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Elogio della Tracimazione2020-03-31T17:35:04+02:00

Elogio della Tracimazione

Racconto tratto dal volume “Figli del cielo, del ventre, del cuore”, Edizioni Pendragon, Bologna 2010

Aprile 2014

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Ce fut sans  doute la seule raison qui obligea l’Empereur Henri de faire accoucher sa femme, âgée de 50 ans, à la vue de tout le mond, pour ôter le soupçon que l’on auroit pu avoir de son accouchement.

On assur que les enfants qui naissent de ces conjonctions abominables, sont plus pesants et plus maigres que les autres, et que quand ils tétteroient trois ou quatre nourrices tout à la fois, ils n’en deviendroient jamais plus gras.
Nicolas Venette, Tableau de l’Amour conjugal, 1789

Poiché non esiste un unico e univoco concetto di famiglia, è una questione di scelta morale e sociale decidere quali, fra i criteri costitutivi della “famiglia”, debbono avere priorità.
R. Maklin, Artificial Means of Reproductionand Our Understanding of the Family, 1991

Le fanatisme est à la superstition ce que le transport est à la fièvre, ce que la rage est à la colère.
Voltaire, Dictionnaire philosophique, 1764

È un’aula di tribunale, un’aula piccola, di quelle che sono state utilizzate per mille usi diversi: ne è derivata una grande confusione di mobili e di sedie, distribuiti senza più un vero ordine logico. La stanza, che dimostra di avere gran bisogno di essere ritappezzata, ridecorata e ripulita, viene ora usata per le riunioni delle Commissioni.

È appunto una riunione di Commissione che si sta svolgendo ora. Il nuovo Codice generale, vecchio ormai di molti anni essendo stato approvato dalla Commissione Superiore di Bioetica nel 2205, stabilisce norme molto precise per queste riunioni, che hanno ormai praticamente sostituito l’antica procedura processuale.

Il personaggio più importante della Commissione è certamente il Relatore. Ha circa 60 anni, pochissimi capelli in testa (cresciuti quasi tutti dalla stessa parte del cranio e riportati con una specie di innaturale contorsione a coprire il parietale opposto); tutto in lui è insignificante, dall’aspetto alla voce, dalle espressioni del volto al modo di atteggiarsi, ma è sufficiente ascoltarlo per pochi minuti per capire che si tratta di un Servitore della Giustizia, senza dubbi, senza incertezze, senza perplessità.
Conosce profondamente la materia che viene dibattuta, tanto che non guarda mai ai suoi appunti e allontana con brevi cenni della mano i documenti che una segretaria troppo zelante e un po’ sudata tenta di cacciargli sotto al naso, di tanto in tanto.
Seduti intorno ad un vicino tavolo ovale, ci sono i cinque consiglieri.

Anche se nessuno di loro prenderà la parola nel corso dell’udienza, la loro presenza non è priva di significato: alcuni, in effetti, prestano una giusta attenzione, premurosa, partecipativa e ipocrita, ricordandosi di annuire a intervalli regolari. Uno solo sembra un po’ perplesso, tanto che un osservatore molto acuto (il Relatore?) potrebbe accorgersi che non è sempre e completamente d’accordo con quanto gli viene raccontato.
Sedute su piccoli sgabelli di cuoio, vicino alla porta d’ingresso, appoggiate al muro, ci sono tre donne: due di esse sono piuttosto giovani, mentre la terza ha certamente superato i cinquant’anni. Sono tutte sicuramente spaventate, con segni più o meno evidenti di un pianto recente. Sono poi, e questa è la ragione della loro presenza qui, gravide, in varie epoche di gestazione. Per qualche tempo, all’inizio della relazione, vedrete seduto vicino a loro un uomo magrissimo, altissimo, tristissimo, con un naso ciranesco e due bellissimi occhi blu, completamente fuori luogo. Dopo un po’ farà ampi gesti alle donne come per dire «Vado via, ma torno subito, non preoccupatevi, è solo un attimo», e se ne andrà per non ritornare.
Ma ascoltiamo il Relatore.

La legge mi impone, gentili signori Commissari, di presentare una relazione completa sui problemi che sono oggetto del dibattito, senza tener conto di quanto essi siano conosciuti, considerandoli tutti alla stessa identica stregua. Ciò che ad alcuni appare noioso e pedante si trasforma sistematicamente in una conferma della saggezza del legislatore e della correttezza delle norme: ogni volta, infatti, a partire da differenti problemi, condotti da diversi relatori, i commissari sono tenuti a percorrere sentieri sempre nuovi che portano comunque sempre alle stesse conclusioni. Ogni volta, la storia naturale della patologia dei comportamenti chiarisce le scelte dei Padri della Legge, ne illustra la saggezza, ne conferma la grande umanità.
Dunque, questo sarà il primo argomento della mia relazione di oggi: la storia naturale della patologia dei comportamenti nel campo della riproduzione.

La riproduzione è una delle due caratteristiche fondamentali degli organismi viventi (l’altra è la capacità di reagire alle modificazioni dell’ambiente) e rappresenta una funzione di straordinaria importanza sia per i batteri che per gli esseri umani. Per quanto riguarda questi ultimi, coinvolge alcuni aspetti che appartengono unicamente alla sfera specifica di ciò che consideriamo, appunto, “umano” e che va molto al di là della pura fisiologia.
C’è una tendenza molto particolare, ma altrettanto costante, nella riproduzione degli esseri viventi: il numero dei figli diminuisce progressivamente con l’evoluzione, fino ad essere minimo nei carnivori e nei primati. Questa tendenza si associa ad una sempre più complessa e sofisticata attenzione parentale nell’educazione dei figli, fatto che trova la sua più completa espressione nell’Homo Sapiens. In effetti, nessuna progenie nasce così immatura e fragile come quella dell’uomo; nessun figlio di animale vivente ha bisogno di cure parentali altrettanto lunghe, prima di poter essere considerato “socialmente” indipendente.

In linea generale le cure parentali comprendono la nutrizione, la difesa, oltre ad un complesso sistema educativo, somministrato attraverso differenti tipi di trasferimento culturale. Molti di questi aspetti – tranne naturalmente quello basato sull’educazione verbale – si ritrovano in numerose specie di mammiferi.
Ma l’uomo è comunque diverso, l’uomo ha qualcosa di più: l’uomo deve educare i figli trovando continuamente un equilibrio fra atteggiamenti apparentemente in contrasto. L’uomo deve sapere quando è giusto riscaldare i suoi piccoli con tutto l’affetto di cui è capace, nutrendoli di amore e di tenerezza, e quando è opportuno sospendere queste attenzioni, per consentire lo sviluppo dell’indipendenza; deve capire quando è opportuno essere presenti e quando è meglio allontanarsi, quando è bene abbracciare e quando è meglio lasciar andare, quando ha senso istruire e quando conviene lasciare spazio alla ricerca di vie personali… C’è e c’è sempre stata molta saggezza nell’arte di educare un bambino fino a farne un uomo fiducioso in se stesso, in armonia con l’ambiente in cui è destinato a vivere. Molta armonia e molto amore.
Dunque, “generare un figlio” ha ben poco a che fare con “avere un figlio”. E questo mette un primo punto fermo al nostro discorso.

Stabilito che l’educazione di un figlio è, per l’uomo, compito difficile e impegnativo, che coinvolge completamente tutte le più sofisticate qualità dell’essere umano, da quella di educare con saggezza a quella di saper estrarre dal proprio cuore le virtù dell’amore oblativo e del sacrificio, c’è da chiedersi a chi spetti di conseguenza il diritto e il compito di “avere un figlio”; e poiché abbiamo già detto che non esiste un’analogia accettabile tra “generare” e “avere”, dobbiamo ragionare sull’esistenza di un diritto a “generare” da parte di chi non ha il diritto di “avere”.
Per sapere chi ha diritto di avere un figlio, non dobbiamo andare a cercare lontano, perché è la stessa natura che si affretta a rispondere. Come per la maggior parte degli animali, anche per l’uomo esiste la necessità di aggregarsi in unità sociali elementari, che sono quelle che noi chiamiamo “famiglie”. Ciò non è casuale, ma risponde ad esigenze istintive e a bisogni culturali. Nella famiglia, in effetti, trova conclusione logica il bisogno istintuale dell’uomo di riprodursi; nella famiglia trova luogo adatto la necessità culturale di organizzare le condizioni ideali perché i figli ricevano le migliori cure parentali possibili. Cure da entrambi i genitori; cure basate sull’amore, sulla responsabilità e sull’equilibrio. Cure impossibili al di fuori della famiglia; cure impossibili e casuali se elargite da parte di un solo genitore.

Stai attenta, si diceva Anna, stai attenta, stai attenta, stai attenta, tra un po’ parlerà di te, non ti distrarre, non ti distrarre, stai attenta. Ma non riusciva proprio a concentrarsi, e l’uomo parlava in modo così monotono, così monotono. E poi, era come se la deposizione di Miriam le avesse tolto ogni desiderio di ragionare, pensare, vivere. Miriam puttana, Miriam puttana. Miriam amore. Miriam, pelle di seta. Miriam, i tuoi piccoli segreti, i tuoi gemiti. Miriam, le tue promesse. Miriam infame.

Cinque anni insieme, amiche appena appena affettuose di giorno, ardenti amanti appassionate di notte. Ogni passo, ogni parola, calcolati per non tradirsi. «Purtroppo dobbiamo vivere nella stessa casa, lei sa, lo stipendio di una maestra…».
«Siamo finite a fare le vacanze nello stesso posto e nemmeno ce l’eravamo detto». Accenni a fidanzati lontani, ad un amore scomparso tragicamente.
Qualche ballo con uomini sudati, evitando con disgusto la pressione di un pube ingrossato, una carezza più pesante, un abbraccio più volgare. Normalità. Vita sociale. «Posso presentarle mia cugina?». – E poi quel progetto un po’ folle, prima per ridere, e poi sempre più sul serio. Un figlio? Perché no! Ma chi sarà il padre? E chi la madre? Io? Tu? Un figlio per noi? Ma come?
Tanti soldi da mettere via, soldi che passano rapidamente, facilmente nelle mani avide dell’intermediario. Il viaggio in Grecia un po’ fuori stagione («d’estate è troppo caldo, e poi i prezzi…»). Documenti falsi, di un falso matrimonio; l’inseminazione.
Tutto da rifare, tutto a monte. Ancora soldi. Ancora un viaggio. «Ma sì, è gravida, ma sì…». Felicità, paura, voglia di cantare. Persino un bacio ad uno sconosciuto, uno che era sempre tra i piedi, che incontravano ogni momento. Il ritorno. Con lo sconosciuto. Lo sbarco. Lo sconosciuto che non ride più, cambia faccia: «Sono un commissario della Commissione di Bioetica, mi seguano, senza storie per favore».
Il bambino si stava muovendo dentro di lei, si muoveva sempre un po’ di più, a quest’ora. Cosa ne faranno? Chi deciderà? Perché quell’uomo continua a parlare? Miriam, puttana. Miriam, amore.

Tutto ciò sembra così semplice e logico da respingere a priori ogni differente interpretazione. Eppure, almeno per una lunga parte della sua esistenza sociale, l’uomo ha sostenuto posizioni differenti e si è battuto per altri diritti.
È molto difficile riassumere tremila o quattromila anni di storia e di evoluzione culturale nelle poche pagine di una relazione giuridica. Proverò a farlo così: è quasi certo che per molte generazioni si sia confuso il diritto ad essere genitori responsabili con il diritto ad essere fertili; si sia privilegiata una capacità biologica prevalentemente istintuale ai danni di una proprietà umana quasi esclusivamente culturale.

Il perché ciò si sia verificato è ancora oggi materia di congetture e di teorie. Ci sono state e ci sono ipotesi pessimiste, che partono da una critica molto aspra del concetto di famiglia e che argomentano a partire da una presunta utilità sociale delle molecole familiari, funzionali al mantenimento di un ordine morale voluto dalle potestates directivae più o meno ufficialmente al potere. Ci sono state e ci sono teorie evoluzionistiche, materialistiche, eccetera, eccetera. So poco di queste cose e non mi piace parlare di ciò che non conosco bene. Se dovessi tentare un’ipotesi, darei la colpa di quanto è avvenuto alla grande difficoltà di far accettare agli uomini un ruolo non subalterno delle donne nel mistero della procreazione prima, nella vita familiare poi. Mi vengono in mente esempi un po’ disordinati, ma utili. Mi viene in mente il fatto che per molte generazioni i guerrieri che conquistavano le città nemiche e ne violavano le donne consideravano figli della propria tribù i bambini che nascevano, poiché attribuivano alle loro madri il ruolo subalterno dell’incubatrice. E mi viene in mente Eschilo, che dice: “non la madre, non lei produce il suo frutto… Solo nutre il gonfio maturo del seme. Lui procrea, che d’impeto prende”.
Così, uscita dalle insidie dei secoli più crudeli, l’umanità ha creduto giusto costruire un muro di difesa intorno al diritto di procreare, senza mai accorgersi – o senza accorgersi per molto tempo – della fondamentale volgarità del principio intorno al quale schierava le sue difese. Un diritto, si diceva, che rappresentava un’isola di autonomia che i flussi della legge potevano soltanto lambire.

Travolta da questa eroica ma errata valutazione, la società si è preoccupata di intervenire con critiche violente ogni volta che questo “diritto di procreare” veniva messo in discussione. Anche qui, vengo io stesso investito da un flusso di esempi dai quali scelgo arbitrariamente quello che mi sembra paradigmatico.
È l’inizio del XX secolo. La medicina umana non si è ancora occupata della procreazione, né per limitarla, né per facilitarla: eppure, richieste di tal genere emergono già da una società nella quale sta cambiando rapidamente il tipo di famiglia esemplare. In un ambiente scientifico che di procreazione non sa assolutamente nulla, cominciano ad emergere le osservazioni empiriche dei veterinari. È così, ad opera di un veterinario svizzero, che si arriva ad intuire, per la prima volta, l’esistenza di sostanze contenute nelle ovaie capaci di sospendere temporaneamente la fertilità. Un medico prepara una prima ricetta, anch’essa empirica, ma probabilmente efficace: è il primo anticoncezionale orale, non preparato per facilitare la pianificazione della famiglia alle tante coppie borghesi, contadine e operaie che sono costrette a barcamenarsi tra rinunzie e aborti clandestini, bensì per togliere la fertilità alle “non aventi diritto”: le prostitute, le ricoverate dei manicomi e dei sanatori, le malate di sifilide. A pensarci bene, la famosa “pillola anticoncezionale” che ha inquinato per quasi cent’anni la salute delle donne era stata messa a punto per diminuire la fertilità della popolazione di colore, in una società nella quale la componente più colta e abbiente aveva spontaneamente deciso di regolare la frequenza dei concepimenti e di diminuire la natalità. Ebbene, nei confronti di questa evidente aggressione alla libertà di procreare, ci fu una risposta forte della società, una condanna sociale unanime e assoluta. Giusto? Sbagliato?
Giusto se esiste un generico diritto di procreare. Sbagliato se il diritto vero è quello di avere un figlio.

Elena li aveva odiati tutti, poi li aveva perdonati, poi li aveva odiati ancora. Ma ormai di odio per loro gliene era restato poco, perché l’odio vero, l’odio grande, lo aveva conservato per suo padre. Faceva un gioco. Immaginava suo padre prima del fatto. Suo padre alto, suo padre bello. Lei bambina. Solo amore, tenerezza. Poi ricordava. Suo padre ubriaco, cattivo, con una faccia strana. La paura. La violenza. L’odio. E ogni volta l’odio era un po’ più grande e un po’ più forte, così che odiare cominciava a sembrare una vendetta vera. Non può non sentirlo, tutto quest’odio. Quando è venuto a deporre e a dire tutte quelle cose cattive – e io strana, e io egoista, e io pazza – lo ha sentito. Se no, perché sudava tanto? E perché non mi guardava?
E poi, tutti quegli anni, in quella casa, a far crescere l’odio. Lunghi giorni di solitudine, sempre a fingere, sempre a mentire, sempre a nascondere. E poi la notte, dolorosa, disperata; il rumore appena percettibile dei suoi passi; il lenzuolo scostato con impazienza; la mano pesante subito lì, sul suo ventre. Possibile che lei dorma? Possibile che lei non sappia, che non veda? Madre, maledetta anche tu. No, mamma no, tu no, vittima, come me. Il peso del corpo sul suo. Il respiro affrettato. Il liquido che le bagna le gambe, che le brucia la carne. Domani scappo. Sì, domani scappo. Basta. E poi il sonno, pietoso.
Elena si era accorta della gravidanza molto tardi, quando era ormai giunta al quarto mese. Lo aveva detto a lui, proprio mentre la prendeva, per spaventarlo, per fermarlo. Lui non aveva reagito. Ma il giorno dopo l’aveva attesa fuori dal lavoro, per parlarle: «Trova una scusa per domani – le aveva detto – ho trovato la persona».

La persona. La persona che ucciderà il bambino. Questo bambino. Il mio bambino. No, non il mio bambino. La forza che aveva invano cercato, per tanto tempo, era arrivata di colpo – una grande, determinata, fredda volontà di proteggere quel bambino.
Ma dopo neppure due mesi il padre l’aveva ritrovata.

Alla fine del XX secolo – forse il momento cardine per la soluzione di questo problema – gli opposti modi d’intendere risultavano ben chiari.
Da un lato, coloro che rivendicavano il diritto alla libertà di procreare e che, contemporaneamente, mettevano in dubbio il valore e il significato della famiglia tradizionale; erano queste stesse persone a sostenere il valore di una genitorialità non genetica, basata soprattutto sulla capacità di assumersi una responsabilità, e che respingevano, in pratica, ogni forma di regolamentazione giuridica su questi temi.

Dall’altro, quanti si dichiaravano favorevoli ad una politica di intervento dello stato e del diritto, sia nelle relazioni familiari sia, più genericamente, nei problemi attinenti alla procreazione, in vista dei superiori interessi che trovano la prima realizzazione nella famiglia. Queste stesse persone sostenevano l’impossibilità di riconoscere nella riproduzione un fatto privato (e pertanto di difficile e complessa gestione da parte della legge) per l’esistenza, dentro questo “privato”, di un personaggio straordinariamente “pubblico”, il bambino, oltretutto bisognoso di protezione e di tutela fin dal concepimento: protezione e tutela tanto necessari da imporre l’obbligo di far nascere ogni bambino all’interno di una famiglia (una famiglia, tra l’altro, vera e non una famiglia di fatto), “cellula fondamentale della società”, garante di una educazione equilibrata e armoniosa.
Vista oggi (ma la stessa cosa penso si possa dire per molti altri argomenti), la discussione non poteva essere più ipocrita e più ambigua. È probabile che l’argomento fondamentale, quello che da solo avrebbe spostato definitivamente l’equilibrio verso una delle parti (ed è evidente che alludo all’obbligo che la società deve imporsi di far nascere ogni bambino nella miglior struttura educativa possibile), fosse ritenuto troppo semplice o troppo banale (o troppo religioso, considerato il sostegno che la Chiesa cattolica dava a questo argomento). Così, anche per questo disaccordo (come, temo ancora, per molti altri) fu sì trovata la soluzione giusta, ma quasi per caso.

La fine del XX secolo si distinse per l’ingresso, quasi prepotente, delle tecniche di fecondazione assistita tra le metodologie terapeutiche della medicina umana. Trattandosi di tecniche empiriche, ma efficaci, queste metodiche riuscirono ben presto a far breccia nella morale comune. Prima che qualcuno se ne rendesse conto, dalla breccia creata per introdurre le tecniche più semplici e “omologhe” cominciarono a penetrare metodologie più complesse, sempre meno naturali, sempre più fantasiose. Ebbero figli donne sessantenni, ragazze vergini che odiavano gli uomini, coppie lesbiche che mimavano in modo provocatorio la “normalità” delle famiglie tradizionali. La morale iniziò a protestare; si cominciò a discutere sul bisogno di una legge che riportasse ordine in una materia tanto delicata e caratterizzata da aspetti etici dei quali i medici sembravano farsi spudoratamente beffa. Gli uomini politici, sempre molto sensibili ai cambiamenti d’umore dell’elettorato, presero a muoversi, prima quasi distrattamente, poi con sempre maggiore determinazione. Arrivarono in Parlamento, in tempi relativamente brevi, più di trenta progetti di legge, tutti diversi nell’impostazione formale, tutti uguali nel significato pratico e nella proposta finale: basta con le offese alla natura, alla morale, alla famiglia.

Yvonne era arrivata a un compromesso con la follia. Perché non si può soffrire più di tanto. Se no, si muore. Anzi no, se no si desidera la morte, la si desidera, e quella non viene, e allora si soffre ancora di più. Adesso Yvonne pensava che forse era giusto così. La legge non può essere stupida e crudele; o meglio, può essere involontariamente crudele, con chi non riesce a cogliere il vero significato della giustizia.
In fondo, pensava Yvonne, non può essere un caso se questo figlio l’ho cercato vent’anni e poi lui è arrivato quando non l’aspettavo più, quando avevo ormai più di cinquant’anni, quando non si debbono più avere figli. Forse prima non lo meritavo. Forse Dio mi voleva punire, di qualcosa, non lo so di cosa, di qualcosa, di qualcosa di brutto. E poi per punirmi ancora, ecco che mi dà il figlio quando non è più tempo, quando non è più giusto.

Così vicino, e non posso cullarti.
Così vicino e non posso abbracciarti.
Chi ti cullerà? Chi ti abbraccerà?
Così vicino e non posso toccarti.
Così vicino e non posso nutrirti.
Chi…

La legge fu approvata dal Parlamento alcuni anni prima della Rivoluzione Bioetica, quella alla quale dobbiamo la resurrezione morale del Paese. Fu approvata dal Parlamento e fatta propria dalla morale di senso comune, che in fondo l’aveva suggerita e promossa. Diceva cose molto semplici: che la famiglia non è un qualsiasi agglomerato di individui, ma il progetto di persone responsabili che prende forma dall’impegno ufficiale formalizzato davanti a Dio o davanti allo Stato; diceva basta al ridicolo spettacolo delle mamme vecchie, alla farsa ripugnante delle coppie gay, agli arbitrii, alle speculazioni, alle immoralità.
Come accade quelle poche volte che le leggi esprimono la volontà del popolo, la legge fu rispettata e amata; più ancora, ne fu imposto il rispetto con coerenza e semplicità. Cinque anni dopo l’introduzione della legge, un gruppo di cittadini di X, buoni padri di famiglia che si riunivano per discutere e commentare i Vangeli ma che non avevano mai fatto parlare di sé prima, denunciò al tribunale una cittadina della stessa città, per un motivo assolutamente straordinario e certamente inaudito. La cittadina, donna ancor giovane, di buona famiglia borghese, nota in gioventù per una vita dissipata e conosciuta in età matura per una lunga serie di ricoveri e di cure in cliniche per malattie nervose, era gravida, ormai giunta al terzo mese di gravidanza.
Possibile, diceva la denuncia dei cittadini, che a questa donna, irresponsabile, malata, depressa, instabile, sia concesso di avere un figlio, quando esiste una legge che non consente a persone giudicate mentalmente instabili di accedere alle fecondazioni assistite?

Si trattò, qualcuno lo avrà letto, di un processo memorabile che si concluse con un verdetto che non si può non considerare una delle più mirabili intuizioni della nostra Corte di Giustizia, tra l’altro ormai prossima ad essere sostituita dalla Commissione di Bioetica. La legge, si diceva nel verdetto, ha giudicato e regolamentato i comportamenti etici nel campo della fertilità artificiale, fertilità che occupa un terreno assolutamente finitimo a quello della fertilità naturale. Era evidentemente già nelle intenzioni del legislatore creare l’occasione per lasciare che le norme tracimassero da un terreno all’altro. Dunque, concludeva la sentenza, non è pensabile che le regole imposte alla fertilità artificiale non valgano anche per quella naturale.
La sentenza fu certamente discussa, forse anche aspramente, da alcuni, ma venne complessivamente accettata e approvata. Perché, in quei pochi anni, il senso della morale comune aveva accolto il significato delle nuove regole e ne aveva facilitato e sollecitato la tracimazione.

La storia può finire qui, perché in questo breve preambolo stanno già le ragioni e le motivazioni del nostro giudizio. La storia può finire qui e noi possiamo concludere serenamente, in pace con la nostra coscienza, chiedendo alle nostre imputate di accettare con gratitudine una sentenza che si ispira molto più alla pietà che al rigore della legge. Chiedendo ad Anna di accettare di buon grado i prossimi sei anni nella casa-lavoro di Y, con l’unico aggravio di trascorrere i primi cinque anni in isolamento. Chiedendo ad Elena di considerare serenamente l’equità di una pena che le farà passare solo tre anni nella clausura di D. Chiedendo a Yvonne di capire il valore terapeutico di una pena che la confinerà per non più di un anno nella casa di salute per malati mentali di S. Naturalmente, le loro gravidanze si dovranno concludere prima del termine naturale e dopo gli interventi chirurgici i bambini saranno assegnati a buone famiglie cristiane. Le tre donne saranno castrate, ma potranno ricevere terapie ormonali sostitutive. Non sono previste pene per i loro complici, tutti rei confessi e testimoni volontari. Non è necessario alcun voto, signori consiglieri, perché i loro cenni d’assenso sono stati registrati dalle telecamere. Mi dicono che c’è un problema che la riguarda, Commissario R, perché pare che alcune sue espressioni non possano essere considerate “commenti favorevoli” e che tutta la sua fase d’ascolto debba essere oggetto di valutazione da parte degli psicologi. Mi spiace per lei, Commissario. Naturalmente, nulla di personale.