Lei sarà d’accordo sul fatto che molte richieste di soluzioni praticamente impossibili vengono fatte sulla base di posizioni psicologiche particolari sulle quali non abbiamo diritto di intervenire. Potrei  farle pagine di esempi, mi limito a due: ci sono donne che si arrampicano su mura  di vetro e chiedono di tentare l’impossibile solo per dimostrare al proprio compagno di quali sacrifici sono capaci pur di riuscire  a mettergli un figlio un braccio, e ci sono donne che se non tentano l’impossibile ne avranno rimorso per tutta la vita. Pensa che la soluzione sia quella di mandarle da uno psichiatra? Mi piacerebbe esser presente quando glielo dice. Secondo esempio: ci sono donne per le quali “metter via la fertilità” per un futuro impiego prima di diventare sterili (quale che sia il motivo, fisiologico o patologico di questa sterilità) significa continuare ad avere un minimo di sicurezza, a credere nel domani, ad avere uno scopo, e se le probabilità sono più di zero, vicino a zero, che importa, perché non potrebbero essere proprio loro…. Leggo nella letteratura medica che molte donne che mettono da parte le proprie uova non andranno mai a riprendersele, ma vivranno meglio un tempo della loro vita per aver fatto quella scelta.

Adesso vediamo quali possono essere le risposte della medicina. Sono abbastanza pragmatico da considerare giusto che un Ospedale non accetti probabilità “più di zero, vicine a zero”, la società deve fare delle scelte e questi problemi psicologici sono un lusso per la medicina sociale che nessuno si può permettere. E la medicina privata, quella alla quale la gente versa un obolo per farsi curare? Posso immaginare una serie di soluzioni, compresa la sua, ma faccio fatica a pensare di poter dire a una di queste donne, dopo averle spiegato quali sono le probabilità di un successo, che mi muovo solo per probabilità elevate. E poi, quanto elevate? E come posso spiegare  le ragioni del mio rifiuto? Posso dirle che “non voglio prenderla in giro”, che mi pare il motivo che lei ha chiamato in causa nel suo dialogo con la dottoressa XY? Perché dovrebbe essere valido il suo criterio che non si eseguono terapie se non c’è almeno il, diciamo, 10% di probabilità di successo, e non quello di una persona che la sofferenza costringe a pensare che basta una probabilità su un milione per sottoporsi alle sue cure? O ritiene di poterla convincere che le sue sofferenze hanno una origine psicologica  e che qualche anno di psicoterapia…..E se posso chiederLe ancora una sola cosa delle molte che mi vengono in mente: non è che lavoriamo per la nostra casistica e tendiamo a rifiutare i casi che per la nostra casistica sono deleteri?

Spero che sia chiaro che non respingo la sua scelta né il modo di descriverla, ho solo qualche perplessità. Perplessità che aumentano se penso al fatto che la richiesta di un trattamento Le veniva da me, un suo collega, e che adesso questo suo accenno alla “presa in giro” mi ronza un po’ nelle orecchie. Le confesso che se non avessi per Lei la grande considerazione che in realtà nutro, mi sarei un po’ adontato.
Comunque, capisco che Lei è un uomo con le idee molto più chiare delle mie, e non tornerò sull’argomento. Ma io, da laico, coltivo la religione del dubbio, è evidente che non frequentiamo la stessa chiesa. Niente di male.
Grazie comunque per la sua cortesia
Carlo Flamigni

—-Messaggio originale—-
Da: xxx.zz@hhh.com
Data: 15-apr-2015 21.25
A: “xxx.yyy@fff.it”< xxx.yyy@fff.it >
Ogg: Re: lettera prof. Flamigni

Gentile Prof Flamigni,
mi fa molto piacere leggere la sua lettera anche se devo dirle che mi sorprende, come mi sorprende la formalità, e il “professore” che lei sa benissimo che io non sono. Se non la conoscessi e la stimassi così tanto la sentirei come una presa in giro e se così fosse sinceramente ci rimarrei molto male.

Il dialogo con la dottoressa XY questa mattina – velocissimo tra una paziente che usciva ed una che attendeva di entrare per una consulenza – non deve vederlo come offensivo nei suoi confronti (lungi da me questo, non mi sognerei mai di dirle o farle qualcosa di offensivo), e’ stato su questo tipo: non ritengo giusto fare una preservazione della fertilità (considerando anche il fatto che noi centri privati in teoria non potremo nemmeno farla, in accordo a quello che dice la Morresi e quindi il Ministero in quanto non possiamo essere banche di cellule, ma possono esserlo solo i centri pubblici) in donne dopo i 38-39 aa soprattutto se hanno un valore di AMH che a quanto mi ha detto la dottoressa XY è 0,0 qualcosa, valore questo che vuol dire, come lei sa benissimo, che al massimo si può recuperare uno o due ovociti. Ovviamente questo concetto, che tra l’altro è esattamente identico a quello che pensa la  dottoressa  XY, è stato espresso in due minuti e certamente se avessi avuto la paziente davanti glielo avrei ampiamente articolato e giustificato e discusso. Volevo soltanto dire alla dottoressa quello che pensavo ed evitare alla sig.ra di fare un ulteriore colloquio per lei molto frustrante, a detta delle reazioni stizzite avute a seguito del colloquio con la dottoressa stessa.

Non ho nemmeno lontanamente le sue conoscenze bioetiche né tantomeno la sua cultura, ma non credo sia giusto in quanto non credo sia deontologicamente corretto fare un trattamento medico quando le probabilità successo (di ottenere un bambino che nasca) sono uguali o inferiori ai possibili rischi legati al trattamento stesso (prelievo ovocitario). A 42 aa (così la dottoressa mi ha detto) la probabilità di avere una blastocisti cromosomicamente sana, che quindi abbia un 50% di possibilità di dare un bambino è circa 1 a 6-8. Considerando che in media ci vogliono 10 ovociti per ottenere 3 blastocisti, per sperare di trovarne 1 cromosomicamente sana ci vogliono più di 20 ovociti. Se poi consideriamo un 10-15% di rischio di non sopravvivenza ovocitaria dopo lo scongelamento, il numero di ovociti da crioconservare dovrebbe salire forse a 25 per poter trovare una blastocisti cromosomicamente sana, ossia in teoria 50 ovociti per “avere” un bambino.

Se io sento di una paziente o vedo una paziente che in un centro privato a 42 aa con un AMH di 0,01 (quindi in perimenopausa) le hanno fatto una preservazione della fertilità io, personalmente, penso che quel medico non sia un medico corretto, sia un poco di buono, come diversi ne conosciamo e nei confronti dei quali lei e la comunità scientifica si è battuta contro. Per tutta la vita lei si è battuto contro i “fivettari” e i “marchettari” (come mi sono sentito appellare da un oncologo Ordinario della più grande Università europea perché una ragazza di 29 aa a cui era stato diagnosticato un cancro della mammella voleva congelare i propri ovociti prima dei trattamenti oncologici) sostenendo e dando esempio sull’eticità del comportamento nella vita e nella Medicina della Riproduzione e lei per tutti noi è stato il maestro di scienza e di comportamento.

Io nella mia pratica di medico cerco di comportarmi, e non so se sempre ci riesco, secondo la mia coscienza, e le dico che mi troverei molto a disagio farmi pagare per un qualcosa che scientificamente so offra una possibilità di successo vicino allo zero (zero ovviamente è solo quando la donna è in menopausa) e più o meno sullo stesso livello di avere una complicanza. E mi creda che reputo non corretto fare il trattamento non certo per la casistica. Anche perché i pochi casi di preservazione della fertilità fatti non rientrano certo in nessuna casistica o in nessuno studio scientifico. Il fatto di prendere in giro una paziente io lo considero, ma molto probabilmente sbaglierò, come dare una speranza di un qualcosa che nella realtà praticamente non esiste, e se lei dice che è la speranza che serve a queste donne, che succede quando al momento della verità verrà disattesa la loro speranza? Glielo dico io poiché purtroppo in un paio di occasioni si è verificato questo problema. Sono stato accusato di essere disonesto ed un senza cuore, nonostante le ore di spiegazioni e i consensi informati firmati. O che succede se a seguito del prelievo ovocitario ha una complicanza emorragica importante o infettiva? La informo che ho avuto un problema giudiziario 15 aa fa in seguito ad un piosalpinge bilaterale dopo aspirazione di un follicolo su ciclo spontaneo. Pensi se fosse successo a seguito di una preservazione della fertilità, in una donna di 42 aa in perimenopausa, in un centro privato dove la preservazione della fertilità è vietata secondo il Ministero.
Infine, io sicuramente non ho le idee più chiare delle sue, e se come sono convinto che la sua parrocchia sia un comportamento secondo scienza e coscienza, io credo di essere della sua stessa parrocchia.

Un cordiale e affettuoso saluto

_________________________________
Filippo Maria Ubaldi MD MSc
Clinical Director
GENERA, Centers for Reproductive Medicine
Clinica Valle Giulia – Rome
Poliambulatorio Salus – Marostica (VI)
GENERA Umbertide (PG)
Clinica Ruesch – Naples

www.generaroma.it

Il 16/Apr/2015 10:34, ” xxx.yyy@fff.it ” < xxx.yyy@fff.it > ha scritto:

Caro Ubaldi, desidero chiudere qui una polemica che sta diventando fastidiosa. In realtà credevo che Lei avesse un incarico di insegnamento, non c’era malizia nel chiamarla professore. Quanto alla sua visione clinica dei fatti sono perfettamente d’accordo con lei, tranne che su una cosa: Lei non ha il diritto di stabilire dove io debbo porre i miei limiti al rischio, sono fatti miei. Se sono una donna cardiopatica e decido di avere una gravidanza, sono fatti miei. Esiste, tra i diritti ai quali abbiamo diritto, quello alla autodeterminazione, e Lei deve starne fuori. Può decidere di non aiutarmi, ma non può, proprio non può, criticarmi.  E i problemi giudiziari, come la incomprensione della gente e le calunnie dei colleghi non c’entrano niente con la bioetica, sono un danno collaterale (e basarsi su questi rischi per stabilire le nostre scelte non è moralmente ineccepibile).   La valutazione delle probabilità di rischio sulla quale lei basa le sue scelte fa di lei un ottimo sterilologo – penso il migliore da queste bande – ma non un buon medico. Se ci pensa bene, siamo di due chiese diverse. Ma va bene lo stesso.
Cordialmente
Carlo Flamigni

PS Vorrei mettere la nostra corrispondenza sul mio sito, me lo consente?

—-Messaggio originale—-
Da: : xxx.zz@hhh.com
Data: 16-apr-2015 11.31
A: < xxx.yyy@fff.it >
Ogg: Re: risposta prof. Flamigni

Caro Professore,
si questa polemica inattesa sta diventando fastidiosa e chiudiamola.
A me basta che lei sia concorde sulla mia visione clinica. Io non sono un bioeticista ma un clinico, medico, ginecologo che si occupa da sempre di Medicina della Riproduzione e se proprio vogliamo guardare l’altra parrocchia di altrettanto convinti bioeticisti io per loro non sono solo un cattivo medico ma addirittura “satana”. A me, visto la stima che nutro in Lei, basta che Lei sia perfettamente d’accordo con la mia visione clinica, e se pure la sua parrocchia, mi giudica un cattivo medico, dovrò pensare e riflettere che sono realmente un cattivo medico, e non so più allora a che parrocchia appartenere.

Cordialmente
Filippo Ubaldi
PS: certamente le consento di mettere sul suo sito la nostra conversazione.
___________________________________
Filippo Maria Ubaldi M.D., M.Sc.
Clinical Director GENERA
Centers for Reproductive Medicine
Clinica Valle Giulia
Rome, Italy

Website: www.generaroma.it

Conclusioni

Il 10 ottobre 2015 questo caso è stato discusso a Torino, in una sezione di un Convegno dedicato al Consenso informato. Ne abbiamo parlato, esponendo le nostre ragioni, Filippo Ubaldi ed io, chairman Maurizio Mori.

Ubaldi è stato molto bravo, efficace, pragmatico, molto concentrato sull’etica medica e sui valori professionali del medico; credo che molti medici presenti siano stati colpiti dall’enfasi con la quale ha illustrato i rischi che in ogni caso questa donna avrebbe corso e che dovevano essere considerati comunque eccessivi se si teneva conto delle probabilità di successo (che ha stabilito-esagerando un po’ e dimenticandosi di dire che comunque stava illustrando una curva di Gauss  e non un numero fisso-pari al tre per mille).

Personalmente ho deciso di non entrare in discussione e di affidarmi solo ai motivi teorici, ma i miei  ragionamenti non hanno fatto breccia. Quasi tutti gli interventi sono stati caratterizzati da un paternalismo insopportabile e questo da parte di interlocutori di ambo i sessi: una ragazza laureata in medicina ha avuto il fegato di chiamare in ballo i “limiti naturali”, nei confronti dei quali bisogna rassegnarsi. Insomma, la dignità di questa povera ragazza, che chiedeva solo di non far morire le proprie speranze ed era preparata a pagare, per questo, qualsiasi prezzo le fosse chiesto, è andata in frantumi. Tra l’altro sono convinto che tutte queste brave persone, che hanno fatto resuscitare un anti-femminismo che consideravo defunto, sono convinte delle proprie ragioni e pensano di essere laiche e democratiche. Una sola conclusione, comunque utile: a Torino non torno.

Maurizio Mori
Su una diversità di posizioni circa il consenso informato in medicina riproduttiva

  1. I fatti e lo scopo del presente contributo.

D’accordo con l’interlocutore Carlo Flamigni intende mettere sul proprio sito lo scambio di lettere intercorso col collega Filippo Maria Ubaldi circa un “caso” concreto sollevato dalla richiesta di una paziente che, in un senso, è esemplare di molte altre situazioni simili. I fatti inferibili dalla corrispondenza sono i seguenti: una signora quarantenne si è rivolta a Carlo Flamigni chiedendogli di voler procedere a un intervento di conservazione della propria fertilità. Dopo aver considerato il quadro clinico, Flamigni ha spiegato con chiarezza alla signora che in tali casi la probabilità di successo è “più di zero, ma vicina allo zero”. Ciononostante la donna insiste, dichiara di essere disposta a sostenere le spese, e chiede indicazioni al riguardo. Flamigni le consiglia di rivolgersi al dr. Ubaldi, che sia logisticamente che tecnicamente avrebbe potuto soddisfare al meglio la richiesta in questione. E’ lo stesso Flamigni, su richiesta della signora, che fa chiedere a Ubaldi da una sua collaboratrice, che chiamerò la dottoressa XY, la disponibilità a eseguire il prelievo degli oociti per la crioconservazione: Il dottor Ubaldi però non ritiene di dover accettare questo incarico perché, sono parole sue, “non vuole prenderla in giro”, essendo le probabilità di successo irrisorie e pressoché inesistenti. Informato, Flamigni scrive subito una mail a Ubaldi manifestando il proprio fermo dissenso circa le motivazioni di questa decisione. Ubaldi risponde subito e nel giro di una giornata si chiude lo scambio di lettere sotto riportate.
Mi è stato chiesto di fare qualche considerazione sul problema. Accolgo volentieri l’invito. I due interlocutori non sono i soliti “fivettari” di turno disposti a tutto pur di aumentare il numero degli interventi, ma sono professionisti moralmente rispettabili, riflessivi, di valore e di grandi capacità scientifiche. Ciononostante sono in serio disaccordo: ciò significa che la situazione pone problemi che richiedono una risposta. Si potrebbe darla assumendo il compito del giudice che in quattro e quattr’otto stabilisce chi ha ragione e chi torto. Non credo sia opportuno percorrere questa strada, perché il caso proposto è un’occasione d’oro per sviluppare quell’analisi filosofica che, sin dalle origini, ha animato la bioetica.
Oggi, la riflessione di etica biomedica si è inflazionata (moltissimi pretendono di essere bioeticisti) e si è frammentata in numerosi rivoli ciascuno dei quali pretende di valere di per sé: in forza del proprio aggettivo qualificante (etica clinica, globale, ecc.).  In questa situazione può essere opportuno tornare a fare quell’umile lavoro di analisi filosofica del “caso” che tende non già a scodellare la soluzione, ma a cercare di far emergere i punti che stanno alla base del contrasto. Una maggiore consapevolezza al riguardo può poi contribuire a far crescere il dibattito, con l’auspicio che la maggiore distanza acquisita consenta agli interlocutori un dialogo più sereno e rispettoso, e forse favorisca anche l’individuazione della soluzione più adeguata al caso in questione e di altri simili. In questo senso, spero di dare riuscire a mostrare l’utilità pratica e sociale dell’analisi filosofica.

Il primo aspetto della controversia: la rapidità degli eventi e delle decisioni.

Un primo tratto della corrispondenza in esame riguarda la rapidità con cui si sono susseguiti eventi e decisioni, nel giro di un solo giorno i due medici si scambiano lettere (sono accluse a questo documento) e  giungono alla conclusione di non riuscire a trovare un accordo. Interessante anche il fatto che in una sua lettera il dr. Ubaldi osservi che il suo dialogo con la dottoressa XY  è stato velocissimo, “tra una paziente che usciva ed una che attendeva di entrare per una consulenza”, cosicché tra loro un concetto importante “è stato espresso in due minuti”. Si tratta di una condizione normale che può scusare eventuali inciampi, e Flamigni “non deve vederlo come offensivo nei suoi confronti”.
Come si vede, i tempi in cui il medico deve agire, valutare e decidere sono molto stretti: il medico ha poco tempo per parlare coi colleghi, per rileggere quanto scritto e per prendere le decisioni. La corrispondenza tra Flamigni e Ubaldi si sviluppa e si conclude nell’arco di una (sola) giornata e la decisione viene presa in pochi secondi.
Ben diversa è la situazione decisionale di altri professionisti, i quali invece possono contare su maggiore distensione e tranquillità. Per esempio in ambito giudiziario i professionisti (avvocati, magistrati, ecc.) hanno settimane e mesi per ponderare i vari aspetti della questione in campo e eventualmente studiarne gli aspetti meno conosciuti. Il medico, invece, non ha tutto questo tempo a disposizione e deve essere pronto nella risposta. In un senso, il medico deve agire e rispondere d’istinto e in modo irriflesso. Ciò significa che deve avere incorporato in sé lo schema di risposta da prima: dall’educazione ricevuta e dall’esperienza fatta, in una parola dal bagaglio acquisito.
La consapevolezza di quest’aspetto riporta l’attenzione sull’importanza degli insegnamenti circa l’etica impartiti al giovane medico nel periodo della formazione (università, tirocini, ecc.) e anche dalla famiglia nel suo sviluppo formativo. Si dovrebbe far riflettere più approfonditamente sul segno che lasciano (o che non lasciano) le esperienze fatte nei periodi cruciali, in cui il giovane è ancora aperto all’imprinting culturale riguardante l’etica e i valori. Infatti, per via del turbinio dell’attività clinica, quasi mai il medico avrà poi il tempo di tornare a rivedere gli schemi etici acquisiti o di rivalutare le decisioni prese e rimeditare su di esse. Infine, si dovrebbe pensare allo spazio da riservare nelle Scuole di medicina a un insegnamento filosofico dell’etica atto a favorire l’acquisizione di una prospettiva più ampia e astratta che consenta al medico di valutare le proprie scelte anche in base a schemi più ampi di quelli invalsi nell’ambito professionale.

Il secondo aspetto della controversia: distinguere i tanti aspetti “marginali” dal punto “centrale”.

Un secondo tratto della situazione da considerare riguarda il modo in cui vengono affrontati i problemi posti dalla richiesta della signora. Sempre nella vita siamo assaliti dai più diversi input, e compito prioritario consiste nell’individuarli, nel distinguerli con precisione, e nel dare loro un ordine gerarchico. Il diverso modo di classificarli e di coordinarli è alla base delle diverse  prospettive. Ciò vale anche quando l’input è generato da un “problema”, cioè quella sorta di ostacolo che è fonte di molti messaggi. Si tratta di vedere come Ubaldi e Flamigni individuano, classificano e coordinano le sollecitazioni lanciate dalla richiesta della signora.
Di fronte al problema in esame la prima e più immediata risposta del dr. Ubaldi è di non ritenere “giusto (corsivo aggiunto) fare una preservazione della fertilità (considerando anche il fatto che noi centri privati in teoria non potremo nemmeno farla, in accordo a quello che dice la Morresi e quindi il Ministero in quanto non possiamo essere banche di cellule, ma possono esserlo solo i centri pubblici)”. Ciò significa che la ragione per cui il dr. Ubaldi declina la richiesta è che non è moralmente giusto violare la normativa vigente: c’è un dovere morale di rispettare la legge (anche quando non condivisa). Può darsi che la nobile ragione etica appena ricordata sia affiancata da una (comprensibile) ragione prudenziale consistente nell’impegno teso a evitare per quanto possibile eventuali grane amministrative.
Dal punto di vista pratico le ragioni considerate sono quelle che immediatamente si presentano all’attenzione di chi ha la responsabilità di una struttura medica con molti collaboratori e famiglie a carico. Viene tuttavia da chiedersi quale sia il posto in cui vanno collocate, cioè se esse siano centrali ossia tali da dover essere affrontate per prime, o se invece esse siano marginali ossia da dover passare in seconda battuta.  Non credo ci sia un ordine gerarchico prestabilito e fisso, perché per stabilire se le ragioni addotte da Ubaldi siano centrali o marginali bisogna considerare diversi fattori, come per esempio quanto reale e incombente sia il pericolo di una sanzione amministrativa (che danneggerebbe il buon nome del Centro), quanto stringente sia il dovere morale di rispetto della legge, la possibilità di aggirarla, ecc.
Anche in assenza di una risposta precisa, le considerazioni fatte sono importanti perché ci rendono consapevoli del fatto che la risposta al problema varia a seconda che una data ragione sia affermata come centrale o marginale. Tenendo presente quest’aspetto, osserviamo che Ubaldi adduce anche altre ragioni a sostegno della propria decisione di rifiutare l’intervento, tra cui quella concernente il forte disagio derivante dal farsi pagare per un intervento le cui possibilità di successo sono scientificamente vicine allo zero. Oltre a quella riguardante il rispetto della normativa vigente, c’è anche una comprensibile e condivisibile ragione “di coscienza” riguardante l’etica del giusto compenso.
Le due individuate, tuttavia, non sono le uniche, perché Ubaldi ne mette in campo anche un’altra ancora: la rinuncia a un intervento in più è indicativa di quella serietà morale e scientifica che distingue gli operatori rispettabili dai tanti “fivettari” o “marchettari” presenti sulla piazza. A rafforzare quest’ultimo aspetto sta, infine, il ricordo di essere stato bollato in quel modo da un accademico importante per avere in passato acconsentito a una richiesta molto meno impegnativa e forse più nobile perché fatta in previsione di un trattamento oncologico che avrebbe mandato in menopausa la paziente, unito al ricordo dei guai giudiziari passati per un altro intervento. Un vecchio proverbio recita: “chi si è scottato con l’acqua calda ha paura anche della fredda”, e esso sembra fornire l’ultima ragione addotta da Ubaldi a sostegno della propria decisione: le esperienze passate lo portano a evitare di mettersi in situazioni che possono in qualche modo assomigliare quelle passate. Si passano guai seri per interventi minori, immaginiamo che cosa potrebbe succedere se qualcosa andasse storto “a seguito di una preservazione della fertilità eseguita per motivi “sociali”, in una donna di oltre 40 aa, in un centro privato dove la preservazione della fertilità è vietata secondo il Ministero”.
L’analisi fatta ha mostrato che Ubaldi ha messo in campo almeno quattro diverse ragioni che si embricano tra loro per giustificare il rifiuto dell’intervento. Ci si può chiedere se una di esse sia centrale e quale sia, o se invece esse siano tutte marginali. A una prima impressione esse sembrano essere tutte marginaliperché a ben vedere esse non bastano a giustificare la decisione di Ubaldi. Quella che appare essere più pesante è sicuramente la ragione riguardante il quadro giuridico, visto che questioni con effetto immediato pratico sono le più efficaci. Tuttavia, anche questa è marginale perché potrebbe essere contrastata osservando per esempio che sul piano giuridico l’interpretazione del Ministero è inadeguata e che è giunto il tempo di opporvisi: chi per primo inizia la battaglia, ne trarrà grandi benefici, e ciò potrebbe bastare a fugare ogni timore. Mutatis mutandis considerazioni analoghe potrebbero valere anche per le altre ragioni esaminate, e ciò conferma che sono tutte marginali.
Qualcosa di simile, ovviamente, vale anche per le ragioni addotte da Flamigni, come per esempio quelle concernenti le considerazioni psicologiche sulle “richieste impossibili” delle donne, quelle circa il criterio accettabile delle probabilità di successo, o circa l’automatico rifiuto dei casi deleteri per la casistica del Centro, o ancora quelle circa l’appartenenza a “parrocchie” diverse, ecc.
Per trovare la ragione centrale del disaccordo si deve procedere oltre e guardare altrove. Ma c’è una ragione centrale attorno a cui ruotano le altre, oppure si deve rinunciare a una visione unitaria e pensare piuttosto a una miriade di ragioni diverse tra loro sconnesse? Come riuscire a chiarire quest’aspetto?

Il terzo aspetto della controversia: l’individuazione del disaccordo centrale che  verte sulla diversa concezione della “scienza medica”.

Per dare una risposta agli interrogativi sopra posti è opportuno riepilogare i risultati conseguiti. Abbiamo visto che alcune delle ragioni addotte da Ubaldi sono marginali perché da sole non bastano a sostenere la posizione. Esse la rafforzano ove fosse stabilita da altre considerazioni, che sono quelle centrali. D’altro canto, marginale sembra essere anche l’idea di Flamigni circa la parrocchia d’appartenenza, dal momento che non è la fedeltà all’una o all’altra congrega il criterio dirimente il disaccordo in esame. Una conferma viene dalla dichiarazione di Ubaldi di essere stato estromesso dall’iniziale nucleo d’appartenenza.
Un punto solido di convergenza tra gli interlocutori sta nella condivisa fedeltà alla “visione clinica”, che sembra aver portato Ubaldi a essere visto dai suoi ex-coparrocchiani nientemeno che alla stregua di “satana”. Sempre questa convergenza costituisce la base della reciproca stima tra Flamigni e Ubaldi, senza la quale lo scambio di corrispondenza non sarebbe neanche iniziato. Pertanto, qui ci troviamo di fronte al pilone centrale e portante che per un verso consente il rapporto di collaborazione e di dialogo tra i due, e per l’altro alimenta il disaccordo tra loro. È bene precisare che questo disaccordo riguarda una questione importante ma specifica, e che non è un disaccordo totale del tipo che i due hanno nei confronti dei fivettari o di altri personaggi simili, disaccordo  che porta a evitare il più possibile rapporti di sorta con tali soggetti.
Una spia della parzialità del disaccordo, che ha origine come un ramo sul tronco della condivisa “visione clinica”, sta nel fatto che sin dall’inizio Flamigni descrive il caso in “termini bioetici”, mentre Ubaldi risponde di non avere adeguate conoscenze in materia e fa appello alla (più tradizionale) deontologia medica. Che cosa c’è dietro questa diverso modo di descrivere la situazione?  Perché per Flamigni l’aspetto bioetico è così importante da fagli dire che di fronte a esso passano in secondo piano i problemi giudiziari, l’incomprensione della gente e le calunnie dei colleghi? Che cosa intende Flamigni con “bioetica” in questo contesto?
L’ipotesi che subito si presenta alla mente riguarda la centralità del consenso informato dato dall’interessata. La bioetica come movimento culturale è infatti quel grande processo storico che ha mutato l’umore culturale diffuso in Occidente e portato in primo piano il consenso informato come fondamento della pratica clinica.  Una conseguenza di questo cambiamento riguarda proprio la “visione clinica” che, come abbiamo visto, è condivisa dai due per quanto riguarda il metodo scientifico: per entrambi la clinica medica è basata sui dati fattuali e sul ragionamento logico. Resta tuttavia da chiarire se il metodo scientifico esaurisca questa comune visione clinica, o se essa abbisogni di qualcos’altro che non rientra nei canoni scientifici: qualcosa che può essere classificato come “a-scientifico” o che riguarda i “valori”. È su quest’ultimo punto che si presenta il disaccordo tra Flamigni e Ubaldi, la cui radice sta nel diverso modo di considerare il consenso informato e i valori da esso apportati.
Se le considerazioni fatte hanno inquadrato il problema, allora possiamo cercare di individuare il punto in cui sorge il disaccordo tra le due prospettive. Sappiamo che Flamigni ha spiegato bene alla signora che le probabilità di successo dell’intervento di conservazione della fertilità sono “più di zero, ma vicine allo zero”. Ma la signora insiste, dichiara di essere pronta a coprire i costi richiesti, e Flamigni rispetta la decisione. Sa benissimo che dal punto di vista clinico o scientifico, sulla scorta dei dati statistici, l’impresa è sconsigliabile e forse l’ha anche sconsigliata: ma di fronte alla scelta adamantina prevale il rispetto della decisione altrui e dei valori in essa racchiusi.  Ecco perché aderisce alla richiesta e consiglia alla donna di recarsi dal dr. Ubaldi per l’attuazione pratica. Così facendo testimonia che la medicina non è né una scienza né un insieme di scienze, ma è una professione che si avvale delle varie scienze per attuare un servizio alle scelte che l’interessata esprime attraverso il consenso informato e ai valori in esso racchiusi.
D’altra parte, Ubaldi evita il colloquio con la signora perché ritiene che sarebbe stato “per lei molto frustrante”, dal momento che sulla scorta dei dati rilevati non avrebbe potuto far altro che comunicarle i rifiuto di prestare il servizio richiesto. Quella che giustifica questo rifiuto è la ragione centrale di tutto il discorso, e essa riguarda il diverso modo di intendere il ruolo dei valori all’interno della visione clinica scientificamente fondata. Questa ragione prende corpo in tre diverse formulazioni che cerco di distinguere con precisione.

L’appello alla correttezza deontologica. 

Ubaldi presenta una prima versione della sua ragione centrale quando afferma che non è “deontologicamente corretto fare un trattamento medico quando le probabilità successo (di ottenere un bambino che nasca) sono uguali o inferiori ai possibili rischi legati al trattamento stesso (prelievo ovocitario)”. Come si vede, qui la correttezza deontologica di un trattamento è stabilita sulla scorta di un rapporto tra due fatti e non in base a un qualche “valore” esplicitamente espresso. Può darsi che un’analisi più accurata della situazione riveli come in realtà i valori siano nascosti o impliciti nella descrizione stessa dei fatti in questione o nel rapporto tra essi. Tuttavia il loro essere incorporati nella descrizione li rende come invisibili ai più e rafforza la convinzione che la “scienza medica” sia a-valutativa (come le altre scienze naturali).  In questo senso a volte la bioetica è vista dal mondo medico come un seccante fattore di disturbo: qualcosa di “filosofico” e “astratto” che cerca di insinuarsi nell’ambito scientifico al fine di gettare dubbi e perplessità per scalzare gli invalsi canoni basati su algoritmi e rapporti tra i duri fatti registrati.

Il non volere “prendere in giro” la paziente.

Una seconda versione della stessa ragione sta nell’idea che, sulla scorta dei dati scientifici acquisiti, fare l’intervento richiesto sarebbe stato una “presa in giro” dell’interessata dal momento che avrebbe generato solamente “una speranza di un qualcosa che nella realtà praticamente non esiste”. Insomma sarebbe stato come promettere rendimenti elevatissimi sulla scorta di bond fittizi. Prima, la formulazione evitava di esplicitare ogni forma di valore, mentre ora viene menzionato ma subito escluso sulla scorta del duro “senso di realtà”. Tuttavia, questa ragione è quella che più ha attratto l’attenzione di Flamigni, il quale ha subito avuto buon gioco nel mettere in luce il contrasto tra “valore” e “realtà”: qual è in termini statistici il numero minimo per consentire il valore della speranza? Nel momento in cui si riconosce la presenza di un valore, diventa difficile negarlo sulla scorta di un numero percentuale, ma lo si potrà fare opponendo un altro valore. Ma quale? È qui che Flamigni ribadisce la centralità del consenso informato della donna, e del servizio che il medico della riproduzione deve offrire in tali circostanze.

L’inaffidabilità di quanto stabilito nel consenso informato.

A fronte di queste considerazioni, Ubaldi replica con una terza versione che è strutturalmente diversa dalle precedenti: riconosce infatti che il valore della speranza non può essere contrastata coi numeri, ma ricorda che “purtroppo in un paio di occasioni” quando il momento della verità ha sbriciolato la speranza è “stato accusato di essere disonesto ed un senza cuore, nonostante le ore di spiegazioni e i consensi informati firmati”. In breve, i valori del paziente ci sono e la bioetica ne ha favorito il riconoscimento pubblico e strombazzato l’importanza. Ma a ben vedere essi sono inaffidabili, perché poi di fronte alla dura realtà vengono presto abbandonati e piovono le accuse, gli improperi e anche le denunce. Per questo l’antica prudenza insegna che è meglio attenersi ai canoni della deontologia che, diversamente dalla bioetica, prescrive come corretto l’intervento conforme alla “scienza medica”, non quello richiesto dal consenso informato. Come già abbiamo visto, Flamigni può replicare e replica che i problemi giudiziari, l’incomprensione della gente e le calunnie dei colleghi sono irrilevanti per il medico che esercita una professione di servizio a favore dei bisogni delle persone sofferenti. Bisogna riconoscere che quello della stabilità del consenso informato è un problema che va affrontato con maggiore precisione di quanto oggi non si creda. Tuttavia, l’attuale situazione di semi-incertezza al riguardo non sembra essere ragione sufficiente a espungere il valore espresso tramite il consenso informato, non più di quanto la volubilità degli elettori bastasse a sconfessare il valore della sovranità popolare propria della democrazia.

Conclusione breve. 
Ho esaminato alcuni aspetti sottesi alla corrispondenza tra Flamigni e Ubaldi. Se l’analisi fatta si è mossa nella direzione giusta la radice del contrasto sta nel diverso modo di intendere il ruolo dei valori espressi dal consenso informato nella comune e condivisa “visione clinica”. Per Flamigni il medico deve rispondere ai valori espressi col consenso informato anche quando questi sono fuori dagli schemi medi o da quelli invalsi “scientificamente”. Per Ubaldi, invece, i criteri scientificamente appropriati hanno la precedenza sulle speranze che non tengono conto dei dati della realtà. Il fatto che a sostegno della propria tesi  Flamigni si appella alla bioetica conferma che questa non è solo un nuovo nome per riproporre le soluzioni di sempre, ma è un nuovo modo di impostare la stessa pratica clinica e valutare le situazioni rilevanti. Se ciò sia giusto o no, auspicabile o deprecabile, ecc. è compito che esula dai limiti del presente commento. Come ho detto all’inizio, il suo scopo era quello di cercare di chiarire alcuni problemi all’origine della controversia. Spero che ora al termine dell’analisi la situazione sia un po’ più chiara. Non era mio compito ergermi a giudice e se anche fossi chiamato a farlo sinceramente non saprei per chi parteggiare. A me interessava che si acquisisse maggiore consapevolezza delle ragioni alla base del disaccordo registrato, perché in questo modo si può poi proseguire l’indagine e vedere di trovare anche una soluzione più adeguata. Se sono riuscito a rendere più chiara la situazione, l’analisi filosofica svolta non è stata inutile, e questo era l’obiettivo che intendevo conseguire.