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I bambini nati dalle tecniche di procreazione assistita2020-03-31T15:38:09+02:00

I bambini nati dalle tecniche di procreazione assistita

Marzo 2012

vedi aggiornamento

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Faccio regolarmente, ogni due o tre anni, una revisione della letteratura sui risultati delle fecondazioni assistite e controllo in modo particolare le nuove pubblicazioni relative alla percentuale di mal conformazioni e alle peculiarità delle anomalie riscontrate alla nascita dei bambini che vengono concepiti con queste tecniche. Quella che leggerete qui è la penultima che ho fatto, e risale al 2008; l’ultima, quella del 2009 non aveva novità di rilievo e non ho creduto utile ripetere dati già acquisiti. Penso di ripetere questo studio nel gennaio del 2013.

 Come vedremo c’è un grande numero di pubblicazioni dedicate a questo argomento e, soprattutto da qualche tempo a questa parte, molte di esse suggeriscono l’esistenza di un rapporto tra la cura della sterilità e la comparsa di complicazioni relative alla salute dei bambini. L’argomento è di straordinaria importanza e penso che non possa essere affrontato senza una premessa: le nostre capacità di produrre analisi accettabili su questi temi è ancora molto imperfetta. Nel gennaio del 2005 su Human Reproduction è stato pubblicato un articolo curato soprattutto da alcuni epidemiologi americani (G.M. Buck Louis ed E.F. Schisterman) che esamina criticamente il tipo di ricerche clinico-statistiche sinora pubblicate per dare una risposta al quesito che ancora preoccupa tutti i protagonisti della fecondazione assistita, medici e genitori: la possibilità che le tecniche di PMA rappresentino un rischio per la salute dei bambini. L’articolo è molto critico soprattutto nei riguardi del rigore metodologico delle indagini, che non è ritenuto sufficiente, ed elenca una serie di aspetti relativi sia ai problemi clinici della fertilità che a quelli delle pratiche mediche che dovrebbero essere prese in considerazione nella preparazione di un’indagine epidemiologica su questi temi. Essi includono: l’uso di analisi prospettiche nelle quali sia chiaramente definita l’unità d’analisi (ciclo contro individuo, contro coppia); la definizione dei tempi in cui raccogliere i dati prima, durante, e dopo il trattamento; l’uso di tecniche di analisi statistiche appropriate.

Secondo questi epidemiologi, nella quasi totalità degli studi pubblicati queste necessità sono state del tutto ignorate. L’analisi critica riguardante le valutazioni statistiche è molto complessa e non mi pare opportuno riportarla in dettaglio. Mi limito a una osservazione che ho trovato di grande interesse. L’articolo afferma che non siamo in grado di differenziare gli effetti del trattamento da quelli dipendenti dalle condizioni di sterilità della coppia. Per farlo, sarebbe necessario predisporre un disegno sperimentale in cui confrontare coppie sterili e coppie fertili, in un modo francamente assai poco probabile perché dovrebbe valutare sia i figli nati spontaneamente dalle coppie sterili che quelli nati dopo procreazione assistita dalle coppie fertili. Tutto ciò, oltretutto, complicato da una serie di variabili indipendenti, che riguardano l’epoca dell’anno in cui le cure vengono eseguite (ci sono periodi in cui si fa meno uso di pesticidi) o le modificazioni dei comportamenti secondarie alla percezione delle difficoltà nella riproduzione (come il minor consumo di alcool o di sigarette). Ne deriva che le nostre informazioni su questo tema non sono esaurienti.

Il timore che le tecniche di fecondazione assistita facciano nascere un maggior numero di feti imperfetti rispetto a quello, già piuttosto elevato, che riguarda i concepimenti naturali ha certamente serie basi teoriche, e lo stesso può dirsi per quanto riguarda la possibilità che le tecniche influiscano negativamente sulle gravidanze determinando così un maggior numero di parti distocici o di nascite di bambini piccoli o prematuri. Si tenga presente il fatto che la maturazione dei follicoli ovarici è indotta da concentrazioni molto elevate di ormoni ipofisari e che i gameti vengono sottoposti a manipolazioni di vario genere; ci potrebbe essere un aumento di fertilizzazioni da parte di spermatozoi anomali soprattutto con l’iniezione dei nemospermi negli oociti; potrebbero provocare danni le manipolazioni degli embrioni e la loro crioconservazione; i terreni di colture e le sostanze usate in laboratorio potrebbero avere effetti teratogeni, e la stessa cosa potrebbe avvenire per l’esposizione degli embrioni a temperature non fisiologiche; l’impianto degli embrioni in un endometrio eccessivamente stimolato potrebbe avere conseguenze negative sul loro sviluppo.

Ho letto con molto interesse un articolo di un medico  che lavora in Israele (M.S. Schimmel, Fertility and Sterility, 2006,85,907) e che riporta i risultati di una indagine molto accurata, che riguarda 8.181 bambini nati in quel paese da fertilizzazioni in vitro,  tutti con un peso inferiore a 1500 gr. Ebbene, in questa popolazione di bambini – che rappresentano una delle casistiche più numerose che siano state prese in esame per analisi di questo tipo – la PMA non rappresenta un rischio né di malconformazioni, né di mortalità, né di morbilità. Schimmel è evidentemente consapevole del fatto che la letteratura internazionale riporta dati un po’ diversi dai suoi, ma ha una risposta che mi sembra insieme curiosa e intelligente. Ricorda un articolo di J. A Collins (Human Reprod Update, 2002,8,265) nel quale si afferma che nei vari paesi nei quali si applicano le tecniche di PMA c’è un rapporto inverso tra il numero di cicli eseguiti e la mortalità neonatale. Israele, ricorda Schimmel, è l’unico paese al mondo nel quale l’utilizzazione delle tecniche di PMA raggiunge livelli ottimali rispetto alla richiesta: questo potrebbe spiegare le ragioni del mancato aumento di patologie connesse con il basso peso alla nascita. In realtà sembra un riferimento al vecchio detto secondo il quale chi opera di più opera meglio.

Una ragione del tutto diversa di sofferenza embrionale e fetale potrebbe essere anche ricercata nelle caratteristiche genetiche e cliniche delle coppie sterili. Alcune donne e molti uomini che ricorrono alla procreazione medicalmente assistita hanno problemi genetici, che potrebbero essere ereditati dai figli; alcune delle cause di sterilità si associano alla presenza di mutazioni geniche recessive, che sono un’ulteriore fonte di possibile patologia genetica del prodotto del concepimento. Nelle anamnesi di molte donne sterili si ritrovano aborti, anche ripetuti, malattie dell’apparato genitale, interventi chirurgici addominali, prolungate terapie ormonali.

Esistono preoccupazioni che vengono alimentate dal fatto che alcune delle tecniche di procreazione assistita sono francamente sperimentali, o non sono ancora completamente uscite dalla sperimentazione: l’uso di spermatozoi prelevati dal testicolo e di spermatidi; il congelamento degli oociti; forse – almeno per alcuni – la stessa ICSI; molte delle modificazioni più recenti della routine dei laboratori.

A parte la necessità di usare, per problemi che vedono coinvolte un così alto numero di variabili, valutazioni statistiche più sofisticate e complesse di quelle generalmente impiegate, ci sono altre ragioni per temere che l’analisi delle conseguenze negative delle fecondazioni assistite comporti numerose possibilità di errore. Il primo problema e la prima difficoltà hanno inizio quando si cercano i termini di confronto. Valutati complessivamente, i dati relativi all’esito delle gravidanze iniziate spontaneamente sono privi di significato e gli epidemiologi conoscono bene tutte le possibili cause di errore. Circa l’incidenza delle anomalie congenite nella popolazione generale, la più importante ricerca della quale sono a conoscenza è quella pubblicata da W.P. Kennedy nel 1967, relativa ad oltre 20 milioni di bambini. Da questa ricerca risultano tre dati diversi: 0,83% di malconformazioni (maggiori) sui certificati di nascita; 1,26% secondo le cartelle cliniche degli ospedali; 4,5% come valutazione più tardiva dei pediatri. Molti si chiedono se i casi diagnosticati per la prima volta dai pediatri non fossero veramente diagnosticabili alla nascita e la risposta non è semplice. È molto probabile che molti casi siano in realtà sfuggiti agli ostetrici per mancanza di sufficiente attenzione, ed è anche possibile che questa attenzione sia naturalmente maggiore quando esiste la sensazione di un rischio  com’è nel caso della nascita dei bambini concepiti con la FIVET e con la ICSI, molti dei quali sono oltretutto oggetto di indagini specifiche. Si aggiunga il fatto che molte anomalie sfuggono anche al pediatra e altrettante non vengono mai diagnosticate, se non casualmente, ed è facile giungere alla conclusione che non conosciamo in realtà la vera incidenza delle malconformazioni nella nostra specie.

I bambini nati dopo l’applicazione di una qualsiasi terapia vengono generalmente presi in esame con grande scrupolo, con attenzioni maggiori del consueto, così che l’esistenza di una malconformazione sfugge raramente. C’è poi qualcosa da verificare nella classificazione delle malconformazioni, visto che non tutti sono d’accordo sulla distinzione che generalmente  viene fatta tra quelle “maggiori” e quelle “minori”. È dunque evidente che l’utilizzazione dei registri delle malconformazioni congenite è tutt’altro che plausibile. Alcuni epidemiologi hanno constatato che, in epoche diverse, medici diversi hanno contribuito in modo diverso alla segnalazione delle malconformazioni,  per cui le analisi retrospettive, che utilizzano fonti storiche per i controlli, dovrebbero essere possibilmente evitate. Si deve anche tenere conto del fatto che molte malconformazioni vengono diagnosticate in gravidanza e che questa potrebbe essere una ulteriore fonte di errore: anzitutto è possibile che vengano eseguite più ecografie e più amniocentesi nelle gravidanze ottenute con tecniche di PMA; in secondo luogo è documentata una maggior reticenza delle coppie a interrompere gravidanze ottenute con grandi sacrifici.

Un’altra causa di errore sta nel fatto che molte gravidanze indotte nelle coppie sterili sono multiple, cosa che rappresenta uno dei principali fattori di rischio per quanto riguarda le malconformazioni fetali. Dati delle casistiche belghe riferiscono percentuali di malconformazioni pari all’1,9% nelle gravidanze singole, al 4,8% nelle gemellari e al 6,7% nelle trigemine. Inoltre, alcuni dei maggiori fattori di rischio per la sterilità – come l’età materna avanzata, il fumo, l’esposizione a fattori tossici ambientali e professionali, alcune malattie metaboliche ed endocrine – predispongono anche per le malconformazioni dei figli. Si deve aggiungere a tutto ciò il fatto che molte delle indagini pubblicate riguardano un numero di bambini troppo piccolo per avere significatività statistica e che il confronto tra casistiche diverse è spesso reso difficile – e talora impossibile – dai differenti criteri classificativi adottati nelle differenti nazioni.

Infine – ma di questo problema avrò occasione di parlare in seguito – ci sono moltissime difficoltà nella valutazione del rischio relativo alle malconformazioni e alle sindromi rare, perché un aumento significativo della loro incidenza è verificabile solo su grandi numeri, in questi casi molto difficili da ottenere. Un’ultima osservazione. Sono state pubblicate analisi statistiche basate su studi eseguiti consultando i registri di alcune malattie, cosa che ha molti riscontri nel passato, non ultimo quello relativo alla possibilità che gli stimoli ovarici con gonadotropine fossero causa di tumore. Queste ricerche corrono sempre il rischio di essere prive di senso, qualora la causa della malattia alla quale si riferisce il registro fosse contemporaneamente una ragione di diminuita o perduta fertilità, cosa che non è sempre evidente e non è sempre dimostrabile.
Sono sinceramente piuttosto perplesso per quanto riguarda i dati relativi alla percentuale di aborti, che in molte delle casistiche che ho potuto controllare risulta piuttosto elevata, mentre in altre è praticamente uguale a quella considerata normale per le gravidanze spontanee. Questi dati sono spesso influenzati dall’età delle donne, che come è noto ha grande peso sul rischio di aborto, e dal fatto che si tende a rendere note le percentuali complessive e non quelle relative alle varie classi d’età. Un’altra possibile causa di errore è determinata dal gran numero di gravidanze che sfuggono a qualsiasi tipo di controllo, un fatto che in Italia riguarda quasi la metà delle gestazioni iniziate a seguito di un PMA.  Comunque nel 2000 la frequenza degli aborti nelle FIVET (17,6%) e nelle ICSI (16,7%) era praticamente uguale. Nel 2003 uno studio americano relativo a 62.228 gravidanze ha consentito di calcolare un tasso di abortività per le ICSI (14,5%) del tutto simile a quello calcolato sia per tutte le PMA, senza distinzione di tecnica, che per le gravidanze spontanee, così come risulta dal National Survey of Family Growth.
Lo studio dell’esito delle gravidanze e quello relativo al peso dei bambini alla nascita è stato prevalentemente affrontato in casistiche numerose, cosa possibile solo per chi ha potuto organizzare dei registri nazionali che tengano conto di tutti i risultati. L. Schievo, sul New England Medical Journal del 2002 (346, 731) ha confrontato 42.463 bambini nati con tecniche di PMA con 3.389.098 bambini nati negli Stati Uniti nel 1997. Tenendo conto di tutte le gravidanze, cioè senza valutare separatamente gravidanze singole e gravidanze multiple, il rischio di partorire un figlio di peso inferiore a 2.500 gr (peso considerato significativamente inferiore alla norma e suscettibile di creare problemi clinici al bambino ) è più alto di 2,6 volte nelle gravidanze ottenute con la PMA; questo valore si mantiene elevato e conserva significatività statistica anche aggiustando l’analisi sulla base dell’età materna, della parità e delle settimane di gestazione. Se si prendono in esame le gravidanze con un unico feto, il rischio di basso peso alla nascita viene confermato, tranne che nel gruppo delle madri surrogate, che partoriscono bambini di peso normale. La conclusione più logica è che è la madre – non la tecnica – ad avere influenza sul peso del feto alla nascita, cosa che è in linea con quanto ho già scritto sulle caratteristiche fisio-patologiche di molte donne sterili e che dipendono dai loro trascorsi medici. E’, però, una conclusione dettata dal buon senso, non da valutazioni statistiche incontrovertibili.

In un articolo pubblicato dall’American Journal of Obstetrics and Ginecology nel 1999 (e quindi non poi tanto attuale) M. Dhont ha preso in esame 3.057 gravidanze ottenute con tecniche di PMA, escludendo le gravidanze gemellari, e ha confrontato i dati relativi alle loro storie cliniche con quelle di altrettante gravidanze spontanee. Nelle gravidanze da PMA ha potuto rilevare uno specifico e significativo aumento della mortalità fetale perinatale, dei parti prematuri e dei parti cesarei, tutti dati che sono stati confermati da un’ indagine analoga eseguita sulle gravidanze gemellari. In uno studio danese che si riferisce al periodo 1995-2000, pubblicato su Human Reproduction nel 2004, A. Pinborg non ha trovato significative differenze tra l’esito delle gravidanze, in un confronto tra 3.438 gemelli nati da PMA e 10.362 gemelli concepiti spontaneamente: dall’analisi sono esclusi i gemelli omozigoti che, nelle gravidanze da PMA, hanno una prognosi peggiore. Questo studio è particolarmente interessante in quanto mette in evidenza un dato, generalmente ignorato dagli epidemiologi: un certo numero di gravidanze singole dopo PMA sono in realtà  gravidanze gemellari nelle quali un feto ha cessato ben presto di svilupparsi (vanishing twin). Il feto superstite sembra correre rischi più elevati di avere un basso peso alla nascita, di nascere prima del termine e di risultare affetto da paralisi cerebrale. Questo potrebbe spiegare la maggiore incidenza di questi eventi patologici nelle gravidanze singole da PMA e comunque conferma la presenza, nelle valutazioni clinico-statistiche, di cause di errore.

A questo punto, mi sembra che molte persone siano convinte del fatto che almeno una parte dei problemi che sono stati registrati nelle gravidanze che hanno avuto inizio grazie a tecniche di procreazione assistita prendono origine da alcune caratteristiche fisio-patologiche che sembrano peculiari delle donne sterili; e che coloro che insistono nel sottolineare l’importanza di questi rischi, attribuendoli soprattutto alle tecniche, lo fanno perché sono sollecitati da motivazioni esclusivamente politiche. Insisto in questa definizione: non da ragioni morali, da motivi politici. Nel recente dibattito sulla PMA che ha coinvolto il Paese in vista del referendum sulla legge 40, uomini notoriamente privi di qualsiasi sensibilità nei confronti dei problemi morali hanno dedicato molte pagine dei loro giornali e molto tempo dei loro dibattiti televisivi a diffamare le tecniche di procreazione medicalmente assistita e i medici che le eseguono, in nome del povero, sventurato embrione, fingendo – ma senza un barlume di credibilità – d’essere ispirati dalla compassione e, talora, persino da motivi religiosi. Difficile prendersela con loro, il cinismo e l’opportunismo sono considerati, in Italia, valori molto simili all’astuzia e al trasformismo, e perciò apprezzati e applauditi. Inutile perciò prendersela anche perché la maggior parte di queste persone appartiene alla categoria dei Margite, sono assolutamente ignoranti sui temi della medicina e perciò condannati a raccontare fandonie che potrebbero persino risultare divertenti, se non fosse per il particolare non insignificante che riescono ad essere convincenti con le persone meno preparate e più ingenue. Secondo alcuni di questi signori, l’aver riconosciuto che le gravidanze ottenute con le tecniche di PMA sono più problematiche di quelle spontanee, è ragione assolutamente sufficiente per indurre noi medici a rinunciare a curare la sterilità. Sarebbe come dire che siccome la chirurgia è gravata da una certa quota di incidenti e di complicazioni, dovremmo abbandonarla e ricorrere solo alle terapie mediche. Che esista “il consenso informato” e che spetti ai pazienti scegliere cosa fare, sembra sfuggire del tutto alla attenzione di questi gentiluomini.
Siccome è sempre stata la ICSI la tecnica che ha preoccupato maggiormente i medici, che hanno sempre considerato con sospetto tutto ciò che ha forti contenuti manipolativi, molti studi pubblicati recentemente riguardano il confronto con le gravidanze ottenute con la FIVET.

Due studi pubblicati nel 2002 da L. Schieve (New England Journal of Medicine, 346, 731) e da M. Bonduelle (Human Reproduction, 17, 671) stabiliscono che il risultato finale delle gravidanze non è influenzato dalla tecnica. In Germania si è costituito un gruppo di studio (The Germany ICSI Follow up Study Group) che ha pubblicato nel 2004 (Fertility and Sterility, 81, 1604) i risultati di uno studio prospettico controllato relativo a 3.372 gravidanze ottenute esclusivamente con la ICSI, utilizzando spermatozoi presi indifferentemente dall’eiaculato, dal  testicolo e dall’epididimo.

Questa ricerca ha rilevato una maggior incidenza di una serie di complicazioni della gravidanza (metrorragie, placente previe, oligoidramnios, insufficienze placentari, parti pretermine, distacchi di placenta, anemie, ipertensioni e gestosi) nelle gravidanze da ICSI; diversamente da quanto rilevato da altri studi, la ricerca tedesca stabilisce che il maggior numero di neonati con basso peso alla nascita è dovuto soltanto a una minor età gestazionale. Circa la differente origine degli spermatozoi, la ricerca tedesca l’ha ritenuta ininfluente, mentre un’analoga indagine belga (V. Vernaeve, Human Reproduction, 2003, 18, 2093), che ha confrontato le gravidanze ottenute con spermatozoi testicolari ottenuti in casi di azoospermia ostruttiva e non ostruttiva, ha rilevato una maggior incidenza di prematurità (sia nelle gravidanze singole che in quelle gemellari) nelle azoospermie non ostruttive. Si tratta di dati molto difficili da interpretare, spesso in contrasto fra loro, ed è opinione comune che questi aspetti debbano essere approfonditi mediante studi multicentrici.

Per una valutazione completa della letteratura, si può ricorrere sia  ad una metanalisi (R.A. Jackson, Obstet Gynecol, 2004, 103, 551) che  a una revisione sistematica della letteratura (F.M. Helmerhost, British Medical Journal, 2004, 328, 621): entrambe confermano, per i nati da procreazione medicalmente assistita, l’aumento del rischio di mortalità perinatale, di basso peso alla nascita, di parto pretermine e di ricovero in unità intensive prenatali. È comunque prevalente l’idea che non esistano differenze significative, in questo campo, tra FIVET e ICSI: prevalente, non generale.

Come ho più volte avuto modo di dire, il principale problema delle PMA, almeno sino ad oggi, è l’aumento delle gravidanze multiple, notoriamente associate ad un aumento significativo di complicazioni e di rischi che riguardano sia la madre che i feti. Si  calcola che dal 1980 al 2001 l’incidenza dei parti gemellari sia aumentata in alcuni contesti fino al 70% e quella delle gravidanze trigemine e multiple oltre il  200%. Dei guai che conseguono a questo aumento delle gravidanze plurime ho già scritto e ho già spiegato quali siano le strategie adottate per ridurre la loro incidenza senza diminuire in modo significativo le probabilità di gravidanza.
C’è un grande numero di studi che è stato dedicato alla valutazione dell’incidenza delle malconformazioni nei nati da procreazione medicalmente assistita, e come vedremo i risultati di queste ricerche sono spesso contraddittori. È un argomento di tale importanza che ho ritenuto utile riferire in dettaglio quelle ricerche che mi sono sembrate più interessanti e complete, anche per lasciare a chi legge la possibilità di trarre conclusioni personali dall’analisi della letteratura, risparmiandogli al contempo il compito, piuttosto noioso e non semplicissimo, di andarsi a cercare i riferimenti bibliografici.
Per un certo numero di anni, a partire dalla prime documentazioni rese pubbliche da P. Steptoe e da R. Edwards nel 1986, la percentuale di malconformazioni è stata molto bassa. Sto naturalmente parlando solo di FIVET – la ICSI entrerà in campo più tardi e ne parlerò separatamente – nelle quali  l’incidenza della patologia congenita dei neonati è passata da un iniziale 0,8%, al 2,2% di Besal e Doyle (1990), al 2,5% di Rizk (1991), al 3,8% del FIVNAT francese (1993), allo 0,9-2,4% della American Society for Reproductive Medicine (dati pubblicati tra il 1991 e il 1995). C’è qualche riferimento alla possibilità che le tecniche siano in rapporto con specifiche forme di patologia congenita, e due diverse pubblicazioni del 1987 accennano a difetti del tubo neurale, un dato subito smentito dal Medical Research Council che ha esaminato  le casistiche del 1991 e del 1992.
Con la fine degli anni ’90, gli studi clinico statistici cominciano a insinuare qualche sospetto. Una ricerca controllata danese pubblicata nel 1999 da H.B. Westergaard (Human Reproduction, 14, 1896) riferisce il 4,8% di malconformazioni nei nati da PMA e il 4,6% nei controlli, ma il registro nazionale danese riporta un’incidenza del 2,8%. La differenza viene attribuita al numero molto elevato di gravidanze gemellari e multiple.

In Svezia uno studio analogo è stato eseguito utilizzando come controllo il registro nazionale delle malconformazioni ed è stato pubblicato da A. Ericson e B. Källén (Human Reproduction, 2001, 16, 504). Le malconformazioni sono risultate più numerose nei bambini FIVET (5,4% contro 3,8%),  ma l’eccesso di anomalie tende a scomparire quando si tiene conto delle possibili cause di errore e si considerano fattori quali l’età, la parità e gli anni di sterilità trascorsi prima della gravidanza. Emerge, dalla casistica, un lieve aumento di rischio di difetti del tubo neurale e di atresie del canale cervicale, ma il confronto tra i dati non è statisticamente significativo e gli autori dell’articolo definiscono la differenza “minima”. I dati olandesi, pubblicati da S. Anthony (Human Reproduction, 2002, 17, 2089) confermano questa conclusione e ribadiscono che il lieve aumento del rischio è dovuto alle caratteristiche delle donne trattate e non alle tecniche. Contemporaneamente sono stati però pubblicati i dati finlandesi, e l’autrice dell’articolo Sari Koivurova (Human Reproduction, 2002, 17, 1391) ha affermato  che il rischio esiste, che riguarda soprattutto le malconformazioni cardiache e che non può essere giustificato dal maggior numero di gravidanze multiple. E la confusione aumenta anche perché, più o meno nella stessa epoca, sono stati pubblicati i dati di G. Palermo (Sem. Reprod. Med., 2000, 18, 161) che ha registrato solo il 3,5% di malconformazioni (incluse quelle minori) e quelli di M. Hansen (New England Journal of Medicine, 2002, 346, 725) che ha riportato  una casistica molto peggiore (quasi il 10% di malconformazioni).
Non sempre i risultati delle indagini epidemiologiche eseguite alla nascita e nei primi anni di vita esprimono il rischio reale di malconformazione. Può accadere, ad esempio, che una tecnica determini un numero elevato di anomalie cromosomiche de novo, che queste anomalie vengano messe in evidenza con l’amniocentesi o con il prelievo dei villi coriali, che queste gravidanze vengano conseguentemente interrotte. Ebbene, tutte queste malconformazioni non compariranno nell’elenco di quelle registrate alla nascita, e il rischio dovuto alla tecnica verrà di conseguenza calcolato per difetto.
Questo problema è stato affrontato con molto impegno dopo che studi preliminari (P. Intveld, Lancet, 1995, 346,773) avevano reso noti alcuni dati allarmanti, basati però su campioni troppo piccoli. Nel 2000 M. Bonduelle ha pubblicato i risultati di 1082 test prenatali eseguiti su gravidanze iniziate dopo un procedimento di microiniezione (Human Reproduction, 17, 26a). La percentuale di anomalie cromosomiche (18 casi, pari all’1,66%), era piuttosto alta: in nove di questi casi (0,83%) si trattava di anomalie dei cromosomi sessuali, mentre gli altri nove casi erano da riferire ad alterazioni autosomiche, ad aneuploidie e a modificazioni strutturali. Le aneuploidie si potevano giustificare tenendo conto del rischio determinato dall’età materna; le alterazioni dei cromosomi sessuali e le anomalie strutturali erano chiaramente in eccesso rispetto ai dati previsti e dovevano essere attribuite o alla tecnica o a specifiche caratteristiche genetiche del padre. Quest’ultima ipotesi era sostenuta dall’evidenza di un rapporto tra le anomalie cromosomiche e la gravità della dispermia.

Del tutto recentemente McKenna Roberts (Progress Educational Trust, 2007, 18 febbraio) ha presentato a un convegno di Medicina Materno-Fetale che si è tenuto a San Francisco un studio canadese, basato sull’analisi di oltre 61.000 gravidanze, da quale risulta che i trattamenti della sterilità comportano un aumento delle malconformazioni fetali che passano dal 2 al 3%. L’incremento è, per sé, di poco conto, ma diventa statisticamente significativo quando si prendono in esame specifiche anomalie, quali le malconformazioni cardiovascolari e le deformità degli arti. E’, naturalmente, un dato importante, ma non è ancora un dato conclusivo; ci potrebbe in realtà sfuggire ancora una peculiarità del fenomeno “sterilità” che potrebbe giustificare, in tutto o in parte, queste differenze.

FIVET e ICSI
Patrizio Pasquale, in un suo articolo pubblicato nel 1995, ha elencato i rischi potenziali derivanti dalle procedure di microiniezione in due differenti gruppi, uno comprendente i rischi indipendenti e l’altro quelli dipendenti dalla tecnica. Il primo gruppo include la possibilità di fertilizzare l’oocita con uno spermatozoo portatore di anomalie genetiche o di difetti strutturali; esiste anche la possibilità di utilizzare nemaspermi con anomalie mitocondriali del DNA o di fertilizzare oociti anomali che la selezione naturale avrebbe escluso. Da tutto ciò possono naturalmente prendere origine malconformazioni congenite dei nati di entrambi i sessi o sterilità dei soli maschi.

Il secondo gruppo (rischi dipendenti dalla tecnica) include i problemi dovuti all’inserimento nell’uovo di sostanze estranee di varia origine, a lesioni dell’ooplasma o del fuso meiotico o alla scelta di uno spermatozoo anomalo da parte del biologo. Questi eventi possono essere causa di aborto o della nascita di feti malconformati.
Tutti questi difetti possono evidenziarsi in momenti molto diversi dello sviluppo embrionale. Il primo è quello della formazione dell’embrione pre-impiantatorio. In questo senso sono molto significativi i dati pubblicati da J.D.M. Dumoulin nel 2001 (Human Reproduction, 16, 504) che dimostrano come le probabilità di sviluppo di un embrione in una blastocisti “in vitro” dipendano in modo significativo dall’abilità del tecnico: ad esempio, gli operatori che nell’eseguire una microiniezione aspirano una maggior quantità di ooplasma hanno i risultati peggiori. Si tratta di un fenomeno biologico del tipo “tutto o niente”: gli embrioni sopravvivono alla micromanipolazione senza particolari anomalie o muoiono.

Un secondo momento, molto più tardivo, riguarda le anormalità epigenetiche dell’imprinting. L’imprinting genetico si basa sulla metilazione del DNA e consente a una soltanto delle due copie parentali di un gene di esprimersi. Se questo sistema si altera, si possono verificare sindromi malconformative congenite come la Beckwith-Wiedemann (iperaccrescimento somatico e predisposizione a tumori embrionali pediatrici) e la Angelman (alterazioni dello sviluppo neurologico caratterizzate da difficoltà dell’apprendimento, atassia, dismorfie facciali). Un aumento della frequenza di queste sindromi, d’abitudine molto rare (la sindrome di Angelman si osserva una volta ogni 30.000 nati) è stato registrato da alcuni ricercatori per i “bambini ICSI”, con un rischio pari a 10 volte per la sindrome di Angelman e a 3-6 volte per la Beckwith-Wiedemann. Anomalie specifiche dei pattern conosciuti di metilazione del DNA non sono state  però riscontrate né nei bambini né negli spermatozoi dei loro genitori e l’esistenza di un rapporto tra questi difetti dell’imprinting genomico e le ICSI deve essere cercata in un numero molto maggiore di casi.

Resta ancora la possibilità che, malgrado uno sviluppo “in vitro” apparentemente normale, esistano anomalie dovute alla ICSI che si esprimono più tardi, con qualche forma di patologia della gestazione o con difetti riscontrabili soltanto alla nascita. Esistono almeno due importanti ricerche relative alle percentuali di aborto, che dimostrano l’assenza di differenze tra i bambini nati da ICSI e quelli nati da FIVET (ASRM/SART, 2002; A. Wisanto, Human Reproduction, 1995, 10, 2713). Più numerose sono le indagini relative all’esito delle gravidanze, dalle quali non risultano effetti specifici della ICSI, ma piuttosto un’influenza più generale di tutte le tecniche di fecondazione assistita sul peso dei bambini alla nascita.

È noto da molto tempo che sia gli uomini azoospermici che quelli che soffrono di gravi oligospermie sono frequentemente portatori di anomalie cromosomiche. Si tratta prevalentemente di aneuploidie dei cromosomi sessuali che vengono calcolate diversamente dai vari andrologi, ma che dovrebbero essere complessivamente 12 volte più numerose di quanto si osserva nei normospermici. Anche gli uomini sterili con sperma morfologicamente normale hanno un numero di aneuploidie da due a tre volte superiore alla norma. Tutto ciò, naturalmente, rappresenta la causa di un aumento del rischio di anomalie genetiche del prodotto del concepimento. Esiste una ormai ampia letteratura sull’argomento che sembra deporre abbastanza concordemente per un aumento delle anomalie dei cromosomi sessuali nei “bambini ICSI”. Ciò deve essere attribuito alle conseguenze di un aumento di specifiche mutazioni genetiche negli uomini affetti da sterilità. In particolare queste persone soffrono frequentemente di microdelezioni del braccio lungo del cromosoma Y, che non riducono la probabilità di concepire qualora si applichino le tecniche di microiniezione, ma che vengono facilmente incorporate nel genoma dei figli di sesso maschile; non è ancora dato sapere, vista la giovane età di questi bambini, se essi dovranno utilizzare, per avere figli, le stesse tecniche alle quali hanno fatto ricorso i genitori.

Dunque, i “bambini ICSI” presentano un aumentato rischio di anomalie cromosomiche, che si correla con il rischio genetico dei genitori e non con la tecnica di fecondazione utilizzata.
M.G. Retzloff ha recentemente pubblicato (Fertility and Sterility, 2003, 80, 176) una revisione critica della letteratura relativa alle malconformazioni congenite dei “bambini ICSI”. Riporto la tabella alla quale questo studio fa riferimento per analizzare criticamente le varie voci bibliografiche. Come ho già ricordato, una delle difficoltà che si incontrano nel considerare i dati dipende dal differente modo di definire le malconformazioni “maggiori” e “minori” che può essere scelto. Ad esempio, Bonduelle analizzando una casistica di 423 bambini (Human Reproduction, 1996, 11, 1558), ha definito “malconformazioni maggiori” quelle capaci di determinare un’alterazione funzionale o che richiedono un intervento chirurgico. Queste anomalie erano presenti nel 3,3% dei bambini (1,9% dei feti singoli, 4,8% dei gemelli, 6,7% dei trigemini) mentre le malconformazioni “minori” raggiungevano il 20,5%. Lo studio concludeva affermando che l’incidenza delle malconformazioni non differiva da quella riportata per altre tecniche riproduttive e pubblicata nei registri delle nascite.

Questa valutazione è stata molto criticata da J.J. Kurinkzuk (British Medical Journal, 1997, 315, 1260), che ritiene che i dati siano stati confrontati con quelli di registri che applicano differenti valutazioni di ciò che deve essere considerata una “malconformazione maggiore”. Applicando altri criteri classificativi (ad esempio quelli utilizzati dalla British Paediatric Association e dal U.S. Center for disease control and prevention), nella stessa casistica sono stati trovati molti più casi di malconformazioni maggiori (7,4%) e pochissimi di malconformazioni minori (0,7%). Kurinkzuk ha confrontato questi dati con quelli del registro australiano dei difetti congeniti, dal quale risultano il 3,8% di malconformazioni gravi e lo 0,5% di anomalie minori. Da questa analisi risulta un maggior rischio, per i bambini ICSI, di palatoschisi e di ernia diaframmatica.

Dati relativi alle malconformazioni rilevate nei bambini ICSI.

Paese Autore Anno Casistica Malconf.

Maggiori %

Malconf.

Minori %

Belgio Bonduelle 1996 ICSI (423) 3,3 20,5
Australia/Belgio Kurinkzuk 1997 ICSI (420)

Naturali (100.454)

7,4

3,8

0,7

0,5

Belgio Bonduelle 1999 ICSI (1987)

IVF (130)

2,3

4,6

Europa ESHRE 1998 ICSI (807) 2,0
Danimarca Loft 1999 ICSI (738) 2,2 1,2
Inghilterra Sutclife 1999 Naturali (123)

U.K. Registry

ICSI (123)

4,1

5,0

4,9

7,3

11,0

Svezia Wennerholm 2000 ICSI (1.139) 3,2 3,5
USA Palermo 2000 ICSI (3.573)

FIVET (3.277)

1,1

1,7

0,8

1,3

Germania Ludwig 2000 ICSI (2.809)

Registro

9,1

7,2

Australia Hansen 2002 ICSI (301)

FIVET (837)

Naturali (4.000)

8,6

9,0

4,2

0,3

0,8

0,6

Olanda Anthony 2002 ICSI + FIVET (4.224)

Registro (314.605)

0,7

0,5

1,3

1,1

Da Retzloff e Hornstein, Fertiling and Sterility, 2003,80,276.

M. Bonduelle nel 1999 (Human Reproduction, 14, 243) ha ripreso in esame ancora una volta tutti i dati delle varie casistiche e ha concluso che esisteva una sola differenza importante, relativa al diverso modo di classificare le malconformazioni cardiache. Secondo lei, i difetti del setto interatriale e del setto interventricolare non avrebbero dovuto essere classificati come malconformazioni maggiori: le indagini con le quali erano stati rilevati non erano routinarie, la pervietà era asintomatica al 6° mese di vita e in quasi tutti i bambini la correzione dei difetti congeniti era spontanea.Vedremo più avanti come lo studio sistematico del gruppo della signora Bonduelle, che sta seguendo da anni i bambini nati a Bruxelles a seguito di un trattamento ICSI, stia portando a risultati del tutto diversi.

Dunque le possibili cause d’errore sono molte: i bambini ICSI sono esaminati con una cura particolare e con l’uso di strumentazioni generalmente non richieste; tra di loro ci sono molti puù gemelli (4,8% contro 2,7% nella popolazione dei nati da procreazione naturale ); le madri sono spesso più anziane; i medici sembrano influenzati dall’anamnesi.
Nella tabella figurano i dati relativi ad alcune casistiche, relative a differenti Paesi, dalle quali non emergono rischi particolari per i bambini ICSI. Fa eccezione lo studio condotto in Australia, che ha messo in evidenza un aumento di malconformazioni congenite sia nei bambini ICSI che nei bambini FIVET.

Il gruppo che ha certamente la maggior esperienza in questo campo, quello belga di Van Steirteghem, ha pubblicato nel 2002  (Am J of Perinatology, 19, 59)  un articolo nel quale lamenta la scarsa attenzione dei medici nei riguardi delle anomalie cromosomiche osservate nei “bambini ICSI”. Gli autori sottolineano, con molta onestà, i motivi delle preoccupazioni esistenti nei riguardi delle microiniezioni:

  • il procedimento iniettivo, certamente invasivo;
  • l’empirismo con il quale si seleziona lo spermatozoo che sarà iniettato;
  • il fatto che una piccola quantità del mezzo di coltura venga iniettato nell’ooplasma;
  • il fatto che si ottenga una fertilizzazione con un liquido seminale che non avrebbe mai potuto essere altrimenti utilizzato con successo.

                La conclusione è, comunque, solo in parte tranquillizzante: il rischio è piccolo, ma esiste e riguarda un aumento delle aneuploidie dei cromosomi sessuali e delle anomalie autosomiche de novo. Circa le anomalie cromosomiche strutturali, esse risultano prevalentemente ereditate dal padre, cosa non sorprendente se si considera la frequenza con la quale queste alterazioni sono presenti negli uomini gravemente dispermici.

Commenti complessivamente positivi sono stati fatti recentemente da uno dei maggiori esperti di ICSI, Gianpiero Palermo, in una relazione presentata a Madrid al congresso dell’ESHRE (luglio 2003).
In breve, secondo Palermo, esiste la possibilità che gli uomini portatori di delezioni del cromosoma Y trasmettano l’anomalia ai propri figli; mentre non ci sono prove che i bambini ICSI abbiano delezioni de novo. Le anomalie cromosomiche (aneuploidie dei cromosomi sessuali) osservate nei bambini nati da padri sterili con assetto cromosomico normale non sembrano dovute alla tecnica, ma piuttosto al fatto che molti uomini sterili hanno un elevato numero di anomalie cromosomiche negli spermatozoi. D’altra parte sembra ormai definitvamente accertato che gli spermatozoi prelevati dal testicolo presentino una percentuale elevata di anomalie cromosomiche e in particolare di alterazioni dei cromosomi sessuali, particolarmente frequenti nei casi di azospermia non ostruttiva (L. Rodrigo, Human Reproduction,204.19,118).

La discussione sui “bambini ICSI”

                Ma il dibattito sulla “sicurezza” della tecnica è ancora aperto e ancora acceso. Jennifer Kurinkzuk, l’ epidemiologa dell’Università di Leicester, che ho già citato, ha recentemente riproposto all’attenzione dei ricercatori tutti i punti in discussione, con lo scopo di dimostrare che la tecnica di microiniezione non può essere ancora considerata una procedura “di routine”. Riprendo gli argomenti presentati dalla Kurinkzuk, tralasciando solo alcuni punti di minore importanza.

  • L’aumento delle anomalie cromosomiche. L’eccesso di aneuploidie dei cromosomi sessuali e di altre alterazioni cromosomiche indica la necessità di esami prenatali invasivi (amniocentesi e prelievo dei villi coriali) che non tutte le coppie sono in grado di accettare, tenendo conto della loro finalità (interrompere la gravidanza quando esistono problemi genetici).
  • Il rischio di fibrosi cistica. L’assenza bilaterale o l’atrofia dei deferenti (CBAVD) è responsabile del 2% dei casi di sterilità e si associa a mutazioni genetiche che possono determinare la comparsa della fibrosi cistica. Si tratta di un’anomalia recessiva, che induce la malattia solo se è presente un’analoga mutazione nella madre, cosa non improbabile se si considera che i portatori di un gene atipico sono circa il 4% della popolazione generale. Debbono quindi essere previsti esami specifici e, se entrambi i genitori sono portatori del gene mutato, è indicata una diagnosi preimpianto.
  • La microdelezione di una delle regioni (AZF a,b,c) del cromosoma Y nelle quali si trovano geni indispensabili per la spermatogenesi si associa a sterilità: tra il 10 e il 15% dei casi di azoospermia e di severa oligospermia sono dovuti a microdelezione di una delle zone. In questi casi, la ICSI può risolvere il problema della sterilità, ma i figli maschi possono ereditare la delezione. Non è chiaro cosa potrà accadere nelle successive generazioni, né è del tutto certo che i bambini ereditino solo un difetto spermatogenetico. Sono descritti casi in cui ad una microdelezione della Y si associava un mosaicismo genosomico e descritti mosaici 46XY/45XO, soprattutto nelle cellule germinali, in associazione con anomalie fenotipiche (ad esempio, ambiguità dei genitali).
  • Si sospetta che la ICSI possa interferire con l’imprinting genomico,   un dubbio che è derivato dall’osservazione di alcuni casi di sindrome di Angelman e di Beckwith-Wiedemann in bambini nati dopo ICSI. Queste sindromi, come la Prader-Willi, dipendono da un difetto dell’imprinting genomico, un processo particolarmente vulnerabile da parte degli stress fisici e chimici. Come ho già precedentemente scritto, l’associazione di queste sindromi con le manipolazioni della ICSI non è stata ancora dimostrata con certezza.
  • Una ulteriore preoccupazione riguarda la possibilità che la ICSI favorisca la comparsa, nelle future generazioni, di malattie genetiche associate a difetti della spermatogenesi e al presente ancora inattive.

                Si tratta complessivamente di malattie molto rare (l’atrofia muscolare spinobulbare, tumori del colon a struttura non polipoide) e, per stessa ammissione dell’autrice dell’articolo, tentare qualche conclusione dai dati sinora pubblicati è praticamente impossibile.

Nel complesso, il 24% dei pazienti candidati alla ICSI presenta una delle tre principali anomalie genetiche legate alla sterilità (anomalie cromosomiche, microdelezioni del cromosoma Y, mutazioni del DNA della fibrosi cistica/CBAVD); queste prevalenze sono del 34% tra gli azoospermici e del 17% tra gli oligoastenospermici, e si tratta di anomalie trasmissibili alla prole. Stranamente, anche le donne delle coppie candidate alla ICSI per un fattore maschile presenta un maggior numero di anomalie del cariotipo, e tutto ciò induce ad attendersi un aumento di anomalie genetiche nel concepito, dimostrato per alcune forme di patologia, solo sospettato per altre:

  • aumento delle aneuploidie dei cromosomi sessuali (0,6-0,8% contro 0,2 nei controlli);
  • aumento delle anomalie autosomiche de novo  (0,4% contro 0,07%);
  • aumento delle alterazioni cromosomiche strutturali, microdelezioni del cromosoma Y e mutazioni della fibrosi cistica;
  • possibile trasmissione di altre mutazioni autosomiche associate alla ipofertilità del padre;
  • possibile aumento delle anomalie genetiche associate a difetti della spermatogenesi (atrofia muscolare spinobulbare, tumori del colon a struttura non polipoide).

                Le conclusioni che si possono trarre da questo articolo (e da altri simili ), sono meno pessimistiche di quanto il lettore potrebbe immaginare a prima vista. C’è un’indicazione – già seguita dalla maggior parte dei centri – ad eseguire esami genetici completi negli uomini sterili e a controllare la normalità dei bambini con le opportune indagini prenatali. C’è una critica, in via di massima già respinta, ai medici che pubblicano casistiche sulla ICSI,  invitati a considerare la gravità delle malconformazioni secondo criteri ufficiali, tralasciando giudizi personali, generalmente un po’ troppo superficiali. C’è il riconoscimento della scarsissima importanza numerica di gran parte delle sindromi più o meno correttamente associate alla ICSI. E c’è – e la condivido pienamente –  una sollecitazione agli operatori e ai tecnici di cercare di arrivare il più presto possibile al trasferimento di un solo embrione, in modo da evitare la patologia associata alle gravidanze multiple e alla riduzione delle camere embrionali, fonte di patologie molto più importanti, sul piano pratico, di quelle che “potrebbero” avere origine dalle ICSI. Conclusioni, a mio avviso, piene di buon senso, come è certamente un auspicio dettato dal buon senso quello di non ignorare la patologia associata alle tecniche di fecondazione assistita solo perché statisticamente insignificanti, una scelta che Jennifer Kurinkzuk associa a quella delle cameriere che nascondono la spazzatura sotto al tappeto.

                Su Human Reproduction Update (2004) P. Devroey e A. Van Steirteghem hanno pubblicato i dati relativi a 10 anni di esperienza con la ICSI, utilizzando, almeno in parte, quelli della Conferenza Internazionale Serono Symposia tenuta a Bruxelles nell’aprile del 2002.
Gli autori ripetono cose già note sui rischi legati all’uso del seme di uomini oligospermici e al prelievo di spermatozoi dal testicolo, per l’aumento di aneuploidie e di altre anomalie genetiche trasferite ai figli maschi. Ribadiscono che il maggior rischio dopo ICSI è la frequenza di gravidanze multiple, ricordando che più del 50% dei bambini nati da PMA non derivano da gravidanze singole e che è necessario cercare di evitare questo problema trasferendo un solo embrione e crioconservando gli altri embrioni prodotti.
Riferiscono poi i risultati delle indagini genetiche prenatali eseguite nel 47% di 2622 gravidanze ICSI consecutive (49% di gravidanze singole e 43.5% di gravidanze multiple), per un totale di 1586 bambini. I cariotipi anomali erano 47 (2.96%); 25 anomalie (1.58%) de novo (10 dei cromosomi sessuali e 15 autosomiche, sia di numero che strutturali) e 22 ereditate (1.39%) (21 bilanciate e 1 sbilanciata).
Se la concentrazione dei nemaspermi era superiore ai 20 milioni le anomalie de novo erano pari allo 0,24%, mentre se era inferiore ai 20 milioni l’incidenza delle anomalie saliva al 2,1%. Differenze analoghe sono state osservate per la motilità del seme, ma non per la morfologia. In un unico caso su 94 l’anomalia cromosomica conseguiva all’impiego di spermatozoi prelevati dal testicolo.

Per valutare i dati postnatali i due autori hanno confrontato le schede relative a 2889 gravidanze ICSI e a 2995 gravidanze FIVET; i due gruppi avevano percentuali simili di gravidanze multiple ed erano omogenei per quanto poteva concernere le principali caratteristiche cliniche e sociali (tranne una maggiore età materna nelle ICSI). La prematurità era leggermente più frequente per l’ICSI (31,8%) che per la FIVET (29,3%) e, al contrario, il peso molto basso alla nascita si trovava più spesso nelle FIVET (5,6%) che nelle ICSI (4,4%). Le malconformazioni maggiori (quelle cioè capaci di indurre anomalie funzionali o per le quali era necessaria una correzione chirurgica) erano presenti in modo pressochè uguale (3,4% per le ICSI, 3,8% per le FIVET), senza connessioni (per quanto concerne le ICSI) con l’origine o la qualità del seme. I nati morti (valutati dopo la 20a settimana di gravidanza) erano simili (1,69% ICSI; 1,31% FIVET). Le malconformazioni totali (anomalie maggiori nei nati morti, nei nati vivi e negli aborti) erano il 4,2% nelle ICSI e il 4,6% nelle FIVET, una differenza non significativa. Devroey e Van Steirteghem concludono questa parte della loro analisi affermando che le coppie debbono essere informate su tutti questi dati, ma che debbono anche sapere che alcune anomalie cromosomiche de novo hanno carattere relativamente benigno; una ulteriore informazione va data riguardo al fatto che i bambini ICSI non sono più a rischio di quelli FIVET.

                Esistono anche studi sperimentali che hanno dimostrato che la ICSI è una tecnica che presenta alcuni rischi. In particolare l’uso di spermatidi o di spermatozoi prelevati dal testicolo può essere causa di un aumento di anomalie dell’imprinting; si deve però tener conto del fatto che la cultura in vitro di embrioni di mammifero è causa di modificazioni del controllo dell’imprinting e che pertanto le tecniche di PMA “per sé” potrebbero essere chiamate in causa. G.F. Cox (Am. J. Human Genetics, 2002, 71, 162) hanno riportato due casi di sindrome di Angelman in bambini ICSI dovute a un difetto sporadico dell’imprinting; le caratteristiche di questi casi hanno fatto pensare a un difetto post-zigotico epigenetico (e non ereditario) per un blocco dei fattori necessari per l’imprinting nel cromosoma 15 materno (ma ricerche specifiche su bambini ICSI non hanno trovato anomalie della metilazione di questo cromosoma). Casi di sindrome di Beckwith – Wiedemann  sono stati riportati da altri autori; De Baun (Am. J. Human Genet., 2003, 72, 156), controllando i registri della malattia, hanno trovato che la sindrome  è più frequente nei bambini nati dopo PMA: si tratta di 7 bambini (5 nati da ICSI, dei quali 1 da seme prelevato dal testicolo). In 5 casi esistevano modificazioni epigenetiche associate con la sindrome.

Si può dunque ragionevolmente sospettare che esista qualcosa, all’interno delle tecniche di microiniezione, che si associa ad una maggiore frequenza di anomalie epigenetiche capaci di determinare malconformazioni congenite. Poiché i disordini dell’imprintig sono rari (Beckwith-Wiedemann e Prader Willi 1/15.000; Angelman 1/30.000) è necessario studiare una popolazione molto numerosa di bambini per accorgersi di un aumento di frequenza.

Considerata l’esistenza di una associazione tra le anomalie dell’imprinting, i tumori embrionali dell’infanzia e i difetti della metilazione, si potrebbe postulare un amento di questi tumori quando sono implicate anomalie della metilazione. Poiché l’incidenza del cancro nella sindrome di Beckwith-Biedemann in bambini di età inferiore ai 4 anni è 0,02 per 110 pazienti/anno, ci si dovrebbe attendere di imbattersi in questi problemi quando il numero di casi fosse sufficientemente ampio e il follow-up ben al di là del periodo neonatale (circa un caso su mille a 5 anni).

Sino ad oggi sono stati identificati circa 50 geni “imprinted” molti dei quali non sono stati clonati o di cui sono ignote le funzioni. Devroey e Van Steirteghem in una casistica di 2840 bambini ICSI non hanno trovato disordini dell’imprinting tranne un caso di onfalocele (e uno simile nei bambini FIVET), in cui però la diagnosi di BW non è stata confermata. La stessa cosa si deve dire per uno studio che ha seguito lo sviluppo psicomotorio di 439 bambini ICSI per due anni. E’ però possibile che la diagnosi di sindrome di Angelman possa essere fatta solo dopo i primi 2 anni di vita.
Il gruppo di studio di Bruxelles, Goteborg e New York (Reproductive Biomedicine on line, 2004, 9, 91), non ha trovato disordini dell’imprinting in 300 bambini ICSI studiati a 5 anni d’età.

Ecco le conclusioni degli autori, su questo punto particolarmente importante: dai dati della letteratura si può affermare che esiste evidenza di un aumento del rischio di anomalie dell’imprinting nei bambini ICSI e che potrebbe esistere una associazione tra microiniezione e tumori dell’infanzia. D’altra parte solo un piccolo numero di osservazioni consente di ottenere dati sulla frequenza di questi eventi, così che solo una indagine sistematica rivolta a ricercare quelle sindromi e quelle malattie che hanno con certezza un fenotipo legato all’imprinting genomico può chiarire se le anomalie epigenetiche possono essere provocate dalla ICSI (o dalla FIVET) e si ritrovano in questi bambini più spesso che in quelli nati spontaneamente.

Sia le ricerche eseguite sulla sindrome di Angelman che quelle relative alla BW hanno messo in evidenza che la mancata metilazione riguarda l’allele materno. E’ dunque improbabile che il problema – se esiste – riguardi la maturazione del seme, mentre appare possibile che le tecniche disturbino la metilazione del genoma dell’oocita o dell’embrione nei primi stadi.
Una particolare attenzione viene poi riservata ai pazienti azoospermici con sindrome di Klinefelter: 26 bambini sani nati sino al momento della raccolta dati e un solo caso di aneuplodia 46 XXY.

Le conclusioni degli Autori:

  • la ICSI non dovrebbe essere eseguita nel caso di parametri seminali normali;
  • tra i bambini ICSI si osserva un maggior numero di anomalie de novo sia dei cromosomi sessuali che degli autosomi;
  • la percentuale di malconformazioni maggiori tra i nati ICSI e i nati FIVET è simile;
  • esiste un aumento delle anomalie dell’imprinting nei bambini ICSI.

Naturalmente, concludono gli Autori, prima di trarre conclusioni definitive sull’aumento delle malconformazioni fetali nei bambini ICSI e FIVET, è necessario attendere dati conclusivi (e perciò molto più approfonditi di quelli di cui disponiamo) sulle coppie ipofertili che riescono ad avere un figlio spontaneamente e sulle gravidanze che iniziano dopo lunghi periodi di oligo-ovulazione e dopo stimolazione ovarica. In definitiva, gli AA sembrano attenti al problema, ma non particolarmente preoccupati e ricordano che oggi più del 95% degli uomini può avere un figlio con il proprio seme grazie alla ICSI.

                È uscito recentemente su BMC (Medical Informatics and Decision Making, 2004,4,3) un articolo a firma di Mika Gissler, che sembra compiere un passo avanti sulla strada della valutazione dei dati, come del resto recita lo stesso titolo: Monitoring of IVF birth outcomes in Finland: a data quality study.
Lo studio di questi Autori parte da un’analisi critica delle valutazioni eseguite in Finlandia a partire dal 1990. La prima, relativa alle nascite e ai bambini (1990-92), raccoglieva i dati nel National Birth Register. La seconda (che parte dal 1992) prendeva in esame i dati relativi ai cicli di trattamento iniziati. Queste analisi vengono giudicate incomplete (esempio: nella prima, manca il 15% dei nati).

Per ovviare a questi errori gli Autori hanno confrontato:

  • dati raccolti sulle IVF dalla Società Finlandese di  Ostetricia e Ginecologia;
  • dati del registro nazionale delle nascite;
  • dati raccolti dal National Social Insurance Institution per il rimborso dei trattamenti e dei farmaci.

I risultati dello studio sono confortanti per quanto riguarda gli esiti delle gravidanze, ma non altrettanto per quanto concerne la frequenza delle malconformazioni, molto meno numerose nei dati della Società di Ginecologia (157 su 10.000 nati) che negli altri due registri (rispettivamente 422 e 409), cifre comunque molto diverse da quelle relative all’ incidenza delle malconformazioni nella popolazione (288 su 10.000 casi). C’è da dire ancora una volta che i confronti sono difficili e che manca un controllo adeguato.

Roger Gosden e alcuni suoi collaboratori hanno pubblicato su Lancet (2003, 361, 1975-77) una rassegna della letteratura sul rapporto tra le nuove tecnologie riproduttive e la comparsa di anomalie congenite rare da difetti dell’imprinting genomico. Gli Autori riferiscono come siano stati pubblicati,nel 2003, tre articoli che depongono per un aumento della frequenza della sindrome di Beckwicz-Wiedemann in bambini concepiti con PMA: 6 casi nel registro inglese, 6 nel registro francese e 7 negli Stati Uniti. Ciò si accompagna alla descrizione di casi sporadici di sindrome di Angelman.
Gli Autori sottolineano come esista un disaccordo circa la frequenza di malconformazioni nel bambini nati dopo PMA, considerata prevalentemente normale in Europa, ritenuta invece aumentata in  Australia. Gli studi sulle anomalie dell’imprinting, per la rarità della frequenza di queste sindromi, hanno bisogno di un numero maggiore di osservazioni.
C.J. Marques, sempre su Lancet (2004, 363, 1700) segnala una associazione tra anomalie della spermatogenesi e difetti di imprinting che avrebbero quindi maggiori possibilità di essere trasmessi dagli spermatozoi di questi uomini. C’è da dire che i dati di M. Ludwig relativi ai casi di sindrome di Angelman registrati in Germania (J. Med. Genet., 2005, 42, 289) dimostrano che la sterilità è di per sé un fattore di rischio per i difetti di imprinting. Così, questi errori e la diminuita fertilità potrebbero avere una causa comune e potrebbe essere la stimolazione ovarica, e non la PMA ad aumentare il rischio di concepire un figlio con un difetto d’imprinting. Si tratta comunque di patologie molto rare, per cui un aumento del rischio relativo, anche se consistente, avrebbe un effetto trascurabile sui dati assoluti, come si può supporre tenendo conto del fatto che molti registri nazionali non registrano alcun aumento di rischio in questo senso per i nati da PMA.
A chi vuol leggere un’analisi interessante e completa della letteratura riguardante i bambini nati da ICSI consiglio un articolo di Christiane Wittemer (Les enfantes de l’ICSI sous la loupe) comparso nel marzo 2004 su M/S: Medicine sciences (volume 20 n. 3). Mi limito a riferirne i punti più interessanti:

  • sul rischio di veder nascere un bambino di peso inferiore alla norma, è molto probabile che si tratti di un problema che non riguarda le tecniche, ma piuttosto l’esistenza di fattori uterini sfavorevoli, più frequenti nelle donne che hanno subito cure per la loro sterilità;
  • per quanto riguarda la presenza di malconformazioni, bisogna accettare il fatto che, almeno per il momento, i dati sono contrastanti. La valutazione meno favorevole rimane comunque quella degli autori australiani che riferiscono di un notevole aumento del rischio (9% nelle FIVET, 8,6% nelle ICSI, 4% nella popolazione generale), che permarrebbe anche tenendo conto delle gravidanze plurime, dell’età materna, della parità. Nel capitolo delle inquietudini bisogna inserire anche i dati (già citati in questo testo) sulle anomalie dell’imprinting genomico. In particolare la Wittemer ricorda l’aumento dei casi di reticoloblastoma e dei tumori dell’infanzia.

Lidegaard ha pubblicato nel 2005 (Human Reproduction, 20, 950) i risultati di uno studio eseguito in Danimarca su 442.349 nati da gravidanza spontanea e su 6.052 nati da PMA: non emergono differenze significative tra i due gruppi né per quanto riguarda le malconformazioni congenite, né per quanto concerne patologie neurologiche e tumori dell’infanzia, inclusi i retinoblastomi. Evidentemente questi risultati sono molto diversi da quelli pubblicati da M. Bonduelle nello studio multicentrico (Bruxelles, Goteborg e New York) che ho già citato e che documenta un aumento della percentuale di malconformazioni nei bambini ICSI (6,3% contro il 3% dei controlli). La stessa Bonduelle, in una pubblicazione più recente relativa a 5 paesi europei (Human Reproduction, 2005, 20, 413) ha confrontato 540 bambini nati da ICSI, 437 nati da FIVET e 538 controlli mettendo in evidenza un rischio relativo di malconformazioni pari a 2,77 nelle ICSI e a 1,8 nelle FIVET e un maggior ricorso a cure mediche e chirurgiche nei bambini nati da PMA.
C’è sempre, in queste ricerche, un elevato rischio di errore, che è stato messo in evidenza anche per le ricerche della Bonduelle. Ad esempio, in uno dei suoi studi, esiste una differente incidenza di malconformazioni solo nei dati raccolti a Bruxelles (i controlli erano bambini di pari età reclutati nelle scuole) e a New York (i controlli erano stati reclutati con una inserzione pubblicitaria) mentre non risultano differenze di sorta per la parte della ricerca svolta a Goteborg. In questa città, il gruppo di controllo era stato preso dal registro delle nascite ed era stato seguito con i controlli pediatrici previsti per tutti i bambini svedesi. A parte il fatto che la partecipazione allo studio era stata caratterizzata da grande entusiasmo in Svezia e da evidente riluttanza negli Stati Uniti e in Belgio, è evidente che i dati raccolti a Göteborg sono molto più protetti degli altri nei confronti di possibili errori di selezione e di partecipazione. Tutto ciò invita ad essere molto prudenti quando si debbono interpretare i risultati degli studi nei quali i dati di controllo si basano su riferimenti storici o sull’arruolamento di volontari.
Le probabilità di errore dovrebbero essere molto ridotte ricorrendo a studi prospettici controllati, eseguiti in modo da consentire alla stessa equipe di esaminare in modo analogo i bambini oggetto dello studio e quelli destinati a far parte del gruppo di controllo. È di questo tipo lo studio multicentrico tedesco pubblicato da A. Katalinic nel 2004 (Fertility and Sterility, 81, 1604) che ha calcolato la percentuale di malconformazioni su nati vivi, i casi di morte endouterina e gli aborti – spontanei e provocati – avvenuti dopo la 16a settimana. Complessivamente lo studio ha rilevato 295 malconformazioni su 3.372 casi per la ICSI (8,7%) e 488 su 8.016 casi per i controlli (6,1%) con un rischio relativo pari a 1,44. Le anomalie più frequenti erano a carico dell’apparato cardiocircolatorio, di quello digerente e di quello urinario, e anche le anomalie cromosomiche erano più frequenti. I ricercatori del German ICSI Follow Study Group hanno rilevato una maggior frequenza di fattori di rischi malconformativi – sociali, demografici ed anamnestici – nei casi di ICSI e quando hanno aggiustato i risultati per i fattori di rischio (in particolare per età materna, malconformazioni presenti nei genitori, anamnesi positiva per una precedente morte endouterina o per la nascita di un figlio malconformato) il rischio relativo è sceso a 1,24 e non ci sono più state differenze significative per le anomalie cromosomiche.

Una ricerca prospettica eseguita in Svezia su 16.280 nati da PMA (dei quali il 30% era stato concepito grazie alla ICSI) pubblicata nel 2005 da B. Kallen (Birth Defects Res Clin Mol Teratol) ha confermato un aumento del 42% del rischio malconformativo, ma lo ha correlato prevalentemente alle caratteristiche parentali e alla gemelliparità, con un’incidenza dell’8% di malconformazioni congenite e del 5% di patologie relativamente gravi. Le anomalie più rappresentate erano i difetti del tubo neurale e l’atresia delle coane e di tratti del canale alimentare. Nessuna differenza evidente tra i nati da FIVET e i bambini ICSI. Un gruppo di ricercatori americani, nel 2004, ha pubblicato una revisione critica della letteratura eseguita su 2.444 articoli, solo 169 dei quali considerati degni di essere presi in esame (JAMA, 292, 2961). Le conclusioni dell’analisi  sono che mancano prove dell’esistenza d’un rapporto tra PMA e malconformazioni fetali.
Questa sembrava, alla fin fine, l’ipotesi più probabile e molti medici l’avevano accettata per buona, costruendo le proprie linee di consenso informato su queste convinzioni. Nel giro di breve tempo, però, sono state pubblicate due metanalisi che hanno costretto tutti a rivalutare il problema ed è uscito un nuovo studio del gruppo belga diretto dalla Bonduelle che  ripropone qualche motivo di proccupazione.

La prima metanalisi è di A.A. Rimm (Assist. Reprod. Genet., 2004, 21, 437) e raccoglie le pubblicazioni che hanno visto la luce entro il settembre del 2003: l’analisi si conclude specificando l’esistenza di una maggior percentuale di malconformazioni  per i nati da PMA (indice di rischio 1,29%) senza significative differenze tra ICSI e FIVET. La seconda, curata da M. Hansen e pubblicata da Human Reproduction nel 2005 (20, 328) riguarda 51 studi pubblicati entro la fine del marzo 2003: di questi, 26 sono stati esclusi per vari motivi, e i 25 studi residui sono stati esaminati da sette esperti. Le conclusioni della metanalisi suggeriscono l’esistenza di un aumento statisticamente significativo di malconformazioni (30-40%) associato con la PMA. Hansen sottolinea il fatto che i 2/3 degli studi esaminati concordavano per un aumento di rischio di almeno il 25% e che questo dato non era sempre presente nelle conclusioni dei vari autori, preoccupati di considerare soprattutto la significatività statistica e non l’aumento dei fattori di rischio. La Hansen ha anche calcolato l’NNTH (Number Needed To Harm), cioè il numero di bambini che devono essere concepiti con le tecniche di PMA perché ne nasca uno malconformato, e le cifre variano da 250 a 62 a seconda della frequenza delle anomalie malconformative nella popolazione (calcolata da un minimo dell’1 a un massimo del 4%). Le possibili differenze tra le due tecniche sono state oggetto di una ulteriore metanalisi (R.T. Lie, Int. J. Epidemiol., 2004, 34, 696) che ha confermato l’esistenza di rischi sovrapponibili.

Per riuscire a ottenere dati conclusivi sulla salute e sulla normalità di questi bambini è comunque essenziale continuare a seguirli nel tempo, tenendo conto del fatto che le percentuali di malconformati crescono progressivamente dalla nascita all’adolescenza  e alla maturità. Molti meriti ha, in questo campo, il gruppo di Bruxelles che fa capo a M.Bonduelle che continua a seguire un gruppo di bambini ICSI controllandone la crescita e sottoponendoli a esami clinici periodici. Ho già riportato i risultati di un loro studio relativo a bambini di 5 anni, un’analisi rassicurante sotto molti rispetti ma che aveva rilevato l’esistenza di un lieve aumento delle malconformazioni dell’apparato uro-genitale. L’ultima pubblicazione di questo gruppo che ho potuto consultare ( F.Belva, Human Reproduction, 2007,22,506) si riferisce a 150 bambini di 8 anni ( il numero è ancora inadeguato per una ricerca clinico-statistica, ma non si può dimenticare che la ICSI è una tecnica introdotta solo recentemente nella pratica clinica)  le cui condizioni di salute sono confrontate con quelle di altrettanti bambini nati a seguito di concepimenti spontanei. Questi bambini rappresentano il 60% di un gruppo di 248 concepiti nello stesso centro di Bruxelles: gli altri 98 non sono stati rintracciati ( o i loro genitori non hanno accettato di partecipare allo studio). Sono stati esclusi i gemelli e i bambini nati prima della 32ma settimana, una scelta che non tutti condivideranno.

Tutte le volte che si discute il problema del maggior numero di parti prematuri e di nati sotto peso e anche della maggior frequenza di malconformazioni che si osservano dopo una PMA, viene proposto lo stesso dubbio: saranno veramente effetti delle tecniche? Non potrebbe essere che le coppie sterili, per qualche ragione che ancora non siamo riusciti a identificare, hanno “naturalmente” la tendenza a presentare questi problemi?

Qualcuno, in realtà, queste possibili peculiarità delle coppie sterili (e in particolare delle donne sterili e infertili) le ha cercate, senza mai riuscire a verificarle con certezza. E’ certamente vero, ad esempio, che molte delle donne che si sottopongono alle tecniche di riproduzione assistita sono state precedentemente sottoposte a interventi chirurgici, che molte soffrono di endometriosi, che molte hanno abortito o hanno subito revisioni strumentali della cavità uterina, che altre hanno problemi genetici: ma sono sufficienti questi precedenti anamnestici a giustificare gli eventi non sempre fortunati delle loro gravidanze.
C. De Geyter (Human Reproduction, 2006, 21, 705) ha preso in esame proprio questo quesito: è vero, come molti dicono, che le donne sterili o infertili sono comunque destinate ad andare incontro ad un maggior numero di complicazioni in gravidanza? Ho fatto un ricerca bibliografica in proposito per capire quanto fondata fosse questa convinzione e ho trovato cinque pubblicazioni che, in varia misura, la sostengono: S.L: Tan (Am J Obstet Gynecol, 1992, 167, 778); P. Rufat (Fertility and Sterility, 1994, 61, 324); C. De Geyter (J Assist Reprod Genet, 1998, 15, 111); J.X. Wang (Human Reproduction, 2002, 17, 945) e F. Thomson (BJOG, 2005, 112, 632). Se questi dati fossero confermati, l’aumento di complicazioni attribuito a FIVET e a ICSI sarebbe calcolato in eccesso, perché confrontato con casistiche non omogenee. Oltretutto esistono anche modelli sperimentali che hanno indotto a considerare, come cause possibili del passo peso fetale alla nascita, l’alterato clima ormonale materno indotto dai trattamenti di stimolo ovarico e l’influenza dei mezzi di cultura nel periodo delle manipolazioni eseguite su pazienti e su embrioni. Si aggiunga a ciò la possibilità che la ICSI comporti un rallentamento della crescita degli embrioni nella fase iniziale di sviluppo (J.C.M. Dumoulin, Human Reproduction, 2005, 20, 484).

De Geyter ha esaminato 995 parti relativi a donne considerate “infertili” in quanto avevano concepito (naturalmente) dopo un anno di rapporti non protetti. Molte di queste donne avevano ricevuto farmaci per normalizzare i cicli mestruali e antibiotici per varia forme di infezione ginecologica; altre erano state sottoposte a interventi chirurgici sulle pelvi. Queste gravidanze e questi parti sono stati messi a confronto con quelli relativi a gravidanze ottenute dopo inseminazioni intrauterine, fertilizzazioni in vitro, ICSI e trasferimento di ootidi che erano stati congelati. Ebbene, sia la durata della gravidanza che il peso dei bambini alla nascita erano significativamente ridotti dopo inseminazione e induzione dell’ovulazione; in questi ultimi casi si poteva registrare un minor sviluppo fetale e una minor durata della gravidanza rispetto alle gestazioni ottenute naturalmente, ma le differenze non avevano significato statistico. Nessuna differenza invece tra le gravidanze ottenute naturalmente e quelle conseguite all’utilizzazione di ootidi che erano stati congelati. De Gayter conclude affermando che debbono necessariamente esistere effetti negativi delle varie manipolazioni compresa nell’esecuzione delle PMA. Non ritiene invece di poter esprimere un’opinione, a causa del numero insufficiente di casi, sul possibile rapporto tra trattamenti di stimolo ovulatorio e durata delle gravidanze.

Mi sembra particolarmente interessante l’interpretazione di De Geyter dei risultati ottenuti con gli ootidi congelati. La condizione biologica di questi oociti a 2PN ricorda l’evidenza sperimentale di un effetto ritardante lo sviluppo embrionale determinato dalla superovulazione (si tratta di dati relativi ai topi) che però non si verifica trasferendo i concepiti a madri surrogate (I. Van der Auwera, Human Reproduction, 2001, 16, 1237). La diminuzione di peso di questi embrioni viene attribuita agli elevati livelli di progesterone (e non a quelli di estrogeni) determinati dalla superovulazione. Nella nostra specie, anche se elevate concentrazioni di progesterone in fase luteale sono indicative di gravidanze fisiologiche, è possibile che le gestazioni che iniziano durante fasi luteali modificate dall’iperstimolazione siano caratterizzate da maggior brevità e dalla nascita di feti più piccoli. Il congelamento e lo scongelamento degli ootidi avviene in un periodo di notevole attività demetilante come parte di una interna riprogrammazione epigenica (W. Revk, Science, 2001, 293, 1089). In questa fase si verifica la metilazione del genoma materno e degli istoni mentre il genoma paterno perde rapidamente DNA metilato. Uno dei crioprotettori, il DMSO interagisce con alcune metiltransferasi, la principale famiglia di enzimi coinvolti nella riprogrammazione epigenica: l’effetto finale potrebbe dunque essere quello di normalizzare i processi di imprinting. E’ bene ricordare che anche se, l’imprinting riguarda meno dello 0,1% del genoma, l’equilibrio tra gli alleli materni e paterni attivati o repressi dai processi epigenici determina il trasferimento di risorse materne al feto. Sia la diminuzione del feto che la minor durata della gravidanza potrebbero partirebbero dunque dalla inattivazione degli alleli paterni durante l’imprinting. E’ persino possibile che tutto ciò abbia effetti tardivi e si manifesti nell’individuo adulto (E.A. Maher, Human Mol Genet, 2005, 14; R133 – R138) e che si trasferisca alle generazioni successive (W. Mills, Genetics, 2004, 168, 2317).


C’è un maggior rischio di tumori?

In molti paesi sono state eseguite indagini, prevalentemente retrospettive, per verificare  il possibile aumento del rischio tumorale nei bambini nati dopo PMA. I risultati sono stati del tutto negativi in Inghilterra, Svezia, Australia e Olanda; in uno studio prospettico eseguito in Danimarca sono stati descritti 5 casi di retinoblastoma nei bambini nati da FIVET con un rischio relativo, rispetto ai dati generali del registro tumori, piuttosto alto (4,9-7,2). Questo studio – che è del 2005 – non trova conferma in nessuna delle altre casistiche e gli studi retrospettivi eseguiti recentemente in Olanda e nella stessa Danimarca non l’hanno confermato. È molto probabile che, come per tutti i fenomeni confinati ad una realtà geografica e temporale limitata, l’aumento di frequenza di questa specifica neoplasia sia stato determinato da particolari condizioni terapeutiche o tecniche, che in seguito sono state modificate e non si sono più ripetute.

                  Lo sviluppo psico-fisico dei “bambini PMA”
Cominciano ad apparire, nella letteratura medica, studi relativi allo sviluppo psicomotorio dei bambini nati da FIVET e da ICSI. Si è molto occupata di questo argomento la Bonduelle, la cui ultima pubblicazione riguarda il controllo prolungato (fino a 5 anni) di un gruppo di 300 bambini nati da ICSI nei tre centri di Bruxelles, New York (Cornell) e Goteborg (Reproductive Biomedicine on Line, 2004, 9, 91). Dopo stratificazione per età, età materna, sesso e – in un solo centro – livello scolastico dei genitori, non sono state trovate differenze nei parametri di crescita, malgrado la maggiore incidenza di parti pretermine, di nati sottopeso e di ricoverati nei reparti di terapia intensiva dei bambini ICSI. Anche le malattie infettive acute e croniche avevano la stessa frequenza nei due gruppi; i bambini del gruppo ICSI avevano subìto un maggior numero di interventi chirurgici, soprattutto a causa della maggior incidenza di piccoli guai alle orecchie e avevano avuto bisogno più spesso di fitoterapia e di diete. Gli esami neurologici non dimostravano differenze di qualche significato tra i due gruppi. Nessun rilievo interessante è uscito dalle visite degli psicologi, se si eccettua una miglior funzione genitoriale nelle famiglie con figli nati da PMA.

Questi dati sono stati recentemente confermati su bambini ICSI di 8 anni di età, da L Leunens (Human Reproduction, 2006,21,2922).
Indagini sistematiche sono state eseguite nei bambini nati da differenti tecniche di PMA per accertare la normalità del loro sviluppo psico-affettivo e per valutarne le capacità cognitive. Si tratta di conclusioni del tutto rassicuranti sia per i bambini nati da madri surrogate (P. Serafini, Human Reproduction Update, 2001,7,23) che per i nati da ovodonazioni (V. Söderström-Anttila, Human Reproduction Update, 2001,7,28) e da donazione di sperma (J. Cornsac, Human Reproduction Update, 2001,7,33), anche se cresciuti ed educati in famiglie omosessuali (A. Brewaeys, Human Reproduction Update, 2001,7,38).
C. Murray (Fertility and Sterility, 2006,85,610), uno psicologo che lavora in un centro di ricerche psicologiche su famiglie e bambini dell’Università di londra, ha studiato le famiglie di bambini nati a seguito di una donazione di gameti e che avevano raggiunto i 12 anni. Non ha trovato traccia di problemi psicologici e l’unico dato curioso è che tra le coppie che avevano ricevuto una donazione di oociti non c’era stato neppure un divorzio.  Un dato interessante: il 65% di queste coppie e l’89% di quelle che avevano ricevuto una donazione di spermatozoi non hanno alcuna intenzione di parlarne ai figli.
Unico neo che debbo sottolineare è il numero ancora troppo piccolo dei casi esaminati.

Conclusioni

Alcuni anni or sono, concludendo un articolo su questo stesso argomento, scrivevo: “Mi sembra che la FIVET non rappresenti un rischio significativo per i nuovi nati e ho la sensazione che quello che ancora resta da chiarire non possa rappresentare un fantasma tale da spaventare le coppie e i medici. Questo non vuol dire che sia giusto ignorare i problemi, anche i più insignificanti, e mi associo al coro di chi chiede che su tutti i bambini nati da tecniche di fecondazione artificiale venga eseguito un controllo a lungo termine. Per quanto riguarda  la ICSI invece emerge la necessità di capire qualcosa di più per quanto riguarda l’associazione tra cause genetiche di oligospermia severa e di azoospermia e possibilità di malconformazioni e di malattie congenite nei bambini”.

Quanto scrivevo era giustificato dalla letteratura medica di allora, non lo è più dalla letteratura medica più recente. Provo a trarre qualche conclusione dalle mie letture, precisando che in ogni caso un consenso assoluto su questo tema non esiste ancora.

Anzitutto esiste un grosso problema delle ricerche sulle frequenze delle malconformazioni nei nati da PMA che consiste nel fatto che esse mettono a confronto gruppi differenti, da un lato le persone fertili, dall’altro quelle ipofertili o sterili. Come ho già detto, queste analisi dovrebbero essere eseguite anche su coppie fertili sottoposte a procedimenti di PMA e su coppie sterili o ipofertili che hanno concepito spontaneamente: si tratta di due gruppi che non possono essere presi in esame, il primo per evidenti ragioni deontologiche, il secondo per l’impossibilità di raccogliere un numero adeguato di casi.

Questa idea, che non sia tanto il tipo di terapia utilizzata, quanto il fatto che sia necessaria una terapia, ad aumentare il rischio ostetrico e perinatale, è dibattuta da molti anni dai medici. Nel 2001, Z. Pandian ha pubblicato uno studio clinico nel quale si dimostra che un gruppo di donne affette da sterilità idiopatica – cioè da sterilità sine causa, che lascia ampio margine alla possibilità che una gravidanza si instauri spontaneamente – corre rischi particolarmente elevati di distacco di placenta, di eclampsia e di essere sottoposto a taglio cesareo rispetto alle gravide con fertilità normale, e ciò sia che la gravidanza sia iniziata a seguito di qualche terapia, sia che sia iniziata spontaneamente (Human Reproduction, 16, 2593). Esistono poi numerosi studi che documentano l’esistenza di un maggior rischio ostetrico (soprattutto ritardi di crescita intrauterini e gestosi del III trimestre) per le donne che riescono a concepire spontaneamente, ma dopo aver cercato la gravidanza per più di un anno (T.B. Erikson, Obstet. And Gynecol., 1997, 89, 594). Anche il rischio di avere un figlio malconformato è maggiore nelle donne ipofertili (H.A. Ghazi, Fertility and Sterility, 1991, 55, 726) ed è tanto maggiore quanto più lungo è stato il periodo di attesa. In questi casi si può escludere l’interferenza delle manipolazioni, del laboratorio e dei trattamenti di stimolo ovarico, per i quali abbiamo però scarse informazioni. Secondo alcuni, dunque, le inseminazioni non comportano un aumento del rischio ostetrico e le tecniche sono meno importanti delle caratteristiche fisio-patologiche delle donne: come ho già detto, su questo punto però le opinioni divergono.

Dobbiamo quindi accettare le critiche degli epidemiologi agli studi, numerosi, ma molto spesso privi di “potere statistico”. L’articolo di G.M. Buck-Louis che ho già citato dovrebbe diventare una bibbia per chi si accinge a preparare protocolli di studio sulla materia.

Esiste certamente un problema che riguarda la sterilità “per sé”, sia per le donne che per gli uomini, e il fatto di non riuscire a capirlo completamente rappresenta un ostacolo alla interpretazione corretta dei dati clinico-statistici. Allo stato attuale delle conoscenze non è però possibile escludere la possibilità che anche le tecniche di PMA possano esercitare un effetto negativo sulla prole, e di questa possibilità i medici debbono fare gran conto.

Una domanda che mi viene posta frequentemente riguarda le ragioni per cui la medicina non è ancora riuscita ad arrivare – su questi temi – a conclusioni definitive. Ebbene, considerate per un attimo le variabili indipendenti che siamo costretti a tenere in considerazione: i farmaci usati, così diversi e così differentemente impiegati; le manipolazioni del laboratorio, sulle quali possono avere influenza elementi come le temperature alle quali si opera, i terreni di coltura, i reagenti, l’esposizione degli embrioni a condizioni ambientali sfavorevoli; il trasferimento delle morule e delle blastocisti su endometri iperstimolati; la possibile interferenza delle infinite sfaccettature cliniche delle tante forme di sterilità e di ipofertilità. Come ho già scritto, un protocollo di studio realmente accettabile dal punto di vista scientifico ci è praticamente proibito per ragioni deontologiche e per motivi pragmatici, ed è difficile dire quanto sarà possibile completare queste complicate indagini.

Intanto, vediamo quali sono le cose che possiamo considerare almeno molto probabili. Anzitutto, non è del tutto certo che la tecnica impiegata sia determinante, nel definire il rischio malconformativo, e la stessa cosa si può dire per l’origine degli spermatozoi utilizzati. Si deve peraltro ammettere che gli ultimi studi del gruppo di Bruxelles, e in particolare quello reelativo ai bambini di 8 anni, rappresenta un valido motivo per sospettare che la microiniezione possa essere responsabile di un certo numero di malconformazioni (indipendenti dalla caratterizzazione genetica del padre) e che sarebbe sbagliato e stupido non tenere nel debito conto questi fondati sospetti.  In secondo luogo non ci sono apparenti aumenti di rischio legati al congelamento dei pre-embrioni, cosa che è meno certa (per mancanza di dati) per il congelamento degli ootidi e ancora di meno per quello degli oociti (che è ancora sperimentale). Poi, anche se il problema non riguarda più l’Italia, non ci sono evidenze di rischio relativamente allo sviluppo dei pre-embrioni che sono stati sottoposti a biopsia per eseguire indagini preimpiantatorie. Infine, lo sviluppo psicologico e le capacità cognitive dei bambini non sembrano minimamente influenzati dal modo in cui sono stati concepiti.

Restiamo dunque con questo dubbio, che al momento siamo incapaci di dirimere completamente, che riguarda le ragioni dell’aumento – fondamentalmente modesto, ma sufficiente per avere significatività statistica – delle malconformazioni fetali: quanto spetta alla tecnica e quanto alla condizione di sterilità. Dobbiamo trarne inevitabilmente delle conclusioni.

A mio avviso, sapere che esiste un rischio, per piccolo che sia, dovrebbe confermarci nel principio che le tecniche di PMA sono residuali e che la loro indicazione diventa corretta quando non esistono altre strade esplorabili con un minimo di logica e di buon senso. E questo concetto di “tecnica residuale” è particolarmente valido per la microiniezione. Come capirete, diventa fondamentale la capacità di esprimere una “prognosi”, o meglio ancora tante prognosi diverse per quante sono le strade percorribili, perché solo così le coppie possono fare la loro scelta.

Perché poi, in fondo, questa è la cosa importante, la scelta personale, che può essere fatta solo quando tutto è noto e tutto è chiaro, al termine di un corretto “consenso informato” e naturalmente nei limiti delle attuali conoscenze. Qualcuno vorrebbe che, considerati i rischi della PMA, dalle iperstimolazioni ai rischi fetali, tenendo conto delle molte cose che non sappiamo in questo campo, i medici abbandonassero l’uso di queste tecniche. Sono indeciso se considerare queste richieste il frutto di una grande stupidità o quello di una straordinaria ignoranza. Le tecniche di PMA sono una cura della sterilità, e hanno – come tutte le cure – costi e benefici. Tra i compiti dei medici, oltre a quello di operare per aumentare i benefici e diminuire i costi, c’è anche quello di illustrare in modo semplice, completo e comprensibile, tutti i vantaggi e tutti gli svantaggi impliciti alle coppie che non riescono ad avere figli e che possono riuscire ad averne solo percorrendo quella specifica strada. Saranno poi loro – come è giusto e come è logico – a decidere.

Prendo in esame per ultimi i dati relativi ai bambini nati da terapie semplici della sterilità, come le inseminazioni, e ciò soprattutto perché i risultati di queste tecniche non sono generalmente inseriti in alcuni registri e la letteratura medica è praticamente assente. Ho trovato solo quattro pubblicazioni che riguardano le inseminazioni intrauterine e riportano, oltretutto, risultati non omogenei.

Nel 1999 Nuojua-Huttunen (Human Reproduction, 14, 2110) ha pubblicato dati del Finnish Medical Birth Register relativi a III gravidanze ottenute con inseminazioni intrauterine, 333 gravidanze spontanee e 333 gravidanze in vitro. Non c’erano differenze significative, nei tre gruppi, rispetto ai dati relativi alla salute e alla normalità dei bambini.

Nel 2002 J.X.Wang (Human Reproduction, 17, 945) ha messo a confronto la percentuale di nascite pretermine di 1015 bambini nati da inseminazione intrauterina (in parte con seme di donatore), 1019 bambini nati da PMA e 1019 bambini concepiti naturalmente. Escludendo i parti gemellari, la probabilità di nascere, prematuramente, calcolata rispetto ai concepimenti naturali, era pari a una volta e mezzo per i nati da IUI e due volte e mezzo per i concepiti mediante FIVET o ICSI. Non c’erano differenze, per le tecnologie semplici, in rapporto all’origine del seme.

M. Gaudoin (Am J Obstet Gynecol, 2003, 188, 611) ha messo a confronto 133 bambini nati da gravidanze ottenute con induzione dell’ovulazione seguita da inseminazione artificiale con 109.443 gravidanze registrate nel registro nazionale scozzese. Le loro conclusioni erano tra i 133 bambini esaminati erano significativamente presenti parti prematuri e basso peso alla nascita, ma che questi problemi non riguardavano le donazioni di seme.

W. Ombelet (Human Reproduction, 2006, 21, 1025) ha considerato i dati di un registro nazionale belga per confrontare i dati relativi a bambini nati dopo una stimolazione ovarica controllata, seguita o meno da una inseminazione artificiale. La ricerca è particolarmente interessante per l’alto numero di bambini che fanno parte della casistica ( 12.021 singoli e 3.108 gemelli, stessi numeri per il gruppo di controllo ). Ombelet riferisce di aver potuto verificare che i nati da gravidanze singole ottenute da stimolazioni ovariche controllate seguite o non seguite da inseminazioni sono più frequentemente prematuri, hanno problemi di peso e una maggiore mortalità e morbilità perinatale. Indipendenti alla mortalità perinatale, lo stesso caso può dirsi per i gemelli. E’ evidente che le coppie debbono essere informate dei maggiori rischi relativi anche alle tecniche più semplici e meno invasive.