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Considerazioni sulla scienza e sulla morale2020-03-31T17:39:09+02:00

Considerazioni sulla scienza e sulla morale

Giugno 2014

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A mio modestissimo avviso la sollecitazione più importante e più utile per lo sviluppo del biodiritto in Europa è arrivata, molto sommessamente, dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo (CEDU). Vorrei raccontare, il più brevemente possibile, questa interessante storia.

Sappiamo tutti come su alcune leggi particolarmente ideologiche, come la legge 40 del 2004, quella che regola la cosiddetta procreazione medicalmente assistita, la Magistratura abbia cercato di intervenire in molti modi, e come lo abbia fatto spesso con successo. Questa è la storia, non ancora conclusa, di come ha cercato di eliminare la parte della legge che contiene il divieto delle donazioni di gameti, impropriamente chiamate “fecondazione eterologa”.

Il primo segnale è arrivato dal tribunale di Firenze (settembre del 2010), con una serie di contestazioni ritenute sufficienti dai magistrati per proporre un quesito di incostituzionalità; quesiti analoghi  se ne sono aggiunti in breve tempo altri due, che sono arrivati dal tribunale di Catania (ottobre 2010)  e dal Tribunale di Milano (febbraio 2011).

I tre Tribunali basavano fondamentalmente i loro  dubbi sia sull’esistenza di una violazione  della Carta Costituzionale che riconosce il diritto alla cura e il principio di uguaglianza (oltre che il diritto di avere una famiglia), sia su una sentenza della CEDU (1° aprile 2010) che condannava l’Austria per un formale divieto delle donazioni di gameti (un divieto oltretutto parziale) previsto dalla legge sulle procreazioni medicalmente assistite  vigente in quel Paese. La legislazione austriaca, in effetti,  autorizza unicamente le donazioni che possono essere eseguite mediante tecniche di inseminazione (quelle, per intenderci, di seme maschile) escludendo pertanto quelle che richiedono tecniche più complesse e tutte le donazioni di oociti.
In una prima sentenza, adottata il 1°aprile del 2010, una Camera della Prima Sezione della CEDU aveva affermato che il dispositivo della legge austriaca violava l’articolo 14 della CEDU stessa, in combinato disposto con l’articolo 8. La sentenza criticava poi in modo molto severo le motivazioni addotte dall’Austria per motivare le proprie scelte in materia di ovodonazione.

La sentenza trovò, come era naturale, opposizione e fu sottoposta al giudizio della Grande Chambre per una revisione, il che risultò in un ribaltamento della pronuncia della prima sentenza. Nel giudizio definitivo, il Collegio ricordava anzitutto che la normativa europea non si schiera su questi temi e lascia agli stati membri un ampio margine di discrezionalità. Inoltre,  l’ingerenza della legge nelle libere scelte delle coppie appariva giustificata, sempre secondo la Grande Chambre, anche in una società democratica, in quanto perseguiva lo scopo legittimo di proteggere la salute, la morale, i diritti e la libertà di tutti i cittadini. Nella sentenza, questo maggior margine di ingerenza si poteva considerare lecito a causa della mancanza di un consenso tra gli Stati del Consiglio d’Europa a proposito dell’importanza relativa degli interessi in gioco o del mezzo migliore per salvaguardarli. D’altra parte – sto sempre citando la sentenza – un anno prima che la Corte Costituzionale austriaca si pronunciasse sul caso dei ricorrenti, la donazione di oociti era vietata in otto paesi europei, un numero ancora immodificato nel 2011, al momento della decisione della Grande Chambre. In definitiva il parere della Corte era che il margine di discrezionalità del quale doveva disporre ogni singolo paese doveva essere ampio, ferma restando la necessità di un  armonioso equilibrio tra gli interessi dello Stato e quelli dei cittadini e in particolare di quei cittadini che sono particolarmente toccati dalle scelte che lo Stato decide di compiere.

La sentenza si conclude con una affermazione che molti commentatori hanno ritenuto un po’ qualunquista, ma che in realtà ha un contenuto fortemente innovatore: in materia di PMA il diritto è in costante evoluzione (ma il riferimento è chiaramente fatto a tutte le innovazioni che conseguono al progresso della scienza)  – anche perché la ricerca scientifica in questo campo è in rapido sviluppo – e ciò richiede una attenzione permanente da parte degli Stati contraenti. Queste conclusioni rappresentano un chiaro invito ai Governi a considerare in modo sistematico le modificazioni della morale di senso comune relativamente ai temi della vita riproduttiva, per potere adeguare le normative vigenti a questi mutamenti, considerati molto probabili e costanti, oltre che in chiaro rapporto con i progressi delle scienze mediche e con l’efficacia della divulgazione operata in questi settori. Solo per confermare la rapidità con la quale si modificano morale e normative in questo campo, ricordo che nel gennaio del 2014 la Corte Costituzionale austriaca ha giudicato illegittima la proibizione della ovodonazione, dando in effetti ragione alle decisioni prese dalla sezione della CEDU, quelle successivamente contraddette dalla Grande Chambre.

Le reazioni a questa decisione sono state immediate. Il Tribunale di Milano ha considerato la sentenza della Grande Chambre come un giudizio che ha tenuto conto della situazione esistente nel 1999 (un giudizio definito come “ora per allora”), ma ha  tenuto conto dell’ affermazione che sia il legislatore che l’interprete dovrebbero condurre un esame permanente della disciplina per poterla continuamente rileggere sulla falsariga del progresso della scienza e dell’evoluzione della coscienza sociale, una lettura intesa a valutare l’esistenza di un consenso crescente nei confronti delle moderne tecniche di cura della sterilità di coppia. Le norme approvate in tema di procreazione medicalmente assistita dovrebbero essere quindi costantemente modificate sulla base dei mutamenti delle conoscenze scientifiche  e del consenso sociale che le riguarda e che appare in costante evoluzione, per evitare un “difetto di proporzionalità dell’ingerenza dello stato nel diritto al rispetto della vita privata e familiare garantito dall’articolo 8 della CEDU e l’impossibilità di invocare il margine di apprezzamento riconosciuto agli Stati membri della stessa convenzione”: è evidente che tutto ciò rappresenta un preciso invito ad approvare, su questi temi, soltanto leggi “a tempo”.

La sentenza della Grande Chambre non avrebbe affrontato l’argomento se tra il 1999 e il 2011 il legislatore austriaco avesse tenuto conto del “dovere  di evoluzione” della propria legislazione (dovere che, come abbiamo detto, è stato rispettato solo nel 2014). Il tribunale di Milano ha perciò ritenuto di dover riproporre le ragioni di censura già presentate nella sua precedente ordinanza di remissione in quanto non le ha considerate contrastate dalla pronuncia della Grande Chambre. Ha ritenuto di conseguenza che le norme oggetto di censura violerebbero l’articolo 117 1° comma della Costituzione italiana in riferimento all’articolo 8 della CEDU nonché gli articoli 2,3,29,31 e 32 primo e secondo comma della Costituzione italiana. In linea con queste premesse il Magistrato ha operato un costante riferimento alla sentenza della CEDU intesa nella prospettiva della necessità che il legislatore tenga conto delle evoluzioni del sentire sociale, oltre che dei progressi delle conoscenze scientifiche. In questo senso le norme oggetto di censura potrebbero offendere e limitare il diritto alla vita privata familiare, inteso come diritto alla autodeterminazione della coppia che desideri procreare e che per farlo sia costretta a ricorrere a una di queste tecniche. Il documento fa anche cenno alla “ingiustificata disparità di trattamento, quanto alla possibilità di procreare,  tra coppie in grado di produrre gameti e coppie nelle quali almeno uno dei due componenti è incapace di produrli”.

Questa sentenza della CEDU propone, almeno a mio avviso, un quesito di grande rilievo, che ci riguarda tutti, cattolici e laici, e al quale suggerisce una risposta: come si forma la regola morale? Se si risponde a questa domanda, si genera spontaneamente un secondo interrogativo, che riguarda questa volta la scienza, come deve essere considerata e come deve essere regolata, ammesso che esista la necessità di darle una normativa e di confinarla entro limiti certi. E tutto questo ci rinvia a una analisi del senso comune, al suo significato, ai suoi diritti e ai suoi limiti.

Il senso comune era presente negli individui della nostra specie molto prima dell’inizio di quella che definiamo “civiltà”. Già in epoche antichissime gli uomini sapevano trarre, esaminando l’ambiente nel quale erano tenuti a vivere, un grande numero di informazioni che consentivano loro di migliorare le condizioni ambientali e addirittura di modificarle in modo significativo, eliminando  la necessità di doversi adattare ad esse: sapevano riconoscere le sostanze con le quali si dovevano e si potevano nutrire; avevano imparato a coltivare la terra e ad accendere il fuoco; potevano comunicare tra loro e riuscivano a darsi una organizzazione sociale, che comportava, ad esempio, l’elezione di un capo; trasportavano oggetti pesanti su carri muniti di ruote. E’ dunque evidente che l’acquisizione di un grande numero di conoscenze non attese l’arrivo della scienza moderna né l’uso consapevole dei suoi metodi.

Dunque, per percorrere la via della conoscenza è sufficiente il sempre uso del senso comune: il che ci costringe a ragionare su quale sia il contributo della scienza (perché sul fatto che questo ulteriore contributo esista non ci sono dubbi) e in che cosa in realtà ci favoriscono i suoi complessi strumenti, sia quelli più squisitamente teorici, sia quelli materiali. Perché dare una risposta a questo quesito significa riuscire a dare una definizione della scienza.

E’ bene dire subito che noi tendiamo a fare uso esagerato e scorretto dei termini “scienza” e “scientifico”, forse perché ci illudiamo di disporre di un certo numero di certezze, che chiamiamo oltretutto erroneamente “verità”, facendo un uso di questi termini che dobbiamo definire per lo meno incauto. E’ peraltro vero che se dovessimo definire scientifico solo ciò che è vero in modo incontrovertibile, finiremmo col dover abbandonare l’uso di questa parola che diventerebbe rapidamente desueta. Dovremmo invece accordarci sul fatto che scienza e scientifico debbono essere usati solo per identificare un’opera continua di ricerca e i suoi prodotti culturali e per indicarne i tratti salienti. Ma quali sono questi tratti e in cosa differiscono dalla conoscenza dovuta al senso comune?

Premesso che non esiste una demarcazione netta tra la conoscenza scientifica e quella che il nostro senso comune riesce a ottenere, dobbiamo anzitutto accettare il fatto che molte scienze sono nate da necessità e bisogni quotidiani di natura eminentemente pratica: la necessità di misurare i campi ha generato la geometria; i bisogni dell’arte militare hanno dato origine alla meccanica; i problemi della salute della nostra e delle altre  specie hanno giustificato la comparsa delle scienze biologiche, medicina inclusa. Esiste quindi una evidente continuità storica tra le convinzioni del senso comune e le conclusioni della scienza, tanto che alcuni studiosi hanno creduto di poter definire le scienze come “senso comune organizzato e classificato”.

Che le scienze rappresentino dei corpi di conoscenza organizzata non v’ha dubbio, ed è certo che le scienze operano tutte attraverso classificazioni, ma la differenza tra scienza e senso comune non è tutta qui e la definizione proposta non sembra adeguata: ad esempio un catalogo librario rappresenta l’esempio di una importante classificazione, ma non è scienza. Va subito detto che manca, nella definizione, un riferimento preciso al genere di classificazione e di organizzazione che è caratteristico della scienza e non vi è alcun cenno relativo ai limiti delle informazioni acquisite dal senso comune: ad esempio esse non sono quasi mai accompagnate di una spiegazione razionale (le ruote sono utili per muovere grandi pesi, ma il senso comune non ha mai preso in esame il problema delle forze di attrito; per secoli le conoscenze sulle capacità medicamentose delle piante non sono mai state accompagnate da una valutazione farmacologica e chimica) e in molti casi ne hanno trovato di irragionevoli e sbagliate (l’azione della digitale purpurea sul sistema cardio-circolatorio è stata per secoli attribuita al fatto che le sue foglie avevano forma di cuore).

Sappiamo invece per certo che la scienza viene generata dal desiderio di trovare spiegazioni che siano al contempo sistematiche e controllabili alla prova dei fatti  e che quello che la distingue è proprio l’organizzazione e la classificazione delle conoscenze sulla base di principi esplicativi, tutte cose che implicano l’applicazione del cosiddetto metodo scientifico, per sua natura rigoroso e antidogmatico. In altri termini la scienza cerca di scoprire le condizioni nelle quali si compiono eventi di vario genere e di formularle in termini generali: le sue caratteristiche distintive sono la capacità di spiegare e di stabilire relazioni tra proposizioni che ne sono apparentemente prive e di dimostrare che esistono collegamenti  tra contenuti di informazione apparentemente raggruppati senza un ordine, alla rinfusa.

Possiamo anche dire che la scienza è il prodotto di un animale, l’Homo sapiens, esito di lunghissimi processi biologici di evoluzione: le nostre teorie costituiscono un adattamento al mondo che ci circonda, non diversamente dal fatto che siamo bipedi implumi. Il discorso scientifico costituisce un prolungamento del senso comune e contemporaneamente si sostituisce ad esso per fornirci una nuova immagine del mondo in continuo mutamento. Per dirla con Wilfrid Sellars, per quanto riguarda la descrizione e la spiegazione del mondo la scienza è la misura di tutte le cose, di ciò che è in quanto è e di ciò che non è in quanto non è. La scienza  è per sua natura antidogmatica perché sa di procedere a tentoni.  Scriveva Victor Hugo: ieri sbagliava  Leibniz, prima di lui sbagliava Lagrange, e ancor prima Agrippa, Averroè, Plotino….Che grande meraviglia questo ammasso pullulante di sogni che genera il reale. O sacri sogni, madri lente cieche e sante della verità. Per questo la scienza è sempre pronta a rimettere in discussione se stessa.

Nello stesso modo lo scienziato conosce la propria fallibilità e non può rifiutarsi di ascoltare una opinione diversa dalla sua perché è convinto che sia falsa: questo implicherebbe la coincidenza della sua opinione con la certezza assoluta, un errore imperdonabile per uno scienziato. Il problema semmai si pone nei confronti dei convincimenti che non possono in alcun modo essere giustificati su base razionale, le intuizioni, le fedi, le religioni. Si delinea il contrasto tra chi cammina su percorsi illuminati dalla luce di  una verità che gli sta alle spalle e chi tutte le verità le deve cercare faticosamente, sperando che dopo averle trovate scoprirà anche qualche luce, ma sapendo che è fatica improba perché la maggior parte dei suoi risultati continueranno ad essere immersi nella penombra dei consensi e delle verità statistiche, che cominceranno a rivelarsi colme di errori di lì a poco, finché qualcuno verrà e con il suo ultimo contributo riuscirà a mantenere su quelle acquisizioni la luce della verità.

Le diversità tra senso comune e conoscenza scientifica sono anche altre. Il senso comune è raramente consapevole dei limiti entro i quali sono valide le sue convinzioni e sono efficaci le sue pratiche; oltre a ciò le sue conoscenze sono maggiormente adeguate alle situazioni nelle quali resta invariato un certo numero di fattori, e ciò soprattutto perché le sue conoscenze sono incomplete e perché ha scarso interesse per le spiegazioni sistematiche relative ai fenomeni che osserva (tanto che il campo di applicazione delle sue convinzioni è molto limitato, una cosa che viene ignorata perché considerata priva di interesse).  Infine il senso comune  produce conoscenze e giudizi che possono essere in contraddizione tra di  loro e non è capace di spiegare le ragioni di questi conflitti: la scienza li colpisce alla radice introducendo una interpretazione sistematica dei fatti e mettendo in evidenza le relazioni logiche tra le preposizioni, accertando le conseguenze degli eventi e riducendo l’indeterminatezza del linguaggio ordinario.  Essa trascura il valore immediato delle cose, di cui si occupa invece in larga misura il senso comune; fa uso di concetti astratti che non sembrano pertinenti con gli elementi familiari: questo carattere astratto è fondamentale perché consente spiegazioni sistematiche e generali.

Le conclusioni della scienza sono il prodotto del metodo scientifico, che viene sempre aggettivato nello stesso modo, “rigoroso”, che consiste nella continua critica degli argomenti alla luce di canoni sperimentati per giudicare la fondatezza delle procedure usate per ottenere i dati probativi e per fissare la forza dimostrativa della prova sulla quale si sono basate le conclusioni, che alla fine saranno sempre il frutto di un sistema istituzionalizzato di ricerca.
Dunque, secondo questa visione, la scienza è il prolungamento – intelligente e dotato di metodo – del senso comune. Mi si potrebbe obiettare che anche la religione e la superstizione sono prolungamenti del senso comune, ma non credo che qualcuno ritenga  ancora che la religione sia dotata di metodo e che la superstizione, metodo a parte, sia intelligente.

Queste definizioni mi dicono molto su come opera la scienza, ma non mi dicono in realtà cos’è la scienza. Ho dunque bisogno di un’altra definizione, e scelgo questa volta quella che condivido appieno. La scienza è il maggiore degli investimenti sociali, un investimento in cui la società si impegna per migliorare la propria qualità di vita (e in particolare quella delle persone più fragili e sfortunate); si potrebbe aggiungere che avendo capito che la natura distribuisce la sofferenza disordinatamente e stupidamente, gli uomini si sono affidati alla loro ragione strumentale, la scienza, per mettere ordine e diminuire la sofferenza.

La scienza occupa un posto ben preciso nella società ed è una voce importante nel bilancio nazionale, con rapporti di grande rilievo con la medicina, la tecnologia, la legge e la politica. Difendere la scienza accademica dagli sconfinamenti della ricerca industriale non è dunque solo un problema morale: è un dovere sociale, non assolvendo il quale si consegna la società ad una pseudo-scienza priva di responsabilità, insincera e certamente non virtuosa. Ebbene, delle molte cose che si possono fare per riportare la scienza alla produzione di una conoscenza non interessata e comunque sottoposta al controllo sociale, nessun governo, a mia memoria, si è mai realmente interessato.

Si tratta adesso di stabilire le norme alle quali i ricercatori si debbono attenere: meglio ancora, si tratta di decidere chi deve stabilire queste norme.
La prima proposta è stata quella di applicare questo compito alla religione, o alle religioni, una scelta sulla quale mi dichiaro molto dubbioso.

Anzitutto, penso che Buddha, Gesù e Maometto non avessero la più pallida idea dei problemi che dobbiamo affrontare oggi, e non credo che esista persona al mondo che possa immaginare che tipo di risposte avrebbero dato se si trovassero al nostro posto. In più, le morali religiose sono generalmente lente, ossificate, inadeguate a rispondere ai quesiti che sempre più spesso la ricerca scientifica ci propone. Si tratta di posizioni morali che non sono condivise da tutti, e che nei paesi laici dovrebbero avere lo stesso peso di tutte le altre posizioni con le quali sono costrette a confrontarsi. Se penso a questo Paese, non posso poi ignorare quanto spesso la morale religiosa dominante, quella cattolica, sia dogmatica, confusa, prepotente, intollerante, inadatta a qualsiasi forma di mediazioni.

Per fortuna, il nostro è un Paese laico, basato su una concezione secolare del potere politico, che colloca tutte le confessioni religiose su uno stesso piano di uguale libertà senza istituire, nei loro confronti, né un sistema di privilegi, né un sistema di controlli. E in un paese laico deve essere privilegiata la cultura laica, della quale mi limito a dare due definizioni. La prima è di Guido Calogero e afferma che la laicità non è né una filosofia né una ideologia, ma il metodo di convivenza di tutte le filosofie e di tutte le ideologie possibili. La seconda è di Nicola Abbagnano che interpreta la laicità come autonomia reciproca tra tutte le attività umane, che non possono essere subordinate le une alle altre, ma debbono automaticamente svolgersi secondo le proprie finalità e le proprie regole interne, un’accezione nella quale la laicità corrisponde, nei rapporti tra le attività umane, alla libertà nei rapporti tra gli individui. Per fare più diretto riferimento al problema della scienza, secondo questo principio ad ogni studioso dovrebbe essere lasciata la più ampia sfera di decisioni autonome compatibili con l’interesse della collettività.

Per ragionare in termini più concreti, si può immaginare che a considerare le scelte della ricerca scientifica e a limitare la libertà di ricerca scientifica di ogni singolo operatore possa essere chiamata una generale disposizione della coscienza collettiva dell’uomo che definirò, per semplicità, morale di senso comune:  sarebbe del resto impensabile che la scienza, prolungamento del senso comune, diverso da questo solo per essere dotato di rigore metodologico, dovesse affidarsi a una etica di differente origine.     La morale di senso comune, che si forma per molteplici influenze dentro ognuno di noi, ha sempre avuto un dialogo fondamentalmente utile con la scienza e, malgrado i suoi dubbi e i suoi timori, pur essendo molto restia ad accettare persino le più elementari proposte di cambiamento, ha generalmente ceduto di fronte a quelle che vengono definite “le intuizioni delle conoscenze possibili” purché riesca a trovare, in esse, indicazioni precise sui vantaggi impliciti e garanzie nei confronti di rischi possibili. Per queste ragioni si è continuamente modificata nel tempo adattandosi al nuovo, con molta cautela e superando molte perplessità. Credo dunque che si possa dire che è così che si modifica nel tempo la dottrina ed è per queste ragioni che anche le morali religiose non possono restare immodificate col trascorrere dei secoli, ma debbono trovare il modo di adattarsi, anche se di malavoglia e malgrado le accuse di rappresentare in questo modo l’alito del demonio. Si tratta, dunque, di un’etica laica, alla quale spetterà il compito, in avvenire, di prendere importanti decisioni che riguarderanno non più tanto cosa dobbiamo fare, ma cosa vogliamo fare. Decisioni che ci riguardano tutti, ma alle quali non siamo preparati. È, naturalmente, un problema di democrazia: tutti i cittadini debbono conoscere le conseguenze possibili degli scenari immaginabili.