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La dittatura dell’embrione2018-12-15T13:44:07+02:00

La dittatura dell’embrione

Giugno 2018

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Lewis Wolpert, autore di uno dei più diffusi manuali di biologia, ha scritto che il momento realmente più importante della nostra vita non la nascita, né il matrimonio, né la morte, ma la gastrulazione (Gastrulation and the evolution of development. In: W.D.Stein e F.J.Varela Editori, Thinking about Biology, New York, Addison-Wesley,1993). Questa opinione è condivisa da numerosi embriologi ed è stata particolarmente difesa da uno dei più famosi ontologi del mondo , Barry Smith, dichiaratamente cattolico (per qualche può significare) e autore, insieme a Berit Brogaard di un famosissimo articolo sull’argomento (Sixteen days. Journal of Medicine and Phylosophy, 2003,28,45).Anche se il suo è, secondo la sua stessa ammissione, un esercizio di ontologia, dal quale non possono essere tratte conclusioni etiche, vale la pena di riassumerlo con qualche dettaglio. In teoria, per stabilire in quale momento il prodotto del concepimento soddisfa le dieci condizioni necessarie per poter essere considerato insieme una sostanza e un sistema causale unificato Barry Smith suggerisce di considerare questo elenco di possibilità:

-Lo zigote monocellulare (giorno 0)

-Lo zigote multicellulare (giorni 0-3)

-La morula ( giorno 3)

-La formazione della blastocisti (giorno 4)

-L’impianto (giorni 6-13)

-La gastrulazione ( giorni 14-16)

-L’inizio della neurulazione ( giorno 16)

-La formazione del cervello rudimentale (giorni 40-43)

-La fine del primo trimestre (giorno 98)

-La vitalità (intorno al 130mo giorno)

-La sensibilità (intorno al 140mo giorno)Il cosiddetto “quickening” ( intorno al 150mo giorno)

-La nascita ( giorno 266)

-Lo sviluppo dell’autocoscienza ( qualche tempo dopo la nascita)

Nel loro documentatissimo articolo Barry Smith e Berit Brogaard analizzano puntualmente tutti i diversi momenti per concludere che il primo momento in cui l’embrione soddisfa le condizioni per essere una sostanza che sia anche un sistema causale relativamente isolato dotato di un’organizzazione modulare, grazie alla quale è capace di contenere al proprio interno numerosi altri sistemi causali relativamente isolati è la gastrulazione: è in fatti in questo momento , caratterizzato dal fatto che gli abbozzi degli organi vengono portati nelle posizioni in cui si svilupperanno, che l’embrione cessa di essere un gruppo di cellule omogenee e si trasforma in una singola entità eterogenea, cioè in un essere vivente multicellulare individuale dotato di un asse corporeo , di simmetria bilaterale e di meccanismi propri per proteggere se stesso e per ripristinare una condizione di stabilità a fronte di situazioni di disturbo. E’ infatti con la gastrulazione che l’asse cranico dell’embrione e le sue superfici dorsale e ventrale vengono alla luce ed è a partire da questo momento che si formano i confini di una entità coerente e separata. In questo stadio di sviluppo si forma per la prima volta un confine spaziale capace di circoscrivere l’embrione rispetto allo spazio extra-embrionario. Esistono dunque tutte le ragioni per credere – concludono gli autori – che individuare l’inizio dell’esistenza della persona umana in questa fase dello sviluppo embrionario rappresenti qualcosa di più di una semplice ipotesi: anche se la vita umana è già presente nelle fasi precedenti, è solo con la gastrulazione che ci troviamo di fronte all’evento soglia che inaugura l’esistenza di un essere umano.

Ho fatto questa lunga premessa perché mi aiuta a esprimere un concetto che miei colleghi boeticisti cattolici detestano: i vari mondi religiosi si sono avventurati un po’ troppo spensieratamente nel labirinto delle ipotesi sull’inizio della vita personale e si sono perduti. In realtà la metà almeno delle ipotesi citate da Smith è sostenuta da un bioeticista, da un filosofo o da un biologo cattolico e a queste bisogna aggiungerne altre: l’impianto, la comparsa di un genoma embrionario, la perdita della totipotenza, la scomparsa della capacità di divisione gemellare, l’ilomorfismo.

Inutile considerare le ipotesi del magistero cattolico sull’inizio della vita personale dei tempi più lontani, epoche nelle quali la biologia della riproduzione era circondata dal più fitto mistero: le ipotesi che ho citato sono tutte recenti e colpisce di esse il fatto di non aver tenuto in alcun conto della posizione ufficiale della Chiesa, che intanto continuava a brancolare nel buoi e a cambiare opinione, passando nel tempo dall’ipotesi dello zigote (con tanto di errore definitorio) a quella attuale di attivazione dell’oocita che ha vantaggi (più indietro di così non si può andare) e svantaggi ( si tratta di due cellule ancora separate) e comunque non convince nessuno.

L’attuale situazione può essere così descritta: aver rinunciato alla possibilità di far definire l’inizio della vita personale ai filosofi e di aver delegato questo diritto alla biologia ha consentito la formulazione di un numero effettivamente molto elevato di definizioni, tutte basate su principi logici piuttosto solidi, nessuna vincente.

La conclusione è che questo tema può essere risolto solo da un accordo tra le parti cioè da un compromesso .

Mi soffermerò brevemente su una definizione che non dipende dalla biologia, quella degli ilomorfisti , poco nota e che ha, malgrado le apparenze, sostenitori anche tra i teologi.

L’ ilomorfismo.

Joseph F. Donceel, sacerdote, professore di filosofia alla Fordham University di New York, nel considerare il punto di vista cattolico relativo all’inizio della vita personale, amava ricordare che esiste ancora una posizione minoritaria, all’interno della Chiesa che continua a considerare come corretta la posizione sostenuta da Tommaso d’Aquino; secondo Donceel – e qui non ho molta possibilità di capire quanto le sue idee fossero realistiche – questa posizione “avrebbe tuttavia un certo prestigio e starebbe riguadagnando favore tra i teologi cattolici”. Sto citando un articolo di Donceel scritto nel 1970 (A liberal Catholic’s view. In: Abortion in a Changing World, vol. I, Columbia University Press, New York, a cura di Robert E. Hall). Credo che non ci sia quasi bisogno di ricordare che secondo questa teoria non c’è un essere umano agli esordi della gravidanza. Meglio usare le stesse parole di Donceel: “there is certainly no human being during the early stages of pregnancy”.

Cercherò di riportare fedelmente le idee di Donceel, in pratica traducendo alcuni suoi scritti. Egli contrappone quella che secondo lui era l’opinione del Magistero cattolico (l’ipotesi della animazione immediata) la stessa teoria che per molti secoli era stata sostenuta dai filosofi e dai teologi cattolici, quella secondo la quale l’anima verrebbe infusa nel corpo solo quando questo comincia a prendere un aspetto umano e possiede gli organi fondamentali. Secondo questa teoria prima di questo momento l’embrione è vivo, ma nello stesso modo in cui è viva una pianta o è vivo un animale. Possiede dunque, usando una terminologia tradizionale, un’anima vegetativa, o un’anima animale, ma non un’anima umana. In parole più comprensibili oggi, ha raggiunto gli stadi di esistenza che si possono definire prima fisiologici, poi psicologici, ma non ancora quelli spirituali. Non è dunque una persona umana anche se sta evolvendo in questo senso. Questa è la teoria della animazione ritardata.

Sia Tommaso che molti grandi pensatori medioevali sostenevano questa teoria perché erano ilomorfisti; e perciò ritenevano che l’anima umana è la forma sostanziale dell’uomo, mentre il corpo umano è il risultato dell’unione della sua anima con la materia. Questa dottrina sostiene che l’anima umana sta al corpo come la forma della statua sta alla statua stessa: non può esistere prima che esista la statua, non è qualcosa che lo scultore prima prepara e poi introduce in un blocco di marmo, ma che può esistere solo quando la statua è finita. Nello stesso modo l’ilomorfismo afferma che l’anima dell’uomo può esistere solo in un vero corpo umano.

Tommaso d’Aquino ha dedicato ben cinque capitoli nel suo Summa contra Gentiles al problema dell’immaterialità dell’anima, che sarebbe infusa da Dio nel materiale biologico in formazione. Secondo Tommaso la categoria di persona può essere applicata al feto solo in fase più che avanzata, dopo l’immissione dell’anima razionale e quando l’individuo umano è tale a tutti gli effetti. Il materiale biologico, sempre secondo Tommaso, passa, durante la gestazione, attraverso tre fasi di mutazione sostanziale: dapprima quella di vegetale, che garantisce all’essere umano le capacità elementari di esistenza, poi quella di animale, che corrisponde all’acquisizione delle facoltà sensitiva, infine la fase intellettiva, in cui finalmente il feto comincia a disporre di razionalità e deve dunque essere considerato un essere umano a tutti gli effetti. Dunque, dal punto di vista filosofico, per poter essere considerato essere umano, il materiale biologico deve acquisire una certa complessità (che deve essere adeguata allo scopo) e deve attraversare diverse fasi, mutazioni sostanziali che però non negano la continuità dello sviluppo. Definire persona un agglomerato di poche cellule sarebbe – così affermava Maritain – come chiamare bebè un oocita fecondato.

Per spiegare le ragioni della sua adesione alla teoria dell’ilomorfismo, Arthur Donceel richiama, con puntiglio, la filosofia di Tommaso, e quelle che considera le sue capacità di intuizione: Tommaso ignorava tutto ciò che riguarda il DNA, i geni, i cromosomi, insomma il codice della vita, ma “sapeva” che quello che cresce nel grembo di una donna non poteva essere, almeno nelle prime fasi della gravidanza, un organismo completo, un vero corpo umano: non poteva dunque possedere un’anima umana, così come un blocco di marmo non può possedere una forma umana, perché la materia non era adatta a ricevere la forma corrispondente ( secondo la teoria per la quale la realtà è composta da forma e materia). Come tutti i grandi pensatori medioevali sapeva che quello che cresceva in quel grembo si sarebbe sviluppato e sarebbe diventato un corpo umano (anzi riteneva che esistesse una specifica inclinatio che l’avrebbe portato a quella conclusione) e che quindi lo si poteva considerare virtualmente, potenzialmente tale, ma negava che un’anima attuale potesse dimorare in un corpo virtuale.

La Chiesa cattolica, che aveva adottato ufficialmente la concezione ilomorfica della natura umana nel Concilio di Vienne del 1312 era così convinta di questa dottrina da proibire per secoli ai fedeli di battezzare quei nati prematuri nei quali non fosse possibile riconoscere un qualche aspetto umano (un gesto che poteva essere considerato come una offesa al sacramento). All’inizio del XVII secolo, come conseguenza della combinazione di microscopi artigianali e di fantasie sovraeccitate, fu accettata per un certo periodo di tempo la teoria della preformazione: lo sviluppo organico consiste unicamente nello sviluppo graduale di organi e di strutture che sono presenti fin dall’inizio anche se visibili solo al microscopio. Aver visto l’homunculus nello spermatozoo consentiva d’accettare l’ipotesi che l’embrione avesse un’anima fin dalle fasi iniziali del suo sviluppo: anche una statua visibile solo al microscopio deve per forza avere una forma per poter essere definita tale: l’animazione immediata diventava compatibile con la concezione ilomorfica dell’uomo.

La teoria della preformazione ebbe breve vita e uscì rapidamente di scena, coperta dal ridicolo e inseguita da molte risate. La Chiesa cattolica ritornò all’ilomorfismo, ma lo interpretò alla luce dell’epigenesi, secondo la quale l’organismo sviluppa i suoi organi attraverso un complicato processo di crescita, divisione, differenziazione e organizzazione. Secondo Donceel la mancata conferma dalla teoria della animazione ritardata e dell’ilomorfismo fu da addebitare all’influenza del dualismo di Cartesio, per il quale sia l’anima che il corpo sono sostanze complete, un’idea molto diversa dall’ilomorfismo e che sostituisce la concezione dell’anima come “forma nella statua” con quella di “fantasma nella macchina”.

E’ bene precisare che non tutti sono d’accordo su questi punti. Stefano Miniati e Walter Bernardi, in una breve monografia intitolata “Toscana e Europa – Nuova scienza e filosofia tra ‘600 e ‘700”, a cura di Ferdinando Abbri e Massimo Bucciantini (Franco Angeli Editore, 2006) sostengono che il principio dell’animazione immediata del feto si è fatto strada e infine si è imposto in modo travolgente nel corso degli anni 50 e 60 del ‘600, prima (e indipendentemente) dall’avvento della teoria preformista che di lì a poco avrebbe sostituito l’epigenesi aristotelico-scolastica. Sono però gli stessi autori a ricordare che anche nel corso della seconda metà dell’ottocento, prima e dopo la pubblicazione della lettera Apostolicae Sedis (nella quale Pio IX stabiliva che il prodotto del concepimento, quale che sia l’epoca del suo sviluppo, possiede un’anima), hanno continuato a persistere all’interno della Chiesa prospettive legate all’impostazione ilomorfico-tomista che rivendicavano l’animazione tardiva del feto. In molti casi – scrivono gli autori – si trattava di teologi autorevoli e influenti, in altri addirittura di pronunciamenti ufficiali di supreme Congregazioni vaticane, come il Sant’Uffizio. Ad esempio, nel 1861 la Congregazione del Sant’Uffizio votò a larga maggioranza una delibera che si fondava sull’assunto che la teoria dell’animazione ritardata era “la più comune e veramente probabile opinione” (Emmanuel Betta, Quaderni Storici, XXXV,2000,105, p. 785). E’ dunque molto probabile che le due teorie – animazione ritardata e animazione immediata – si siano alternate nel corso dei secoli senza che una abbia mai realmente prevalso. Dal canto mio, sono molto d’accordo con Maurizio Mori, il quale sostiene giustamente che la tradizione tomista ha continuato a godere di ampio credito nel corso del Novecento e almeno fino agli anni 60, quando si è verificato un profondo cambiamento nella posizione del Clero, cambiamento motivato non da posizioni scientifiche, ma da riflessioni morali e considerazioni pragmatiche: secondo Mori il passaggio del Magistero cattolico al paradigma dell’animazione ritardata rispondeva alla necessità di controbattere meglio i fautori dell’aborto, ormai delineato a entrare nelle legislazioni dei principali paesi occidentali.

La bioetica fuori dall’Italia

Ho dedicato molto (forse troppo) spazio alla discussione che si è svolta e si sta svolgendo nel nostro Paese, una discussione inevitabilmente connotata dalle polemiche tra laici e cattolici ai problemi del nostro paese, che sono peculiari in quanto inevitabilmente connotati dalle polemiche tra laici e cattolici. Aggiungerò ora qualche breve nota in merito a quanto scienziati e bioeticisti dicono su questi stessi argomenti lontano da qui, premettendo solo che all’estero le discussioni italiane sono, per molti versi, incomprensibili.

L’usuale capacità degli anglosassoni di evitare la trappola dei pregiudizi li ha anzitutto indotti a ragionare, con grande concretezza, sulle definizioni, sempre fondamentali quando si affrontano problemi di medicina e di biologia, ancora di più se si tentano giudizi morali, sempre minacciati dal rischio dell’incomprensione reciproca. Per questo motivo mi sembra di straordinaria importanza lo sforzo di convenire su una definizione biologica di embrione umano, un tentativo sul quale si è accesa, proprio in questo momento, una interessante discussione. Al centro del dibattito c’è un articolo recentemente pubblicato da J.K.Findlay (Human embryo: a biological definition. Human Reproduction, 2007, 22, 905) del quale riporterò gli elementi essenziali con qualche dettaglio.

La definizione di embrione umano include generalmente tutte le entità biologiche che si determinano a seguito della fertilizzazione di un oocita umano da parte di uno spermatozoo umano. Recentemente però reso possibile creare analoghe entità, cui va assegnato in linea di principio la definizione di embrioni, con altri mezzi, quali il trasferimento del nucleo di cellule somatiche (SCNT) e l’induzione della partenogenesi. Molti biologi si sono posti il problema della opportunità di “ripensare” alla definizione biologica di “embrione umano”.

Findlay ha esaminato in modo sistematico i differenti problemi coinvolti, cominciando con l’analisi delle proposte di J. Morgan (J Med Ethics, 2004,30,524), di non chiamare embrioni le entità biologiche che vengono prodotte in assenza di fertilizzazione.

Riprendo dalla pubblicazione di Findlay un elenco delle entità che possono essere prodotte applicando le varie tecnologie emergenti tenendo conto delle loro potenzialità di sviluppo e della loro costituzione genetica L’analisi di queste possibilità – alcune delle quali ancora soltanto teoriche – dimostra che le biotecnologie possono produrre strutture che non hanno capacità di impianto o che non possono consentire la nascita di individui viventi, possono mancare del contributo genetico di uno dei due gameti e possono contenere DNA di due specie differenti.

Le conclusioni di Findlay possono essere così riassunte:

1. per poter essere definita “embrione umano” una entità biologica deve essere potenzialmente in grado di formare un essere vivente;

2. non è invece indispensabile, a questo scopo, che l’entità biologica si sia formata a seguito di un processo di fertilizzazione e di un meccanismo di singamia;

3. la definizione biologica di embrione umano non dovrebbe escludere in modo specifico le entità che si sono formate con il DNA di due differenti specie;

4. è necessario chiederci poi se la definizione di embrione umano debba far riferimento a un punto specifico di sviluppo nel tempo. Nella biologia naturale la definizione di embrione umano include generalmente un riferimento a un certo momento di sviluppo, ma nel contesto della capacità potenziale di uno sviluppo continuo. In questo senso il termine embrione umano non si può applicare prima della singamia, cioè del completamento della fertilizzazione, il momento in cui si forma il genoma del nuovo individuo a partire dai genomi dei genitori.

Una definizione di embrione umano basata sulla singamia esclude però le biotecnologie riproduttive che non contemplano la fertilizzazione di un oocita umano da parte di uno spermatozoo umano. Alcune di queste tecnologie sono teoricamente in grado di consentire la produzione di esseri umani viventi, altre no. Può essere dunque più appropriato valutare la capacità potenziale che hanno queste entità di svilupparsi fino alla comparsa della linea embrionale primitiva o di andare oltre questa comparsa.

Dunque la definizione di embrione umano dovrebbe essere separata in due componenti: la prima, relativa ai processi di sviluppo che risultano dalla fertilizzazione di un oocita umano da parte di uno spermatozoo umano e la seconda per quanto può derivare da altre metodologie.

Una considerazione finale riguarda l’opportunità che la definizione si riferisca alla singamia, che non può essere confermata visivamente fino all’inizio della prima divisione mitotica. E’ probabilmente meglio, da un punto di vista genetico, scegliere un evento che possa essere verificato direttamente, come è appunto la prima divisione mitotica.

A questo punto, Findlay propone la seguente definizione di embrione: un embrione umano è una distinta unità che può prendere origine da:

a) la prima divisione mitotica, al momento in cui si completa la fertilizzazione di un oocita umano da parte di un nemasperma umano;

b) qualsiasi altro processo che dia inizio allo sviluppo organizzato di una entità biologica con un genoma nucleare umano, o un genoma nucleare umano modificato, che abbiano la capacità potenziale di svilupparsi almeno fino alla stadio in cui compare la stria primitiva.

Queste entità non debbono aver superato le otto settimane di sviluppo a partire dalla prima divisione mitotica. Questa definizione cerca di tener conto delle categorie che rappresentano i vari stadi di sviluppo, le capacità potenziali della struttura e l’origine del DNA che contribuisce alla formazione del nuovo individuo. Findlay ammette che si possono creare situazioni confuse e anomale, come la possibilità di definire embrione una entità che si è formata da una fertilizzazione naturale e che manca poi della capacità potenziale di proseguire nello sviluppo, mentre potrebbe non meritare questa definizione un’entità analoga artificialmente. D’altra parte, commenta, non c’è dubbio che la definizione di embrione spetta di diritto a un oocita umano fertilizzato da un nemasperma umano, indipendentemente dalla capacità potenziale di sviluppo.

Sia Pennings, che G. de Wert e gli altri bioeticisti anglosassoni che sono intervenuti in questa discussione non hanno lesinato critiche ai bioeticisti cattolici, accusati di fetalismo, un neologismo che inizia a sostituire il termine “nascista” che si usava in Italia ai tempi del referendum sull’aborto. Tutti poi respingono con decisione la proposta di una moratoria. Nelle discussioni che continuano a riempire le pagine dei maggiori giornali scientifici americani ed europei trova spesso spazio la nostra recente legge 40/2004, considerata da tutti un vero insulto per il buon senso. La mia personale sensazione è che per vari motivi i ricercatori stranieri tendono a trattare l’Italia come una sorta di parente povero e a criticare in modo particolarmente feroce il nostro turismo procreativo. Mi sembra francamente un po’ esagerato, anche perché gli italiani non sono gli unici turisti. Ad esempio l’HFEA inglese (Human Fertilization and Embriology Autority) ammette la diagnosi genetica pre-impiantatoria per la compatibilità HLA solo per i casi di malattia ereditaria e non per quelli di patologia sporadica (non ereditaria). Gli inglesi che vogliono eventualmente sfuggire a questa proibizione vanno, naturalmente se sono abbastanza ricchi, negli Stati Uniti (J.A. Robertson, Fertility and Sterility, 2004, 92, 890).

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Ho cercato informazioni sul dibattito etico che certamente si sta svolgendo in tutti i Paesi del mondo anche per quanto concerne l’ India, ma non mi sembra che al momento si possa dire qualcosa di concreto. L’induismo non è ostile alla procreazione medicalmente assistita (la sterilità viene considerata una sorta di maledizione sociale), ma molte delle novità che le nuove tecniche hanno introdotto sono oggetto di discussione e non sono state ancora normate in modo definitivo (A.Kumar, Reproductive BioMedicine Online, 2007,14,140). Per quanto riguarda il mondo arabo, invece, mi sembra che il vero problema morale riguardi la donazione di gameti e l’introduzione di un patrimonio genetico estraneo alla coppia, proibita in ossequio ai principi espressi dal Corano, così come è proibita la maternità surrogata.

Mi sembra infine giusto terminare questa rassegna dedicata alla discussione sui temi della bioetica che compare nella letteratura internazionale riportando le parole di un medico americano, chiamato a testimoniare contro una proposta di legge del New Hampshire (N. H. House Bill 1719-FN), che stabilisce che l’inizio della vita coincide con il momento della fertilizzazione, e ciò per regolare la fase prenatale della vita dal punto di vista dei servizi di maternità: “Non è compito della scienza rispondere a questioni spirituali. Vivere in una società pluralistica richiede che ricordiamo tutti l’incertezza che circonda alcune questioni morali e la confusione che può nascere dal progresso scientifico. Dobbiamo anche ricordare di rispettare le scelte degli altri se vogliamo che gli altri rispettino le nostre. Dal punto di vista della difesa costituzionale della libertà di religione, è necessario evitare ogni tipo di dichiarazione ufficiale sull’inizio della vita personale” (Paul D Manganiello, Fertility and Sterility, 2007,88,272).

Vediamo adesso cosa pensano, di questi argomenti, le altre “religioni del libro”, anch’esse sempre molto interessate al quesito relativo all’inizio della vita umana personale.

Gli ebrei

La religione ebraica ha a lungo dibattuto il problema dell’inizio della vita personale: il concetto generale che si può evincere oggi da molti ambiti è che è necessario un periodo di maturazione definito – come è quello della gravidanza a termine – perché si produca un essere umano autonomo. Questo concetto, che ha anche un preciso valore biologico, si affianca al principio più generale secondo il quale, se è vero che la vita del nuovo essere comincia al momento del concepimento, (alcuni rabbini parlano della fusione dei gameti ma, come ho già detto, la definizione è troppo vaga per essere utile), è solo con la nascita che si determina il cambiamento essenziale, cioè la comparsa dell’autonomia dell’individuo.

Non tutti i momenti dello sviluppo fetale hanno lo stesso valore: l’acquisizione dello statuto di persona coincide dunque con il momento dell’espulsione dal corpo materno e ciò malgrado i richiami biblici all’esistenza di una vita individuale ancor prima ella nascita (“ascoltatemi isole, e state attenti popoli lontani: il Signore mi ha chiamato fin dal ventre materno, egli ha pronunciato il mio nome fino dai visceri di mia madre…” Isaia,49,1). Del resto, nel Talmud c’è una formula che definisce il feto in modo molto simile a quella latina (portio viscerum matris) il che valeva, ad esempio, per l’acquisto di un animale gravido (il feto apparteneva al compratore) e per la conversione di una femmina incinta, che coinvolgeva il bambino che cresceva nel suo grembo. La Genesi racconta che Tamar fu condannata a morte, gravida, per aver violato la legge sul levirato e che l’esecuzione, poi annullata all’ultimo momento, doveva essere eseguita prima del parto. La legge considerava dunque il feto come una appendice della madre e ne ignorava la sorte, anche se in alcuni casi imponeva che fosse applicato un metodo molto brutale di induzione dell’aborto prima di mettere a morte la madre. Su questo punto – il feto appendice della madre – molti rabbini non sono d’accordo ed esiste una ulteriore divergenza in merito alle implicazioni pratiche della scelta di un principio o del suo contrario: secondo alcuni questa sarebbe la discriminante che regola l’intera materia, per altri il principio può essere applicato solo in alcuni casi particolari.

La posizione del feto è comunque molto diversa da quella del nato, anche se in molti casi si arriva a una equiparazione di fatto. Viene prevalentemente suggerito, a mo’ di esempio, il problema della profanazione del sabato, accettabile solo per tutelare un valore più alto, come può essere quello della vita umana. Se il principio è ovvio per ogni persona a partire dalla nascita, altrettanto non è per il feto: è vero che si può profanare il sabato per salvarlo, ma non è chiara la motivazione, che per alcuni và cercata nella salvaguardia della sua vita potenziale, per altri nel dovere di evitare un rischio alla salute della madre.

Il privilegio della salute materna è comunque molto chiaro in tutti i testi specializzati. Qui è però necessaria molta prudenza per evitare errori nell’interpretazione del pensiero ebraico, cosa per sé piuttosto facile. E’ dallo scioglimento del Sommo Sinedrio che non esiste più una autorità rappresentativa dell’ebraismo ufficiale e il Talmud contiene, soprattutto, discussioni tra due o più maestri o tra differenti scuole, spesso in netta contrapposizione e comunque tutte “espressioni del Dio vivente”. E’ vero però che sul tema dell’aborto non esistono particolari conflitti: molto testi citano Maimonide (Ramban, vissuto nella seconda metà del XII secolo) che considerava lecito l’aborto solo se il feto minacciava di diventare “l’assassino di sua madre”. Per la verità si citano anche maestri come Rabbi Ishmaél, che chiedeva che fosse applicata, ai colpevoli di aborto, la stessa punizione inflitta a Caino, opinione peraltro non condivisa dalla maggioranza del Sommo Sinedrio. Nel XVII secolo rav Shah scrisse che l’embrione, prima del 40° giorno, non è nulla, goccia priva di significato, atomo senza scopo: un aborto, in quei giorni, non ha rilevanza etica, perché l’embrione non ha ancora un’anima. Molti rabbini, in seguito, hanno giustificato l’aborto in circostanze particolari, come ad esempio per evitare il rischio dei crudeli trattamenti inflitti dai nazisti alle donne gravide nei ghetti di alcune città. E’ comunque e in ogni caso escluso, per la legge ebraica, che l’aborto possa essere paragonato a un omicidio.

Nel Talmud la condizione necessaria perché chi procura un aborto sia condannato solo a una pena lieve (una ammenda) è legata al significato della parola ebraica “ason”, che ho trovato tradotta in vario modo ma che dovrebbe soprattutto alludere a una disgrazia. Nella traduzione dei Settanta il significato del passo è cambiato e si fa riferimento a qualcosa di formato: “Se non ci sarà forma allora colui che avrà percosso la donna (fino a farla abortire) sarà costretto a pagare una ammenda. Se ci sarà forma, allora metti vita per vita”. Secondo questa versione il feto diventa un essere umano vivente dal momento in cui si è formato (cioè ha assunto sembianze antropoidi) un concetto che accoglie la distinzione aristotelica tra feti formati e feti non formati.

Anche se, per alcuni rabbini, l’atto sessuale è necessario per ubbidire al precetto biblico di crescere e moltiplicarsi, la maggior parte delle autorità religiose ebraiche ritiene che la cosa realmente importante sia il risultato finale e ammette sia l’inseminazione artificiale (con il seme del marito) che le tecniche di procreazione medicalmente assistita. E’ interessante notare, a questo proposito, l’importanza particolare che assume per gli ebrei il problema della credibilità dei medici. Ecco, ad esempio, l’elenco delle regole fissate dal rav Goren, nel periodo in cui era rabbino capo di Israele, per permettere di effettuare la fecondazione in vitro:

– nel dipartimento in cui si eseguono le PMA nel periodo compreso tra il prelievo dell’oocita e il trasferimento dell’embrione non devono essere eseguiti altri trattamenti per evitare ogni possibile confusione tra i prodotti del concepimento e tra i gameti;

– per la stessa ragione, in quel dipartimento non debbono esistere banche del seme;

– le PMA debbono essere eseguite solo su coppie sposate regolarmente;

– il direttore del servizio deve firmare un documento nel quale dichiara che non esiste possibilità di errore nell’attribuzione dei gameti e degli embrioni.

Gran parte dei quesiti morali proposti dalle tecniche di PMA sono stati proposti dai rabbini in modo abbastanza omogeneo e in questo modo la posizione degli ebrei in merito all’inizio della vita personale è stata ulteriormente precisata. Oggi Israele è uno dei luoghi nel mondo nei quali la fecondazione extracorporea viene eseguita con particolare successo, per merito di una organizzazione molto efficace e di un coinvolgimento totale delle strutture pubbliche, oltre che di una ricerca scientifica avanzata e praticamente libera da vincoli politici e religiosi.

I protestanti

Al di fuori della riflessione morale cattolica, nel composito mondo della religione cristiana protestante, esiste una ampia letteratura sul tema dello statuto ontologico dell’embrione e dell’inizio della vita personale. Questa diversità di opinioni non riguarda solo temi di prevalente interesse teologico e filosofico, come per molti versi è quello dell’inizio della vita personale, ma anche aspetti molto più concreti della fisiopatologia della riproduzione, come quello dell’aborto volontario. Solo a mò di esempio, riporto la dichiarazione definita “sociale” della Chiesa Evangelica Luterana Americana: ” Il linguaggio usato per discutere del problema dell’aborto non dovrebbe mai ignorare da un lato il valore della vita non nata e dall’altro quello della donna e delle sue relazioni umane… La preoccupazione per la vita della donna e per quella della vita che si sta formando nel suo grembo esprimono la stessa preoccupazione per la vita. Ciò ci richiede di modificare il linguaggio che usiamo nel parlare di aborto e di dichiararci non più in favore della vita ma in favore della scelta (this require that we move beyond the usual pro life versus pro-choice language in discussing abortion).

In questa sede mi limiterò a riferire brevemente alcune delle riflessioni espresse dagli evangelisti, le cui posizioni su questi temi sono state esposte con particolare chiarezza e lucidità soprattutto per quanto riguarda il tentativo di individuare la visione biblica.

Le posizioni che emergono dal dibattito sono soprattutto due: secondo la prima, la vita umana personale inizia con il concepimento, in pratica la stessa ipotesi formulata con un po’ più di convinzione dai cattolici, con la stessa quota di indeterminazione; per la seconda la vita umana ha inizio con l’impianto dell’embrione nell’utero. E’ bene premettere che l’espressione “vita umana” può generare confusione e rappresenta, nel dibattito, una sorta di scorciatoia. Anche coloro che ritengono che l’evento fondamentale che informa lo statuto dell’embrione sia l’impianto nel grembo della madre non negano che l’embrione sia “vita umana” nelle ore che precedono il suo inserimento in utero, ma assegnano a quella “vita” un significato del tutto particolare.

I sostenitori della prima tesi si appellano a una serie di riferimenti biblici che usano un linguaggio personalista per parlare dell’embrione, che suggeriscono che Dio possa chiamare le persone ancora prima della loro nascita o che faccia distinzione tra esse ancora prima che vengano al mondo. I riferimenti riguardano in particolare la creazione, la continuità dell’opera di Dio e l’alleanza del creatore con l’uomo, dai giorni in cui è ancora massa informe alla fine del tempo che gli è destinato. Su questa concezione dell’opera creatrice di Dio, della sua costante presenza e del suo impegno di grazia nei confronti degli uomini si basa il concetto che la vita umana inizia con il concepimento, una visione incompatibile con qualsiasi concetto di persona. Si diventa individui umani, dunque, nel momento in cui, nella sua vita embrionale, l’uomo è fatto ad immagine di Dio. Chi accetta questa tesi trova generalmente difficile ragionare di potenzialità (l’oocita fecondato è in realtà una persona potenziale) e ritiene che la propria tesi sia sostenuta dalla scienza, che stabilisce che l’informazione genetica necessaria per lo sviluppo della persona è contenuta nel concepito fin dall’inizio.

Chi ritiene che la vita umana abbia inizio con l’impianto dell’embrione in utero considera naturalmente “biologicamente umano” l’embrione prima dell’impianto: le sue perplessità riguardano unicamente il fatto che in questa fase dello sviluppo ci si possa riferire all’embrione come a una “persona umana”. In un libro che ha avuto molta fortuna (Life in our hands. A Christian Perspective on Genetics and Cloning. Inter-Varsity Press, Leicester, 2004) John Bryant e John Searle elencano, a sostegno di questa ipotesi, i seguenti motivi:

– anche se tutte le informazioni genetiche per lo sviluppo dell’essere umano sono presenti fin dalla fecondazione, è solo con l’impianto che il potenziale di sviluppo può realizzarsi. L’embrione deve avere una relazione fisica -essenzialmente di tipo parassitario – con la madre per poter interpretare la propria informazione genetica. La chiave di tutto questo sistema è rappresentata dalla placenta, senza la quale il corredo genetico dell’embrione sarebbe inutile e non potrebbe verificarsi alcun tipo di sviluppo. Una eventuale ectogenesi non modificherebbe l’importanza cruciale dell’impianto più di quanto la fecondazione in vitro possa modificare l’opinione di chi considera cruciale il momento della fecondazione;

– la formazione della placenta è parte vitale dello sviluppo embrionale ed è solo allo stadio di blastocisti che si possono distinguere le cellule destinate a formare il feto da quelle che daranno origine agli annessi fetali. La placenta è necessaria per la nutrizione e per la sopravvivenza del feto, ma è difficile considerala umana se non nel senso che costituisce materiale biologico umano. Qual è dunque lo statuto di quelle cellule iniziali dell’embrione destinate a diventare placenta?

– circa il 70% degli ovuli fecondati si perde e un gran numero di embrioni non riesce neppure a impiantarsi. Qual’ è lo statuto di questi embrioni? Costituiscono vita umana personale fino a che non muoiono? Contengono certamente un corredo cromosomico unico, ma ciò è privo di significato se il loro sviluppo si arresta. Qual’ è la responsabilità cristiana nei loro confronti?

– esiste, come spesso accade nel caso di disaccordo tra cristiani su quello che le Scritture insegnano, una differenza ermeneutica, che in questo caso sembra molto difficile poter risolvere: gli stessi Bryant e Searle ritengono assai poco probabile che le differenze tra le due posizioni possano essere superate.

E’ importante leggere almeno parte delle conclusioni dei due autori. I principi etici – essi scrivono – debbono essere bilanciati tra loro ogni volta che si è coinvolti in decisioni complesse, cosa che nel mondo attuale sembra accadere con sempre maggior frequenza. Per questo, Bryant e Searle dichiarano la propria perplessità di fronte a proibizioni assolute relative alle tecniche di riproduzione artificiale e alla ricerca sugli embrioni, proibizioni che sembrano negare alla sterilità e alle malattie genetiche ogni forma di sollievo. Essi ritengono invece opportuna e realistica l’applicazione biblica della responsabilità alla quale la Scrittura chiama gli uomini: praticare la giustizia, amare la misericordia e camminare umilmente con Dio. La giustizia e la misericordia dovrebbero sollecitarci a promuovere la salute e a prevenire la sofferenza, anche attraverso l’impiego delle nuove tecniche che la Scienza propone. Ed è il desiderio di camminare con Dio, concludono gli autori, che spinge a comprendere il significato della sua immagine nell’uomo e a capire a quale stadio essa si applichi nello sviluppo prenatale degli esseri umani.

Questa ipotesi di una vita personale che prende l’avvio dall’impianto dell’embrione in utero è alla base di una terza forma di personalismo (le altre due sono quelle definite come personalismo funzionalista e personalismo sostanzialista) che non attribuisce né alla biologia né alle prestazioni funzionali il carattere dirimente della persona. Questo personalismo, definito come relazionale, collega la dignità della vita, il contesto di relazioni in cui è inserita e il progetto di vita che esprime. Al termine dell’annidamento in utero (14°giorno) l’embrione stabilisce le comunicazioni cellulari con l’organismo materno e contemporaneamente ha luogo, al suo interno, l’inizio della distinzione tra la componente embrionaria e quella extraembrionaria. Da quel momento l’embrione non è più ospite dell’utero, ma è intimamente collegato ai tessuti materni, un legame che non è soltanto biologico, ma che consente un intenso rapporto di comunicazione e dal quale prende avvio un progetto di vita all’insegna della relazione. Inoltre l’impianto inizia la differenziazione interna, il processo di separazione tra l’embrione e le membrane. In altri termini, si definisce la relazione con la madre e si precisa quella con il mondo esterno: l’embrione diventa un essere-in-relazione. In questo modo la sua identità relazionale diventa un elemento significativo che l’embrione non possedeva prima dell’annidamento.

Secondo i sostenitori di questa particolare forma di personalismo, le relazioni rappresentano un tratto antropologico riassuntivo e qualificante, laddove la biologia è, antropologicamente, necessaria ma insufficiente e le funzioni sono importanti ma non determinanti. Una ulteriore conseguenza è che l’embrione non può essere pensato a prescindere dal suo progetto di vita e dal suo contesto: l’impianto in utero segnala il passaggio tra una fase in cui gli embrioni non hanno una configurazione relazionale significativamente umana e possono essere utilizzati (ad esempio per la ricerca scientifica) con prudenza e cautela e una in cui godono di una configurazione relazionale stabilita e debbono di conseguenza essere tutelati come persone.

Dunque, questa bioetica protestante individua, nella discussione sullo statuto dell’embrione, due scorciatoie che ci invita a evitare: la prima è quella del sostanzialismo filosofico religioso, che considera l’embrione in modo avulso rispetto al contesto e al progetto di vita e gli attribuisce lo Statuto di persona in modo meccanico e generico “impersonale” (è il termine utilizzato nel testo). In questa ottica ogni embrione è persona solo per il fatto di essere definito così biologicamente. Parlare in modo astratto di “uomo-embrione” a prescindere dalla sua specifica collocazione e dalla valutazione dell’itinerario vitale nel quale è inserito è un cedimento al “monismo antropologico” che può essere sostenuto solo ricorrendo a presupposti naturalistici molto lontani dalla prospettiva biblica.

La seconda scorciatoia è quella del personalismo laico, che lascia aperto e indefinito il profilo antropologico dell’embrione, arrivando a mettere in discussione l’umanità di tutta la vita prenatale e di tutte quelle forme di vita umana che non sono ritenute adeguate. Sostenere che l’inizio della vita non è un momento in sé, ma una fase vitale, un processo in cui l’essere umano assume progressivamente forma e carattere umani vuol dire lasciare che sia il criterio arbitrario della maggioranza a decidere, a seconda delle convenienze. Significa anche aprirsi a varie forme di dualismo antropologico in cui le diverse dimensioni dell’umano sono giustapposte, se non polarizzate. La supremazia della norma biologica viene sostituita con quella delle situazioni mutevoli, ma il risultato non cambia perché si tratta pur sempre di uno sbilanciamento. Invece di scegliere tra un normativismo del dato biologico e un situazionismo delle funzioni in divenire è necessario collegare le prospettive in modo di farle interagire (L. De Chirico, La pratica dell’uno e del molteplice: l’etica delle prospettive. Studi di teologia, 2005,34,156. Chi sostiene questa ipotesi ritiene che esista una sostanziale convergenza tra il riconoscimento di questo evento-soglia e una lettura teologica dello statuto antropologico della vita nascente. La sottolineatura del grembo materno quale contesto della nascita, il protagonismo del grembo materno nella crescita della vita, la relazione come elemento che lega biologia e biografia della persona rendono questo passaggio biologico una soglia antropologica significativa anche secondo un’ottica teologica. La vita è un processo continuo, ma il suo sviluppo può procedere in certe situazioni e fermarsi in altre. Dal momento in cui si connette con quella della madre, la vita dell’embrione conosce un salto antropologicamente qualitativo che chiede il rispetto di una esistenza ormai collegata con la comunità umana.

In conclusione, questa ipotesi apre la strada alla possibilità di utilizzare gli embrioni non ancora impiantati a scopo di ricerca scientifica, ma non vuole essere un lasciapassare indiscriminato: se la vita umana – perché pur sempre di questo si tratta – non deve essere sacralizzata, non può neppure essere utilizzata a capriccio, nell’interesse dei poteri scientifici o economici. La riflessione teologica ha dunque un compito pubblico nel partecipare all’individuazione di criteri eticamente responsabili e scientificamente sostenibili per la ricerca biotecnologica. Con gli stessi criteri deve essere considerata l’ammissibilità etica delle tecniche di fecondazione assistita, delle indagini genetiche pre-impiantatorie e dell’utilizzazione degli embrioni congelati.

I musulmani

Secondo il Corano – o almeno secondo le interpretazioni prevalenti del Corano – la gravidanza inizia quando l’uovo fecondato si annida nell’utero: lo sviluppo del feto avviene da questo momento per tappe successive. La parola feto, che in arabo equivale al termine janin, che indica letteralmente qualcosa di velato o di coperto, e menzionata nel Corano in un versetto (53,32): “Egli vi conosce meglio fin da quando vi fece dalla terra e quando foste coperti (feti?) in seno alle vostre madri”. Il libro elenca sette tappe dell’evoluzione embrionale nel ventre materno: “Noi creiamo l’uomo di argilla finissima, poi ne facciamo una goccia di sperma in un ricettacolo sicuro. Poi la goccia di sperma la trasformiamo in sangue coagulato, e questo in massa molle, e nella massa molle formiamo le ossa e nella massa molle creiamo le ossa e ricopriamo le ossa di carne; noi completiamo la nostra creazione animandola” (Corano, 23,14).

Alcuni studiosi islamici definiscono il feto come “ciò che si trova nell’utero”; altri ne dividono lo sviluppo in un primo stadio, o ‘alaq’, e in un secondo, mudghah: “Sappiate che noi vi creammo di terra, poi facemmo di quella terra una goccia di sperma, poi un pezzo di carne informe (mudghah) e formato per manifestare la nostra potenza” (Corano, 22,5).

Poiché nell’Islam manca una autorità ufficiale che sia custode dell’ortodossia, i testi sacri sono stati interpretati in modo diverso. D’altra parte, anche per la legge islamica è fondamentale sapere in quale momento del suo sviluppo un feto diventa un essere umano: questo momento viene collocato da alcuni alla fine del quarto mese di gestazione, nel momento che dovrebbe coincidere con l’ingresso dell’anima, mentre altri lo anticipano al 41° giorno, quando inizia il processo di differenziazione degli organi. Le posizioni delle quattro scuole giuridiche islamiche (Malikita, Shafiita, Hanafita e Hanbalita) sono di conseguenza diverse poiché alcune considerano l’aborto sempre illecito e altre dimostrano una flessibilità maggiore.

I teologi si trovano comunque d’accordo sul fatto che l’aborto deve essere considerato un delitto grave dopo il 120° giorno e che nel caso dell’esistenza di un rischio per la salute della madre il problema debba essere risolto sulla base del principio islamico del male minore. Questa dottrina si basa sulla tradizione dei “quaranta giorni” secondo la quale il feto è trattenuto nell’utero per 40 giorni come seme, per altri 40 come uovo fecondato e per altri 40 ancora come carne, 120 giorni in tutto prima dell’immissione dell’anima. Rispetto alla possibilità di disporre della vita del feto prima del termine del 4° mese di gravidanza, esistono almeno tre posizioni ufficiali:

– Ammissibilità assoluta, anche in assenza di giustificazioni;

– Ammissibilità condizionata, che richiede cioè l’esistenza di un giustificazione accettabile;

– Proibizione categorica dopo il 40° giorno, che è poi la posizione più seguita nell’Islam.

Ciò che caratterizza l’atteggiamento dell’Islam nei confronti dell’aborto procurato è soprattutto il fatto che non viene concesso alla donna un vero diritto di scelta: la donna non crea un feto, lo riceve, perché ciò che le viene affidato non è parte del suo corpo e lei non è libera di disporne. D’altra parte l’etica musulmana si ricollega molto all’etica medica: l’aborto può essere consentito se viene messa a repentaglio la salute o la vita della madre, mentre rimane illecito se è inteso a risolvere problemi di natura economica o sociale.

Secondo il Corano la scienza ha il compito di dimostrare l’unità e la coerenza di tutto quello che esiste per far sì che l’uomo possa essere guidato nella venerazione di Dio. Questo concetto è evidentemente antitetico a qualsiasi tipo di dualismo (come può essere considerato quello esistente nel mondo occidentale tra scienza e religione) proprio perché l’intenzione è quella di unificare tutti gli aspetti della vita: il ricorso alla scienza, per il Corano, è un motivo di avvicinamento a Dio e alla religione in quanto la conoscenza e lo studio dei fenomeni della natura conducono l’uomo, in modo semplice e quasi automatico, ad apprezzare le meraviglie del creato e del suo creatore. Così la cultura e la scienza islamica non considerano i fenomeni naturali come eventi slegati dagli ordini superiori, ma come espressione del legame esistente tra la molteplicità del creato e l’entità del divino. Questa premessa può aiutare a capire il grande interesse che molte Università islamiche mostrano nei confronti della ricerca sulle cellule staminali embrionali e le posizioni complessivamente molto avanzate che riguardano tecnologie considerate al momento solo futuribili, come la creazione di gameti artificiali e l’ectogenesi.

Per quanto riguarda le posizioni dell’Islam in merito alle tecniche di procreazione medicalmente assistita, riassumo i principi contenuti in un libro di Sayyid Muhammad Rizvi di recente pubblicazione (Marriage and Morals in Islam, Al Qalam Publishing Company, Mumbai, 2006):

– Non esistono obiezioni nei riguardi delle inseminazioni artificiali, purchè vengano eseguite con i gameti del marito;

– Anche se la donazione di gameti è proibita, il figlio che dovesse nascere da una eventuale trasgressione sarebbe considerato legittimo;

– Sono considerate lecite tutte le tecniche di procreazione medicalmente assistita, purché le coppie che ne usufruiscono siano regolarmente sposate;

– La maternità surrogata non è consentita perché comporta “l’introduzione dello sperma di un’altra persona nell’utero della donna”. E’ però possibile immaginare alcune eccezioni ad esempio, il marito di una donna infertile può sposare in modo temporaneo o permanente una seconda donna che può a questo punto ricevere un ovulo fecondato della prima moglie che, secondo l’opinione prevalente, sarà la madre legittima del bambino;

– Gli embrioni in sovrannumero possono essere distrutti;

– E’ lecito crioconservare embrioni;

– Le donne vedove (e per analogia le donne divorziate) possono chiedere di poter utilizzare embrioni congelati eventualmente prodotti prima della morte del marito o prima del divorzio solo se non si sono risposate.