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La gravidanza per altri2018-12-15T13:52:29+02:00

La gravidanza per altri

Giugno 2018

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A – La prostituzione non sessuale

Secondo l’Enciclopedia Treccani la prostituzione è l’attività abituale e professionale di chi offre prestazioni sessuali a scopo di lucro, una definizione forse persino troppo semplice. Il lemma deriva dal latino prostituere, a sua volta parola composta da pro e statuere, collocare, che assume il significato di mettere in vendita, cedere in cambio di denaro o di altri vantaggi ciò che comunemente si ritiene non poter essere oggetto di lucro: ne consegue che prostituirsi, oltre al significato primario che è collegato ad una attività sessuale, assume anche il significato di “avvilire per interesse la propria dignità e tradire i propri ideali”, un concetto che si può riferire ad un numero incalcolabile di comportamenti. Inevitabilmente il termine, che esprime con tutta evidenza una dura condanna morale, è stato applicato anche alla scelta di vendere, o di dare in uso (anche parziale e temporaneo) parti del proprio corpo, organi, tessuti, cellule e persino le attività funzionali alle quali questi corpi sono devoluti, tutte cose delle quali la nostra dignità dovrebbe impedirci di fare commercio.

Non è un problema semplice da affrontare: lo stesso gesto – dare un rene a un malato di reni che senza questo trapianto morirebbe, offrire un oocita a una donna sterile, rendersi disponibile per ospitare nel proprio grembo, per tutta la durata di una gravidanza, il figlio di una donna priva dell’utero – può essere il risultato di una scelta compassionevole ( e in questo caso dovrebbe sfuggire ad ogni giudizio critico) ; può essere l’unico modo possibile per dare un minimo di dignità a una famiglia che sta per essere distrutta dalla miseria ( e la critica morale dovrebbe essere rivolta alla società che ha creato e permesso quelle condizioni di estremo bisogno senza trovare il modo di intervenire e a chi ha deciso di approfittare di quella disperazione); può essere la scelta consapevole di chi ritiene di essere in pieno diritto di usare del proprio corpo a proprio piacere (cosa che evidentemente crea un contrasto tra differenti presupposti, lasciando anche spazio a un indebito coinvolgimento delle religioni). Senza poi dimenticare il fatto che in molti casi non sono le scelte per sé, ma le motivazioni per le quali sono state fatte e le conseguenze che ne possono derivare ( una surrogazione può essere richiesta da una coppia omosessuale) a provocare la rampogna morale. Tutto ciò molto semplicemente per spiegare le ragioni per cui mi è sembrato necessario inserire, in coda a questi capitoli dedicati alla prostituzione “tradizionale” anche una riflessione relativa alla vendita ( e al dono ) dei propri gameti e all’affitto (e al dono) del proprio grembo.

La gravidanza per altri, quella che viene definita da alcuni, con evidente e incivile disprezzo, affitto di utero o maternità surrogata, è stata proposta come mezzo per aiutare le donne incapaci di avere un figlio con le proprie forze, e la prima citazione la potete trovare nella Bibbia (Genesi 16,1-15 17,15-19 21,1-4) e c’è chi ha persino indicato la vergine Maria come il primo esempio di madre surrogata, visto che il figlio che aveva portato in grembo era figlio di Dio e non poteva avere, almeno in teoria, rapporti genetici con gli uomini. La tecnica, come tutti sanno, è stata molto semplificata dalla messa a punto delle tecniche di fertilizzazione in vitro che ha reso possibile trasferire alle madri surrogate embrioni creati con i gameti della coppia committente, evitando così qualsiasi contributo genetico da parte della madre “gestante”, ma era stata eseguita in passato con tecniche più grossolane, eseguendo lavaggi endouterini nel momento del possibile impianto di un embrione e trasferendolo immediatamente nell’utero scelto per portare a termine la gravidanza. Il primo riferimento bibliografico a questo tipo di maternità è stato pubblicato nel New England Med. J. da Utian e coll. nel 1985.

Ancora oggi si tende a fare confusione con i termini che definiscono le varie madri surrogate, e lo stesso termine “surrogata” è stato attribuito sia all’una che all’altra protagonista. “Gestational surrogacy” “full surrogacy” e “IVF surrogacy” sono comunque definiti come i casi in cui i gameti di una “genetic couple” “commissioning couple” o “intended parents” in un “surrogacy arrangement” vengono usati per produrre embrioni: questi embrioni sono successivamente trasferiti a una donna che accetta di agire come ospite. Essa non è in alcun rapporto genetico con i bambini che possono nascere da questo accordo. Quando invece si parla di “natural surrogacy” o “partial surrogacy” la donna che si propone come ospite viene inseminata con il seme del marito della coppia genetica; è evidente che in questo caso esiste una relazione genetica tra l’ospite e il bambino, perché si tratta di prestito d’utero e di dono di oocita. Esistono due modalità di organizzare una maternità surrogata: in una, si stabilisce un rapporto contrattuale tra le parti ed è evidente che in questi casi la coppia genetica deve pagare un prezzo. Questa maternità surrogata contrattuale è possibile ad esempio negli Stati Uniti, dove esistono organizzazioni molto efficienti. La seconda modalità è quella oblativa, basata quindi su un atto di generosità, costruito generalmente sulle fondamenta di una parentela o di una solida amicizia. Questa maternità surrogata è accettata in Inghilterra, anche se il suo percorso verso l’accettazione è stato molto tormentato. The Warnock committee in effetti, nel 1984, ne raccomandava la proibizione e solo l’intervento della British Medical Association riuscì a modificare l’atteggiamento del Governo inglese. Nel 1985 la BMA ne accettò il principio generale ma solo “in selected cases with careful controls” e due anni più tardi la stessa associazione chiarì che, in ogni caso, i medici “should not partecipate in any surrogacy arrangements” e che comunque si trattava di una “last resort option”.

Nel 1990 The Human Fertilisation and Embriology Act fu approvato dal Parlamento inglese: nel documento non c’è proibizione nei confronti della maternità surrogata. L’ultimo Report della BMA di cui sono a conoscenza e che è del 1996 afferma che “surrogacy is an acceptable option of last resort in cases where it is impossible or highly undesirable for medical reasons for the intended mother to carry a child herself”.

Le indicazioni principali per ricorrere ad una maternità surrogata sono:

– dopo una isterectomia;

– per assenza congenita dell’utero;

– a seguito di ripetuti fallimenti FIVET;

– in casi di aborto ricorrente;

– se esistono condizioni di salute incompatibili con una gravidanza.

Si dice – ma non esistono prove reali che si tratti di affermazioni basate sulla verità – che la maternità surrogata basata sul contratto sia stata e sia eseguita anche per motivazioni meno accettabili, come la paura di imbruttire con la gravidanza o il desiderio di non abbandonare il lavoro. Si dice – ma ancora una volta senza prove reali – che le associazioni americane basate sul profitto non guardino molto per il sottile e abbiano accettato e accettino impegni relativi a coppie che avrebbero benissimo potuto avere figli senza ricorrere a questa tecnica. Nei casi di “partial surrogacy”, nei quali viene anche offerta una ovodonazione, si propone un importante problema etico, che è quello relativo all’età della donna che riceverà il bambino, essendo noto che molte di queste richieste arrivano da donne in menopausa e che solo una parte di queste menopause è prematura.

Ci sono stati – e sono stati molto propagandati – problemi legali, nelle maternità surrogate, problemi che sono nati soprattutto al momento di consegnare il bambino. Su questi problemi esiste un’ampia letteratura, che sembra dimostrare come nella maggior parte dei casi la colpa debba essere attribuita a un counseling inadeguato o addirittura non eseguito. La maggior parte dei guai nasce comunque nei casi di “partial surrogacy”, e deriva dal desiderio della madre di tenere per sé il figlio. Una causa frequente di problemi è la nascita di un bambino malconformato. Un ulteriore problema può derivare dal fatto che, al di fuori dei contratti, nei quali i pagamenti sono resi espliciti senza possibilità di discussione, possono nascere discussioni sul significato di “reasonable expenses”, che è quanto la coppia genetica dovrebbe pagare all’ospite nei casi di maternità surrogata “oblativa”, visto che l’altruismo assoluto sembra più spesso un bel sogno che un fatto concreto. È comunque vero che le maternità surrogate hanno fatto lavorare i tribunali, anche se non tanto spesso come qualcuno vorrebbe.

La maternità surrogata è comunque vietata in molti Paesi, senza distinzione tra contratto e oblazione. L’ammettono, oltre a Inghilterra e Stati Uniti, Argentina, Brasile, alcuni Stati Australiani, Canada, Ungheria, Israele e Sud Africa. Sono particolarmente ostili, nei confronti della surrogazione, la religione cattolica e l’islamica, anche se poi bisogna accettare il fatto che molti moralisti laici accettano di malagrazia l’atto oblativo, ma condannano quello contrattuale, generalmente parificato a una forma di prostituzione. Non tutti però: c’è chi ritiene che nessuno è in diritto di proibire ad un essere umano di fare quel che vuole del proprio corpo, senza prima essersi fatto una serie di domande: perché lo fa? cosa faccio io per rimuovere le condizioni sociali che lo costringono a fare questa scelta? cosa farà questa persona se io gli impedirò di trarre profitto dalla vendita del proprio corpo o di parte di esso?

Le informazioni sulle “donazioni del grembo” sono attendibili solo se limitate alle cosiddette maternità surrogate totali, quelle che non includono la contemporanea donazione di oociti. Queste ultime, chiamate anche di “surrogazione parziale”, in realtà spesso non richiedono l’intervento di un medico e non hanno quasi mai bisogno di accedere alle tecniche di PMA, ragione per cui sfuggono a una valutazione quantitativa e statistica.

Al di là del fatto che la surrogazione sia o no ammessa, è fondamentale – perché possa essere utilizzata senza complicazioni – che venga praticata in Paesi che si sono preoccupati di adottare procedure legali che attribuiscano la genitorialità alla madre genetica, evitando possibili conflitti.

La maternità surrogata “totale” è ammessa in una ventina di Paesi (Canada, Grecia, Hong Kong, Ungheria, Israele, Olanda, Nuova Zelanda, Russia, Inghilterra, Australia, Brasile, India, Sud Africa, Tailandia, Stati Uniti, Columbia, Ecuador, Finlandia, Perù, Romania) con regolamenti spesso molto diversi.

In Argentina, ad esempio, un paese in genere citato tra quanti non ammettono questa pratica, esiste la possibilità di ottenere un permesso speciale da una Commissione che giudica caso per caso. L’Australia, dal canto suo, ha norme lievemente diverse nei differenti Stati, l’Australia dell’Ovest ammette la surrogazione solo per uso compassionevole; l’Australia del Sud ha una legge analoga, ma la possibilità di ricorrere alla surrogazione oblativa deriva indirettamente dalla condanna specifica di quella commerciale; lo Stato di Vittoria consente la surrogazione per ragioni altruistiche e condanna ogni tipo di remunerazione. Anche il Brasile ha norme analoghe che proibiscono i Centri di PMA di essere coinvolti in queste tecniche se esistono accordi finanziari tra le parti. In Grecia la surrogazione (ammessa solo per le coppie residenti nel Paese) necessita di una autorizzazione giudiziaria rilasciata prima del trasferimento, se esiste un accordo scritto e senza compensiamo tra le parti. L’autorizzazione viene accordata se la richiedente è nella assoluta impossibilità di avere un figlio e la donna che si presta alla gestazione è francamente idonea.

In Israele la coppia richiedente deve essere sposata e la donna surrogata nubile; è necessaria una autorizzazione da parte di una speciale commissione del Ministero della Salute. La situazione degli Stati Uniti è invece assolutamente variegata, ogni Stato ha norme diverse.

L’Inghilterra ha approvato nel 1985 il cosiddetto Surrogacy arrangements Act che istituisce una serie di reati in merito alla presenza di maternità surrogata nel Regno Unito, proibendo a intermediari commerciali di concordare con donne le prestazioni come madre surrogata e penalizzando la pubblicità di servizi relativi a questi interventi. La norma è estremamente dettagliata e in pratica lascia spazio solamente agli atti oblativi. L’attribuzione della maternità è affidata a un Tribunale ed è ammessa su richiesta della coppia entro 6 mesi dalla nascita del bambino; lo stesso Tribunale deve accertare che non è stata pagata alcuna somma di danaro, salvo le spese ragionevolmente sostenute dalla madre surrogata.

E’ opinione condivisa l’opportunità di intrattenere le coppie sul problema di quanto dire al bambino sulla sua nascita e discutere con la madre surrogata su cosa dovrà eventualmente dire ai suoi figli a proposito di questo loro fratello d’utero. Un ulteriore problema potrebbe essere quello dell’allattamento al seno, per il quale anche la madre genetica potrebbe prepararsi.

La terapia cui deve essere sottoposta la madre genetica non differisce da quella che si usa per una qualsiasi fertilizzazione in vitro. Gli embrioni vengono in genere congelati per il periodo necessario per stabilire l’assenza di una positività all’AIDS nella coppia che ha dato i gameti.

Le madri surrogate vengono sottoposte ad un protocollo di indagini molto complesso che deve stabilire non solo l’assenza di malattie che possono danneggiare il bambino, ma anche di malattie che possono controindicare la gravidanza. Il trasferimento dell’embrione si esegue sia in cicli naturali che in cicli artificiali. Questi ultimi, poiché consentono l’uso di analoghi del GnRH, vengono preferiti soprattutto per evitare l’insorgere di gravidanze spontanee. In genere non ci sono differenze tra queste gravidanze e quelle che si osservano dopo una normale fertilizzazione in vitro. Che le madri surrogate “per contratto” tendano ad essere cattive madri, mantenendo abitudini igieniche non accettabili in gravidanza, (fumo, alcool, uso di droghe) sembra una maldicenza ed è comunque privo di qualsiasi prova.

Ci sono stati – e sono stati molto propagandati – problemi legali, nelle maternità surrogate, problemi che sono nati soprattutto al momento di consegnare il bambino. Su questi problemi esiste un’ampia letteratura, che sembra dimostrare come nella maggior parte dei casi la colpa debba essere attribuita a un counseling inadeguato o addirittura non eseguito. La maggior parte dei guai nasce comunque nei casi di “partial surrogacy”, e deriva dal desiderio della madre di tenere per sé il figlio. Una causa frequente di problemi è la nascita di un bambino malconformato. Un ulteriore problema può derivare dal fatto che, al di fuori dei contratti, nei quali i pagamenti sono resi espliciti senza possibilità di discussione, possono nascere discussioni sul significato di “reasonable expenses”, che è quanto la coppia genetica dovrebbe pagare all’ospite nei casi di maternità surrogata “oblativa”, visto che l’altruismo assoluto sembra più spesso un bel sogno che un fatto concreto. È comunque vero che le maternità surrogate hanno fatto lavorare i tribunali, anche se non tanto spesso come qualcuno vorrebbe.

Come già detto sono particolarmente ostili, nei confronti della surrogazione, la religione cattolica e l’islamica che chiamano tutte le forme di “gravidanza per altri” con lo stesso nome, evidentemente derogatorio, di affitto d’ utero, fingendo di ignorare l’esistenza di atti oblativi. Molti moralisti laici accettano di malagrazia l’atto oblativo, ma condannano quello contrattuale, generalmente considerato come una forma di prostituzione. Non tutti però: c’è chi ritiene che nessuno sia in diritto di proibire ad un essere umano di fare quel che vuole del proprio corpo, senza prima essersi fatto una serie di domande: perché lo fa? cosa faccio io per rimuovere le condizioni sociali che lo costringono a fare questa scelta? cosa farà questa persona se io gli impedirò di trarre profitto dalla vendita del proprio corpo o di parte di esso?

Non è perfettamente chiara la ragione per cui la maternità surrogata trova tanta ostilità in molti settori della società ( è contraria, ad esempio, una parte del mondo femminista); nessuno può essere così stupido da accettar per buone le motivazioni che troviamo scritta in una proposta di documento presentata al CNB : ” In tutti questi documenti il CNB ha ricordato e fatto proprio il nitido principio bioetico espresso dall’art. 21 della Convenzione di Oviedo sui diritti umani e la biomedicina (1997): il corpo umano e le sue parti non debbono essere, in quanto tali, fonte di profitto”. Principio che, essendo stato ribadito dall’art. 3 della Carta Europea dei Diritti Fondamentali (2000), possiamo affermare costituisca uno dei cardini del tessuto etico dell’ Unione europea. Per questi motivi, il CNB ritiene opportuno ricordare, in riferimento al vivacissimo dibattito italiano degli ultimi mesi relativo alla maternità surrogata, che la gestazione per surrogazione in particolare quando è a titolo oneroso, il c.d. “utero in affitto”, costituisce una delle forme più evidenti di mercificazione del corpo umano.

“Il CNB non intende, in questa mozione, affrontare il problema della maternità surrogata in quanto tale (peraltro vietata nel nostro paese dall’art. art. 12, comma 6 della L. 40/2004), riservandosi di intervenire su questo complesso problema con uno specifico parere, ma vuole sottolineare il fatto che la gestazione per surrogazione, in particolare quando è a titolo oneroso, oltre a eludere il divieto di fare del corpo umano un oggetto di lucro implica necessariamente, avendo come fine la consegna del neonato dalla gestante a terzi, la stipula di un contratto fra le parti, e cioè i genitori committenti e la madre surrogata; la modalità contrattuale di gestione della gravidanza, a prescindere dalle sue forme, esclude intrinsecamente la fattispecie di dono, e porta con sé diverse violazioni dei valori fondamentali della persona. In particolare:

a) I rigidi e pressanti controlli e condizionamenti sullo stile di vita, la condotta, il regime sanitario a cui la gestante è costretta per garantire il corretto adempimento della prestazione;

b) La drammatica condizione psicologica di una donna che sente svilupparsi dentro di sé, giorno per giorno, un legame biologico e affettivo, ma ha la certezza di doverlo interrompere, ad ogni costo e definitivamente, per rispettare un impegno contrattuale;

c) La composizione dei reciproci interessi delle parti coinvolge la vita di un soggetto terzo, il nascituro, che non partecipa al contratto e che non può fornire il proprio consenso, salvo ad apprendere, un giorno, di essere stato oggetto di una transazione commerciale;

d) L’inevitabile esposizione del neonato, oggetto del contratto di maternità surrogata, a un indebito controllo di “qualità” da parte del committente;

e) L’impossibilità di predeterminare, secondo giustizia e non rinviando alle mere e spesso arbitrarie scelte contrattuali delle parti, il rilievo da dare agli eventi avversi che potessero emergere nel corso della gestazione e del parto e di individuare in modo nitido e ragionevole a quale dei soggetti coinvolti nel processo di maternità surrogata andrebbe conferito il potere di operare le conseguenti scelte sanitarie rilevanti (da una decisione abortiva o di riduzione embrionale fino a quella di una qualsivoglia terapia prenatale, che comportasse ricadute anche sulla salute della gestante).”

A parte l’ipocrisia di espressioni come “, in particolare quando è a titolo oneroso”, viene inevitabilmente da chiedersi, solo per fare un esempio, per quale ragione un donna che ha scelto, per affetto e compassione, di fare un figlio per la propria sorella, debba trovarsi in una “drammatica situazione psicologica”, debba sentire svilupparsi dentro di sé “un legame biologico e affettivo” e debba patire le pene dell’inferno per ” la certezza di doverlo interrompere, ad ogni costo e definitivamente, per rispettare un impegno contrattuale”. Questo romanticume civettuolo e ipocrita non trova conferma nella letteratura medica che ha espresso su questi temi giudizi realmente autonomi, In altri termini, questa è “dioetica” e non è saggio tenerne conto.

D – Il trapianto d’utero

Sarebbe anche bene che chi ritiene di doversi cimentare in queste valutazioni critiche si documentasse bene sulle alternative possibili. In Svezia, ad esempio, una equipe di chirurghi guidata da Mats Brännström direttore del Dipartimento di Ostetrica e Ginecologia dell’Università di Göteborg sono già nati al momento in cui abbiamo iniziato a scrivere questo libro sei bambini da donne alle quali era stato trapiantato l’utero. Si è trattato di trapianti da vivente (una parente, almeno fino a oggi) eseguiti prevalentemente per agenesia uterina (la cosiddetta sindrome di Rokitanski) e per isterectomie da cause diverse, in donne di età compresa tra i trenta e i quaranta anni. Siamo stati presenti a una conferenza di Mats Brännström , e siamo stati impressionati dalla sua descrizione dei possibili rischi: si tratta di interventi che durano in media nove ore e che rappresentano un possibile rischio per la vita di entrambe le donne operata; ma la cosa non finisce qui, perché la trapiantata è costretta ad assumere per tutto il tempo in cui è portatrice di questo viscere estraneo, farmaci antirigetto che si sono dimostrati innocui per le sue eventuali gravidanze ma non per lei (possono indurre diabete e ipertensione e aumentare il rischio di malattie tumorali). Trapianti di utero, dopo questi successi, sono stati tentati in Gran Bretagna e sono attesi in altri Paesi Europei , Italia compresa, e alcuni di questi tentativi utilizzeranno cadaveri, almeno in prima battuta. Lo stesso Brännström ha spiegato che quella del trapianto non può essere la soluzione definitiva (troppi rischi) , soluzione per la quale ha indicato la produzione di uteri artificiali.

Q. Le reazioni femministe

Il rapporto tra le nuove tecnologie usate in campo riproduttivo e il femminismo è sempre stato piuttosto spigoloso , un problema che è diventato particolarmente acuto dopo che alcuni Paesi europei (ad esempio la Francia) hanno bandito per legge e in modo apparentemente definitivo la gravidanza per altri (una ostilità recentemente confermata dal Parlamento Europeo). Qualche tempo fa è uscito anche in Italia un libro di una giovane giurista francese di origini argentine, Marcela Jacub (L’impero del ventre. Per un’altra storia della maternità. Ombre corte, 2005) nel quale l’autrice cerca di dimostrare che le nuove norme francesi rappresentano una vera e propria iattura , rappresentando l’origine di ogni possibile discriminazione ( tra maschi e femmine, tra eterosessuali e omosessuali). La ragione di queste prevaricazioni, che la Jacub considera tutt’altro che accidentali, si può riconoscere soprattutto nel fatto che l’intero sistema legislativo dedicato alla genitorialità si basa sulla verità biologica del parto e indica nel ventre materno la propria pietra angolare. Scrive la Jacub: ” Si può ammettere che ci sia qualcosa che da le vertigini nel fatto di prendersi la responsabilità di mettere al mondo un figlio, ma credere che si possa limitare questo atto affidandosi alla saggezza del corpo è ancora più irrazionale di quanto lo sia fare del matrimonio la cornice ideale di tutte le nascite, come lo prevedeva il Codice Napoleonico”.

Secondo la Jacub le leggi francesi assegnano alle donne il controllo assoluto sulla “procreazione” (la Jacub usa costantemente questo termine religioso) e così facendo creano una asimmetria nelle coppie che può risultare pericolosa. Le leggi del 1992 che hanno reso illegittime le gravidanze per altri sono state evidentemente scritte per appoggiare le opinioni di quella parte del mondo femminista che ha definito il dono del grembo come una forma di prostituzione. In realtà, continua la Jacub, le donne non sono realmente padrone del proprio utero, visto che non ne possono disporre, laddove sul mercato si possono acquistare facilmente spermatozoi, oociti ed embrioni. La conclusione è che le leggi sulle tecnologie riproduttive sono il risultato di una concezione storicizzata della maternità.

Questa è, sia ben chiaro , una delle posizioni femministe su questi temi, ne esistono altre, alcune delle quali di segno completamente differente. Ma la questione è complessa e, almeno per quanto riusciamo a capire, in divenire.

E’ per lo meno probabile che molte femministe abbiano inizialmente apprezzato la possibilità di poter avere una alternativa all’aborto offerta dalla ectogenesi, ma ben presto questo concetto è stato travolto da considerazioni del tutto diverse: in realtà l’ectogenesi impegnava le donne a ridefinire termini come “gravidanza” e “maternità” e a riconsiderare le relazioni gerarchiche esistenti in una società fondamentalmente patriarcale e il modo in cui avrebbero reagito e si sarebbero modificate con l’arrivo di un grembo artificiale; c’erano ben poche possibilità che le donne, già severamente impegnate a difendere i diritti riproduttivi, potessero trarre vantaggio dalle nuove tecnologie. Con un po’ di fretta – l’analisi delle possibili conseguenze di queste rivoluzioni sociali dovrebbe richiedere molta prudenza e altrettanta pazienza – il femminismo si divise e i due gruppi, quello apertamente favorevole e quello decisamente contrario, dimostrarono subito un notevole grado di combattività, del quale offriamo solo alcuni esempi.

Shulamite Firestone ( The dialectic of sex: The Case for Feminist Revolution. Morrow, 1970) scrive che la diseguaglianza tra I generi e la condanna a vivere imprigionate nell’angusto spazio esistente tra a cucina e la nursery sono state la conseguenza diretta delle diversità in campo riproduttivo e della conseguente condanna a investire quasi esclusivamente in tutti gli eventi che hanno a che fare con la maternità e la produzione di figli. Per lei l’ectogenesi e la rivoluzione sociale che certamente le farà seguito rappresentano una inattesa opportunità di liberare le donne dalle esigenze tiranniche della loro biologia, esigenze che le hanno costrette ad adattarsi a vivere una vita da recluse in una società patriarcale e antifemminile. La Firestone sottolinea che il ritardo con il quale la scienza prende in esame queste nuove possibilità è la conseguenza del fatto che la medicina è dominata dai maschi e che costoro non hanno alcun interesse a modificare lo status quo.

Ma, replicano molte donne, non è forse vero che l’attuale status quo è l’espressione della volontà dei maschi di considerare le donne come macchine di sangue e di carne dedicate alla riproduzione ?

Ann Oakley ( The captured womb: a history of the medical care of pregnant women. B. Blackwell, 1984) spiega invece come l’ectogenesi faccia parte del lento processo attraverso il quale la cultura medica , impregnata di misoginia, ha assunto il controllo del grembo femminile in nome della scienza: il grembo artificiale non farà che portare agli estremi limiti le precedenti ingiustizie , la conseguenza sarà che le donne, ben lungi dall’essere liberate, si troveranno avvinte da nuove catene e subiranno l’umiliazione di essere alienate dai loro stessi corpi e dalle loro prerogative biologiche. Sono le stesse conclusioni alle quali sono giunte Andrea Dworkin e Janice Raymond che addirittura prevedono che il sesso femminile, ulteriormente emarginato e oppresso, diverrà alla fine obsoleto. Scriveva Andrea Dworkin (Life and death: unapologetic writings on the continuing war against women. London: Virago 1997): “le donne avrebbero il potere di eliminare dalla terra il genere maschile e nella loro collettiva saggezza hanno deciso di non farlo. Ora il problema col quale ci confrontiamo è il seguente: una volta che sarà utilizzabile l’utero artificiale, cosa decideranno di fare, gli uomini, di noi?”. E più o meno nello stesso tempo Janice Raymond ( Women as wombs: reproductive technologies and the battle over women’s freedom. Spinifex Press, 1993) scriveva che la capacità di rappresentare la macchina riproduttiva della nostra specie è in pratica l’unica risorsa importante che e donne possono controllare e qualora questa prerogativa fosse soppressa, a loro non resterebbe praticamente niente. Ne consegue che le nuove tecnologie rappresentano solo una nuova forma di violenza.

In un articolo pubblicato in rete su Analysis Maternity and Birthing (25 febbraio 2012) Soraya Chemaly ha affrontato il problema dell’utero artificiale cercando soprattutto di chiarire per cui una parte del mondo femminista ha reagito con irritazione all’annuncio dell’arrivo (certo non imminente) dell’utero artificiale. Soraya propone anzitutto alle sue lettrici una serie di domande: lo scegliereste per voi? Cosa pensate che avverrà, dopo il suo arrivo, ai diritti riproduttivi (compreso quello di abortire), alla parità tra i sessi, al ruolo della donna nella società? Quello che è certo, continua, è che ci saranno conseguenze di grande rilievo ( sia morali che sociali) con le quali la società dovrà confrontarsi : una società che non è per niente preparata ad assumersi impegni come questo.

Soraya non ha però finito di proporre e sue domande e chiede: cosa accadrà quando uomini e donne avranno lo stesso impegno nella generazione di un figlio? Potrebbe accadere che una delle due forme di gestazione, quella naturale o quella artificiale, divenga più popolare dell’altra fino a diventare uno “status symbol”? e l’altra potrebbe perdere, in questo caso, parte del suo prestigio e diventare addirittura impopolare? Chi deciderà quale dei due uteri scegliere e su quali basi? Il “gamete partner”? O il prete, il datore di lavoro, l’assicurazione?

Questa comunque non è una innovazione per la quale si possano trovare dei precedenti, ma il buon senso fa pensare che ci saranno cambiamenti che coinvolgeranno, in modo del tutto nuovo (e attualmente imprevedibile) gli interessi, i diritti e le responsabilità delle donne, degli uomini e della società. Si tratta di domande dettate dal senso comune ed è giusto porsele, come è razionale capire che per ora non hanno una risposta, un modo per far intendere a tutti che per ora ha poco senso litigare e dividersi, questo è ancora soltanto il tempo per capire. Tenendo anche conto, tra le altre cose, che le critiche alla ectogenesi arrivano anche da altre parti: ad esempio dalle femministe più impegnate socialmente che sono preoccupate per le implicazioni classiste della ectogenesi, che sembra essere destinata a rappresentare un privilegio per le classi abbienti, mentre dalle eco-femministe giunge un grido di allarme per questa ulteriore violazione delle leggi naturali.

Ma quale è il vero significato di questa ribellione di una parte del femminismo, ribellione che a molti sembra non solo intempestiva, ma anche mal motivata? Per qualche osservatore si tratta semplicemente di una querelle (quasi inevitabile) tra donne che non vogliono consegnare alla scienza la loro sacrosanta peculiarità e scienziati che ritengono di poter aiutare le donne a evitare di divenir vittime dei molti rischi che sono caratteristici degli stati gestazionali e dei parti. Per molti però quella che abbiamo enunciato rappresenta una sottovalutazione di un problema più complesso che non tiene conto del contenuto rivoluzionario di una proposta che vuol separare il corpo umano dalla gravidanza e annullare le differenze di genere.

In ogni caso, le femministe ostili all’utero artificiale sono le stesse che nel 2015 hanno firmato un appello contro la maternità surrogata, raccogliendosi sotto l’egida di “se non ora quando, libere” Ed ecco il testo del documento: “”Noi rifiutiamo di considerare la “maternità surrogata” un atto di libertà o di amore. In Italia è vietata, ma nel mondo in cui viviamo l’altrove è qui: “committenti” italiani possono trovare in altri Paesi una donna che “porti” un figlio per loro. Non possiamo accettare, solo perché la tecnica lo rende possibile, e in nome di presunti diritti individuali, che le donne tornino a essere oggetti a disposizione”. Il nodo è quello della differenza tra desiderio e diritto. I temi sono quelli del limite, della libertà e della modernità. Per questo, racconta chi ha raccolto le firme come la docente universitaria Francesca Izzo, “mi ha colpita una certa resistenza. Molti, forse più uomini ma anche donne, hanno mostrato una singolare ignoranza della questione, si sono dichiarati troppo inesperti per esprimersi. C’è quasi la disponibilità a considerarla una cosa accettabile senza volersene troppo occupare”. Un appello simile è stato firmato da una parte delle femministe francesi che sono state trattate da omofobe dalle loro colleghe.

La frattura tra favorevoli e contrarie è stata dunque immediata e grave: contro “se non ora quando, libere” si è formata una coalizione che si identifica come “se non ora quando, factory” e la polemica ha assunto toni molto accesi. L’analisi più interessante delle cause e delle possibili conseguenze di questo dissidio ci sembra di poterla trovare in un saggio molto recente di Evie Kendal (Equal oppurtunity and the case for state sponsored ectogenesis, Palgrave Macmillan, 2015) che fa una analisi completa e meticolosa di quello che le gravidanze rappresentano per le donne in termini di costi fisici, sociali ed economici, per concludere che la disparità nella distribuzione dei rischi associati alla riproduzione è tutta a svantaggio delle donne, sia per quanto riguarda la salute sia per quanto concerne le implicazioni sociali, compresi i problemi relativi all’attività di lavoro. L’ utero artificiale, conclude la Kendal, potrebbe consentire quella uguaglianza che la biologia ostacola e nega.

Shulamith Firestone scriveva molti anni or sono nel libro che abbiamo già citato, The Dialectic of Sex, che la gravidanza è barbarica e che rappresenta la temporanea deformazione del corpo della donna per la salvezza della specie (senza poi tener conto del fatto, non privo di importanza , che partorire è doloroso).

Le conclusioni della Kendal e della Fireston sono riprese con mota saggezza da Chiara Lalli (L’utero artificiale renderà le donne libere, www.internazionale.it/opinione/chiaralalli/2016/05/16/):” L’utero artificiale non è una bacchetta magica, ma potrebbe essere un modo per attenuare le disparità di genere, quelle regole che sembrano uscire da una società vittoriana e i pregiudizi che rendono spesso più difficile per le donne il rifiuto del loro destino”.

Ed è ancora a Lalli che ci aiuta a concludere questa breve analisi con questo giudizio sul libro della Kendal: “Equal opportunity è un libro particolarmente benefico dopo mesi e mesi di proposte deliranti di reati universali e anni in cui si continua a considerare la scienza e le tecniche riproduttive come intrinsecamente maschiliste. Vogliamo ricordare l’invito all’astensionismo durante il referendum sulla legge 40 da parte di quelle stesse che oggi urlano “divieto assoluto di maternità surrogata!”? Vogliamo ammettere che pervertire il femminismo a un “ora te lo dico io come devi vivere e cosa è giusto per te” pare l’imitazione del più tetro e noioso maschilista? E che moltissimi argomenti di queste fanatiche del reato universale sono fallaci come il pensiero magico?”