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La sperimentazione sull’uomo2020-03-31T16:33:06+02:00

La sperimentazione sull’uomo

Dicembre 2012

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La richiesta di sospendere la sperimentazione sui cosiddetti animali da laboratorio aumenta un po’ dappertutto e diviene sempre più pressante. Le repliche  più comuni a questa domanda seguono fondamentalmente due linee: la prima, molto pragmatica, sottolinea le difficoltà che sarebbero direttamente conseguenti al cambiamento di prospettiva; la seconda, più propriamente ideologica, chiama in causa l’ordine gerarchico delle creature viventi, secondo la dottrina della scala degli esseri che abitano la terra che giustifica il privilegio degli esseri umani sul resto del mondo vivente, il che ha a che fare con il cosiddetto “salto ontologico”, che fa sì che non esistano doveri di carità né altri obblighi similari nei confronti degli animali cosiddetti “inferiori”. In qualche modo le tesi considerate con maggior favore ai giorni nostri sono ancora quelle di Kant, che scriveva che essendo gli animali privi di una coscienza di sé non esistono nei loro confronti doveri diretti, gli unici doveri che debbono essere considerati sono quelli indiretti nei confronti dell’umanità. Kant concludeva queste pagine affermando che “l’uomo deve dimostrare bontà di cuore verso gli animali  perché chi dimostra crudeltà nei loro confronti è altrettanto insensibile verso gli uomini  si può conoscere il cuore di un uomo già dal modo in cui tratta le bestie” ( Lezioni di etica, 1782).

 

Immagino che dovrò ritornare prima o poi su questo argomento, i diritti degli animali; per ora mi interessa di più descrivere il modo assolutamente disumano in cui sono stati violati, in tempi più o meno recenti, i diritti degli uomini, cominciando dal diritto probabilmente più importante, quello di essere considerati come soggetti, persone, e mai come oggetti sui quali sembra lecito e legale eseguire esperimenti, magari con il nobile scopo di aumentare le conoscenze e di consentire alla nostra intera specie di progredire ulteriormente, uno  scopo apparentemente nobile ma in realtà molto discutibile visto che sul significato della parola “progresso” esiste un profondo conflitto.

Sono arrivato a occuparmi delle sperimentazioni sull’uomo quasi casualmente, seguendo le tracce delle attività di ricerca di Gregory Pincus, il ricercatore americano al quale si debbono le più importanti scoperte nel campo della contraccezione ormonale. Lo stimolo a occuparmi delle sue ricerche meno conosciute mi sembrava giustificato dai molti dubbi che sono sempre esistiti sulla disinvoltura con la quale Pincus decideva di arrivare alle conoscenze che gli erano necessarie per proseguire i suoi studi clinici: del resto tutta la prima parte della storia della pillola contraccettiva non brilla per moralità, trasparenza e rispetto dell’etica medica. Pincus aveva creato una fondazione scientifica a Worcester dove svolgeva, insieme ai suoi collaboratori più fidati, gran parte delle ricerche sperimentali. La maggior parte degli studi clinici più importanti doveva invece organizzarli fuori dagli Stati Uniti, per ragioni soprattutto medico legali; per questa ragione mi aveva stupito  il fatto che alcune indagini cliniche relative agli effetti oncogeni della somministrazione di steroidi a elevate concentrazioni le aveva eseguite in un Istituto di cura della città che ospitava la sua fondazione. Ma non è stato difficile scoprire che queste ricerche erano state eseguite con il necessario rispetto delle leggi e dei regolamenti ma senza la minima attenzione alle norme “non scritte”, le regole dell’etica medica. L’Istituto in questione era in effetti un Ospedale psichiatrico; oggetto della sperimentazione, i pazienti, povera gente prevalentemente priva di ogni consapevolezza; il consenso alla sperimentazione era firmato, dietro compensi neppur tanto lauti, dai parenti più stretti di questi disgraziati.

Queste cose accadevano e, immagino, accadono ancora, niente di strano. Ma nei testi nei quali venivano citate le esperienze di Pincus era frequentemente citato, come confronto altrettanto detestabile, lo studio detto del “bad blood”, quello condotto per molti anni nella piccola città di Tuskegee, in Alabama. Poi sapete come succede: una citazione ne richiama una seconda, è come mangiare ciliegie, si comincia con una e si finisce con un paniere un paniere molto, molto grande.

Cominciamo proprio dalla prima ciliegia, Tuskegee, cittadina della Contea di Macon, Stato dell’Alabama. Possiamo datare l’inizio della storia nel 1928, anno in cui un gruppo di specialisti norvegesi pubblicò i risultati di uno studio retrospettivo sulle manifestazioni patologiche della sifilide non sottoposta ad alcun tipo di trattamento. Lo studio ebbe termine nel1972 alcuni anni prima della morte degli ultimi pazienti arruolati nell’indagine. Il protocollo di questa ricerca era molto semplice: gli investigatori avevano raccolto le anamnesi di un gruppo abbastanza folto di persone affette dalla malattia le quali, per vari motivi, avevano tardato a sottoporsi alle cure dopo che la diagnosi era stata accertata, un ritardo che era comunque sempre dovuto ad elementi casuali. Più o meno nello stesso periodo negli Stati Uniti il Public Health Service cominciò una ricerca di tipo epidemiologico sulla diffusione della sifilide nella Contea di Macon, Alabama: il protocollo prevedeva uno studio iniziale di 6-8 mesi nel quale non venivano somministrati farmaci al quale doveva far seguito un trattamento con le cure allora disponibili, come il neosalvarsan, le pomate a base di mercurio e il bismuto, farmaci piuttosto tossici e di modesta utilità, ma privi di alternative. Nei confronti dello studio belga,quello americano differiva per un elemento fondamentale: il ritardo nella somministrazione dei farmaci non era casuale ma faceva parte del protocollo.

L’idea che lo studio avrebbe portato giovamento ai molti malati di sifilide della Contea convinse molte Istituzioni e molti medici (soprattutto medici di colore) a partecipare: collaborò il Tuskegee Institute e consentì l’uso dei suoi locali e dei suoi laboratori la Tuskegee University, attraverso l’Ospedale che da lei dipendeva. Il Rosenwald Fund, una associazione filantropica attenta in particolare ai problemi della salute e dello sviluppo sociale delle comunità di afroamericani che vivevano negli stati del sud decise di finanziare i costi dei possibili trattamenti farmacologici: Furono arruolati nello studio 399 afroamericani (quasi tutti operai agricoli in condizioni di estrema povertà) malati di sifilide e che non erano al corrente della propria condizione di salute (e che naturalmente non erano mai stati sottoposti a terapie specifiche) e altri 201 risultati sani alle analisi e che dovevano servire come gruppo di controllo.  Nel 1929, a causa del crollo del mercato azionario e della grande depressione che ne conseguì, il Rosenwald Fund fu costretto a ritirare la sua offerta di finanziamento, il che rese impossibile il previsto acquisto dei medicinali necessari: i ricercatori decisero che la cosa era priva di importanza e giustificarono la loro scelta sottolineando la scarsa utilità delle cure disponibili. Molto rapidamente ogni tipo di considerazione etica cessò di avere rilievo all’interno del gruppo. Poiché tra le indagini alle quali i soggetti dovevano sottoporsi c’erano prelievi di liquido cefalo-rachidiano, dolorosi e non privi di rischi, e poiché alcuni dei malati tendevano a sottrarsi a questo intervento, tutti i partecipanti allo studio ricevettero una lettera con la quale venivano informati che questa era la loro “ultima occasione per ricevere uno speciale trattamento gratuito”; tutti furono obbligati a firmare un consenso ad un esame “post-mortem”, una autopsia, in cambio della quale i loro familiari venivano sollevati dalle spese dei funerali. Quando entrò in commercio la penicillina e si scoprì che era possibile utilizzarla per curare la sifilide, il trattamento fu negato alla maggior parte dei pazienti e ad altri furono somministrati placebo . Insomma, lo scopo dello studio era ormai chiaramente quello di capire quali fossero le manifestazioni “naturali” della malattia in assenza di trattamenti e i medici facevano tutto il possibile per evitare fastidiose interferenze. Allo scoppio della seconda guerra mondiale, 250 di questi malati furono sottoposti a visite mediche nei distretti militari, seppero di essere malati di sifilide e ricevettero indicazioni per un trattamento antibiotico: il gruppo di studio fece in modo di sottrarli alle cure mediche previste con le conseguenze che si possono facilmente immaginare.  Quando, nel 1947, il Governo degli Stati Uniti diede vita a una campagna di informazione e organizzò in tutto il Paese dei centri per la somministrazione di antibiotici, i ricercatori fecero in modo che i pazienti non ne fossero informati e fossero esclusi dai trattamenti.

Trattandosi di una malattia a trasmissione sessuale, le vittime dello studio furono molto più numerose di quelle arruolate per l’indagine: le loro mogli, ad esempio, e le loro amanti, si ammalarono in gran numero e furono prevalentemente escluse dai possibili trattamenti; molti bambini nacquero ammalati da sifilide congenita. La cosa, evidentemente, non impressionò i medici impegnati nella ricerca, che si sentirono liberi di pubblicare i risultati parziali del loro studio prima nel 1934 e poi nel 1936 e non modificarono mai il protocollo di studio. Persino quando, nel 1972, le infamie di Tuskegee furono pubblicamente denunciate da due giornali, il New York Times e il Washington Post, alcuni rappresentanti del Public Health Service difesero il proprio operato: “La condizione di questi uomini non merita un dibattito etico: si tratta di soggetti, non di pazienti, di materiale clinico, non di malati”. Ma ormai lo scandalo era scoppiato.

Nel 1974 il Congresso degli Stati Uniti approvò il National Research Act e creò una commissione di studio che dettasse le regole degli studi sperimentali nei quali erano coinvolti esseri umani. E il 16 maggio 1997, il Presidente Clinton, chiese ufficialmente scusa alle vittime dello studio di Tuskegee con queste parole: “Possiamo finalmente smettere di fingere di non vedere. Possiamo guardarvi negli occhi e dirvi, a nome del popolo americano che quello che ha fatto il Governo degli Stati Uniti è stato vergognoso e che sono profondamente dispiaciuto, dispiaciuto che un Governo Federale abbia orchestrato uno studio così chiaramente razzista”. Alla cerimonia, organizzata nella Casa Bianca, partecipavano 5 degli 8 sopravvissuti all’’esperimento.

Lo scandalo di Tuskegee ha gravemente danneggiato la credibilità delle Istituzioni pubbliche americane che si occupano della salute soprattutto nelle comunità afroamericane. Molti cittadini hanno dichiarato la propria diffidenza nei confronti delle cure preventive, altri hanno ritirato la loro adesione ai programmi di donazione degli organi o si sono rifiutati di partecipare ai trial clinici anche più innocenti. Nel 1990 la Southern Christian Leadership Conference ha pubblicato i risultati di una indagine condotta su  oltre mille membri delle chiese metodiste: Il 34% degli interrogati era convinto che il virus dell’AIDS fosse un prodotto artificiale della ricerca prodotto in laboratorio, il 35% che si trattasse di uno strumento creato con lo scopo di produrre una sorta di genocidio tra le persone di colore e il 44% che in ogni caso il governo mentisse sulla malattia.

Quante altre ricerche altrettanto infami e immorali sono state portate a termine nel mondo? Credo che, in realtà, nessuno lo sappia. So però che nel 2010 i giornali americani hanno rivelato che in Guatemala, tra il 1946 e il 1948, i medici americani avevano fatto di peggio, contagiando volontariamente di sifilide carcerati, soldati e pazienti di alcuni ospedali per malattie mentali, tutto con la collaborazione di rappresentanti ufficiali della medicina guatemalteca. In totale la ricerca aveva coinvolto 696 soggetti, ma non si conosce il numero di persone che sono state successivamente contagiate. Anche in questo caso ci sono state scuse, presentate dagli USA alle autorità di quel Paese, scuse tanto tardive quanto inutili.

Se si parte dall’idea che anche le nazioni considerate più civili e democratiche hanno commesso incredibili violenze sugli esseri umani, sottoponendoli ad ogni tipo di sperimentazione crudele e cruenta, non ci si deve sorprendere scoprendo che il numero di studi clinici conosciuti che hanno violato le norme più elementari dell’etica nel mondo è elevatissimo ma è anche assolutamente incompleto e che a fianco di essi esiste una quantità ignota – ma molto probabilmente ancor maggiore – di indagini delle quali non sapremo mai niente. Stupisce persino la grande quantità dei settori di indagine nei quali questa mala pianta ha allignato: la chirurgia, la guerra batteriologica e chimica, un gran numero di differenti forme di irradiazione, ogni sorta di sperimentazione con agenti chimici e batteriologici, sperimentazioni sulle moderne forme di tortura psicologica e fisica, sono solo parte del lungo elenco di studi promossi da governi, università e persino soggetti privati.

Nella ricerca delle sperimentazioni chirurgiche, il primo nome che si incontra nei libri di storia della medicina è quello del dottor J.Marion Sims, uno dei chirurghi americani più famosi del XIX secolo, considerato il padre della moderna ginecologia chirurgica, eroe della scienza per alcuni, mostro immorale e sadico per altri. Nato nel 1813 in Hanging Rock, Alabama, Sims si laureò in medicina nel 1835 a Philadelphia e si dedicò per qualche tempo alla pratica professionale nella città di Lancaster, città che dovette lasciare precipitosamente dopo che due suoi piccoli pazienti morirono, probabilmente a causa di un suo errore professionale. Dopo questa esperienza tornò in Alabama, prima nella stessa Contea della quale abbiamo parlato a proposito di Tuskegee, dove si guadagnò la vita curando le schiave delle piantagioni di cotone, poi nella Contea di Montgomery, dove si dedicò soprattutto alla parte chirurgica della professione. In realtà era stato sempre molto critico nei confronti della medicina, o almeno di come la medicina veniva praticata a quei tempi, tanto da scrivere nelle sue memorie (The Story of My Life, pubblicato nel 1884): “Non sapevo niente di medicina, ma avevo abbastanza buon senso da accorgermi che i medici uccidevano i loro pazienti; che la medicina era tutt’altro che una scienza esatta; che era totalmente empirica e che sarebbe stato meglio affidarsi totalmente alla natura piuttosto che alla discutibile abilità dei dottori”.

Con queste idee in testa, Sims affrontò  problemi della chirurgia ginecologica che nessuno aveva mai risolto prima di lui, e per i quali divenne famoso nel mondo e cominciò a operare le schiave che soffrivano di fistole vagino-vescicali e vagino-rettali. Queste forme di patologia erano molto frequenti tra le donne più povere ed erano la conseguenza di travagli di parto particolarmente prolungati e male assistiti. In assenza di qualsiasi possibilità terapeutica queste donne erano praticamente escluse, per ovvi motivi, dalla vita sociale. Sims cominciò operando tre giovani schiave, Betsey, Lucy e Anarcha, sempre senza usare anestesie di sorta, dovendo ripetere più e più volte la stessa operazione per i ripetuti fallimenti e le molte complicazioni: Anarcha, ad esempio, fu dichiarata guarita solo dopo 34 interventi. Delle sofferenze causate a queste povere donne è lo stesso Sims a parlare, sempre nelle sue memorie: “La prima paziente che operai si chiamava Lucy… Erano i tempi in cui non c’erano anestetici e la povera ragazza, sulle sue ginocchia, sopportò l’intervento con grande eroismo e coraggio. La sua agonia fu estrema…”. In realtà Sims si convinse, dopo aver sperimentato la scarsa tolleranza al dolore delle donne bianche, che le afroamericane “erano assimilabili a certi animali che sono notoriamente capaci di sopportare sofferenze inaudite”.  I suoi esperimenti continuarono su un numero imprecisato di donne, prevalentemente schiave , più raramente immigrate irlandesi. Solo una volta acquisita una buona esperienza chirurgica e dopo aver messo personalmente a punto strumenti senza i quali gli sarebbe risultato impossibile eseguire gli interventi, Sims cominciò a operare le pazienti “vere”, identificabili in linea di principio con le donne che erano in condizione di pagare.

Sulla figura di Sims, che dopo le esperienze in Alabama divenne famoso ed ebbe una fortunata carriera che lo portò anche in Europa, si è tardivamente accesa una disputa, sulla quale al momento è difficile pronunciarsi. Le cose di cui viene accusato Sims son sin troppo evidenti: ha fatto esperienza su esseri umani, le schiave di colore, che oltretutto non erano nelle condizioni di dare il proprio consenso, e su di loro ha perfezionato una tecnica chirurgica; ha operato senza anestesia, in tempi nei quali gli anestetici cominciavano a diffondersi. Chi difende Sims fa notare che le schiave non potevano dare il proprio consenso perché “appartenevano” a qualcuno e che è invece probabile che il consenso sia stato dato dai loro proprietari. Circa l’assenza di anestesia, Sims cominciò i suoi interventi sulle schiave nel 1845 e la prima dimostrazione ufficiale di un intervento chirurgico in anestesia fu fatta nell’ottobre del 1846 a Boston. Inoltre gli anestetici non godevano di buona fama e il loro uso in interventi simili a quelli eseguiti da Sims era sconsigliato persino da medici come James Young Simpson, lo scopritore del cloroformio. Ed è possibile – anche se non ammesso da tutti – che Sims operasse anche le sue pazienti ricche senza sottoporle a una anestesia.  Se ne può concludere che a tutt’oggi nessuno può dire se Sims, padre discusso della chirurgia vaginale, sia stato un precursore o un mostro.

A quanto pare, o meglio da quanto risulta dalla letteratura che ho potuto consultare, la cosa peggiore che può capitare a un medico privo di scrupoli morali ma pieno di curiosità ( o, peggio, di teorie personali delle quali desidera dimostrare l’attendibilità) è quella di trovarsi in una condizione nella quale è possibile esercitare un potere privo di controlli. Su questi temi si sono sbizzarriti gli scrittori di sceneggiature cinematografiche, che ci hanno ammannito in continuazione storie su direttori di manicomi più alienati dei loro ricoverati e cose del genere, ma spesso la realtà supera la fantasia dei romanzieri. Fa testo la storia del primario chirurgo della prigione di San Quentin, il più antico carcere della California , un tal Leo Stanley, che diresse l’assistenza medica del carcere tra il 1913 e il 1951, quasi 40 anni. Stanley è noto per avere sottoposto centinaia di reclusi a una grande varietà di esperimenti, dimostrando certo una grande fantasia, ma concentrandosi alla fin fine sui loro testicoli e sulla loro fertilità. Stanley si divertì (?) a prelevare le gonadi dei prigionieri mandati a morte (San Quentin è nota anche per le molte esecuzioni eseguite nella sua camera a gas) e a impiantarli a detenuti viventi, ai quali non risparmiava anche trapianti di gonadi di differenti animali (in particolare capre e cinghiali). Stanley era convinto che la tendenza a compiere atti criminali avesse una base biologica e molti suoi esperimenti, inclusi alcuni piuttosto misteriosi che dovrebbero in teoria appartenere al settore dell’eugenetica, fossero utili per ringiovanire gli anziani e rendere migliori i criminali. Costringeva anche molti carcerati a sottoporsi a interventi di sterilizzazione, con l’intento di evitare che trasmettessero i loro pessimi caratteri ereditari alla progenie. Di quest’uomo stupisce soprattutto la longevità nel ruolo, 40 anni di queste sciocchezze non possono passare inosservati.

Nell’elenco, per la verità lunghissimo, delle persone che si sono rese responsabili di sperimentazioni sull’uomo c’è anche un italiano, Giusepper Sanarelli, un nome noto agli studenti di medicina che debbono studiare l’allergia emorragica, il cosiddetto fenomeno di Sanarelli- Schwarzmann, e agli specialisti di microbiologia per via del virus del mixoma che porta il suo nome, il Sanarellia Cuniculi. Sanarelli trascorse almeno tre anni nell’America del sud, dove eseguì una serie di studi sulla febbre gialla, che lui riteneva determinata dal bacillus icteroides. Per dimostrare la veridicità della sua teoria, Sanarelli iniettò il bacillo icteroides a 5 volontari, tre dei quali morirono, una sperimentazione dichiarata “criminosa” dal più famoso clinico americano dell’epoca, William Osler.  Sanarelli fu molto colpito da quelle accuse, che considerò ingiuste (in fondo si trattava di volontari, che avevano accettato di immolarsi per la scienza, c’era forse un modo più nobile di rinunciare alla vita?) e che, si dice, non riuscì mai a dimenticare. La cosa non gli impedì di percorre un cammino pieno di soddisfazioni ( professore ordinario prima a Bologna, poi a Roma, della cui Università fu anche rettore; uomo politico impegnato socialmente, parlamentare nelle file dei costituzionali di sinistra, radicale, senatore del Regno, vittima di un attentato fascista – sventato dall’intervento dei carabinieri – nella sua casa di Pratovecchio). Ma nel giudizio di molti, le sue sperimentazioni sull’uomo continuarono a pesare.

In realtà le teorie che Sanarelli voleva dimostrare erano sbagliate, e questo sembrava dare maggior forza ai suoi detrattori. Ma un secolo prima qualche discussione era nata anche a proposito di una sperimentazione che era destinata a lasciare un segno di straordinario rilievo nella storia del progresso scientifico, quella eseguita da Edward Jenner, il medico inglese che divenne famoso per la scoperta del vaccino contro il vaiolo e che è considerato uno dei padri della immunologia. Jenner meditava di sostituire a vaccinazione con vaiolo umano con quella del vaiolo che colpiva vacche e cavalli, e aveva deciso, d’accordo con la moglie che era in quel momento gravida, di infettare di vaiolo vaccino il bambino appena fosse venuto al mondo. Ciò non fu, per varie ragioni, possibile, e così Jenner ripiegò su una sperimentazione extra-moenia, utilizzando materiale infetto ottenuto dalle mucche e dai cavalli in due giovani soggetti. Uno dei due morì di febbre, l’altro sviluppò una forma di vaiolo attenuata, simile a quella contratta dai mungitori. Può darsi che la mia ricerca non sia stata abbastanza approfondita, ma non ho trovato particolari critiche a questo operato, e in ogni caso il grande successo della vaccinazione non avrebbe lasciato molto spazio a commenti sfavorevoli.

Come vedremo, continuando a esaminare questo lungo elenco di procedimenti sperimentali nei quali l’uomo ha sostituito la cavia, le nostre reazioni tendono ad essere diverse a secondo non solo delle motivazioni degli sperimentatori, ma anche dell’importanza dei risultati acquisiti. E’ giusto che sia così?

Proviamo a prendere in esame l’opera di un medico che salvò la vita a un grande numero di persone, ma che per farlo scelse la sperimentazione sull’uomo. Si tratta di un medico militare americano, Walter Reed, che si trovò coinvolto per incarico del suo governo insieme a un altro medico, James Carrol, e a un microbiologo, Jesse W.Lazear, in una indagine sulla febbre gialla, che in quegli anni (siamo nel 1900) mieteva molte vittime a Cuba, occupata dall’esercito americano. Reed dimostrò, con la collaborazione dei suoi colleghi, che la malattia veniva trasmessa da una zanzara infetta e non esisteva una trasmissione per contatto: provò inoltre che l’ipotesi di Sanarelli, che riteneva di aver identificato l’agente eziologico della malattia nel Bacillus icteroides, era sbagliata. Carroll si lasciò pungere da una zanzara che si era nutrita del sangue di persone infette, si ammalò e quasi ci rimise la vita; Lazear, anche lui punto da una zanzara, si ammalò e morì. Per completare i suoi studi Reed arruolò una ventina di lavoratori cubani che accettarono di farsi contagiare dietro la promessa di un modesto compenso: 100 dollari se fossero sopravvissuti, 200 se si fossero ammalati ( e quindi, molto probabilmente, morti). Ignoro quali siano stati i risultati di questa sperimentazione, la letteratura non ne parla e immagino che l’esercito americano si sia ben guardato dal diffondere informazioni in merito. Quello che so è che Reed dimostrò che la sua ipotesi era corretta e che tenendo conto delle sue scoperte la febbre gialla scomparve dall’isola nel giro di poco più di tre mesi.

Ho discusso molte volte di questi argomenti con persone che la pensano anche molto diversamente da me e qualcuno mi ha fatto notare che la sperimentazione sull’uomo diviene a un certo momento, nella storia di quasi tutti i progressi medici, necessaria, perché esiste sempre la necessità di verificare nella nostra specie quello che abbiamo potuto scoprire nelle specie animali nelle quali i primi esperimenti sono stati condotti. Ma l’argomento che genera i maggiori conflitti è quello dei diritti dell’uomo, un concetto che ha stentato molto a penetrare nella testa di molti di noi. Interi Paesi, popolati da bravi cristiani che andavano a messa ogni domenica e affermavano di ubbidire ai tutti i comandamenti, non riuscivano a capire le ragioni per le quali qualcuno sosteneva che uno schiavo aveva i loro stessi diritti (figuriamoci!) e consideravano certe categorie di persone (i carcerati, ad esempio, i mendicanti, qualche volta persino le donne) come appartenenti a una categoria che di diritti ne poteva vantare pochi. Ecco perché la gente tendeva a dimenticare rapidamente certi scandali – comunque mai troppo rumorosi – dei quali i medici si rendevano responsabili.

Certamente fu presto dimenticato il cosiddetto “disastro di Bilibid”, un drammatico incidente che si verificò in una prigione di Manila nel 1906. Ne fu considerato responsabile un medico americano di nome Richard Pearson Strong, che a quei tempi dirigeva i laboratori di biologia delle Filippine e che utilizzò un vaccino anticoleroso, a  scopo sperimentale, su 24 ospiti delle patrie galere, a Manila. Il vaccino, per ragioni che non furono mai scoperte, era stato contaminato dal batterio (Yersinia pestis, della famiglia delle Enterobacteriacee) responsabile della peste bubbonica e contro il quale, negli stessi laboratori di Manila, si stavano preparando vaccini specifici. La preparazione dei vaccini comportava naturalmente la necessità di coltivare l’agente eziologico, ma come le colture si siano mescolate fu e resta un mistero. Fatto si è che 13 uomini morirono, che il Senato e il Ministero della guerra degli Stati Uniti aprirono una inchiesta dalla quale Strong uscì altrettanto immacolato quanto sputtanato. Ma non durò a lungo: dopo pochi anni ritroviamo Strong ad Harvard, dove insegna medicina tropicale e si guadagna fama e notorietà come ricercatore. Nei libri di storia della medicina americani questa vicenda si conclude quasi sempre con lo stesso commento: “ the Bilibid episode remains, howewer, as a cautionary tale for those engaged in clinical research”. E’ bene ricordare, per correttezza, che ci vollero molti anni perché una commissione creata ad hoc condannasse queste scorciatoie pseudo-scientifiche e chiedesse una revisione delle regole che consentivano di eseguire sperimentazioni sui carcerati senza alcuna autorizzazione e senza il loro consenso. Carcerati, schiavi, negri e, perché dimenticarseli, bambini.

I bambini, “materiale” utile per le indagini

Credo che sia cosa risaputa il fatto che ben poche persone si preoccupavano della salute dei bambini nel XVIII secolo, basta leggere a questo proposito la storia dell’apertura dei primi brefotrofi a Londra e verificare il numero di ricoverati che riuscivano a raggiungere l’adolescenza, le cifre più generose non superavano mai il 20% dei ricoverati. L’interesse dei medici per queste creature cambiò completamente nel XIX secolo, quando cominciò il periodo della sperimentazione su vaccini e crebbe di colpo l’interesse per l’immunizzazione nei confronti delle malattie infettive più gravi e diffuse. I bambini erano soggetti particolarmente adatti a questi studi, soprattutto perché la probabilità che fossero stati già esposti alla malattia che era oggetto di indagine era molto inferiore a quella degli adulti; di non minor rilievo era il fatto che la risposta di un bambino alle vaccinazioni rivestiva un significato del tutto particolare, considerato il fatto che la maggior parte di esse erano destinate proprio all’infanzia. Stavano accadendo inoltre cose che richiamavano l’interesse generale sui bambini: la transizione industriale aveva determinato un notevole aumento dei bambini che lavoravano nelle fabbriche e molte persone chiedevano che la salute di questi ragazzi fosse tutelata; si rendevano disponibili un po’ ovunque istituzioni per bambini, orfanotrofi, asili nido, case protette, ospedali, e a molti ricercatori era evidente l’importanza di poter eseguire sperimentazioni in questi luoghi.

Scrive Susan E. Lederer (Orphans as Guinea Pigs. American children and medical experiments, 1890-1930, in: In the name of the child, Health and welfare 1880-1940, a cura di Roger Cooter, Routlege ed., Londra e New York, 1992) che le sperimentazioni – a scopo terapeutico e non terapeutico – eseguite sui bambini sono certamente più numerose di quanto abbiano creduto molti studiosi d storia della medicina. Alcuni di questi esperimenti comportavano rischi di notevole entità, ma questo non significa che i medici non ne fossero consapevoli e non si preoccupassero. La valutazione dei possibili effetti collaterali e delle eventuali complicazioni indotte dalla somministrazione di farmaci mai sperimentati in precedenza e dei possibili effetti terapeutici era critica nella decisione dei medici. C ‘erano circostanze nelle quali gli sperimentatori fraintendevano la natura e l’importanza dei rischi per i bambini arruolate nelle indagini: nella sviluppo dei vaccini, ad esempio, accadeva frequentemente che i bambini fossero sottoposti a rischi più grandi partecipando alla sperimentazione di quelli che avrebbero corso ammalandosi della malattia.

La prima sperimentazione coinvolgente bambini eseguita negli Stati Uniti si deve molto probabilmente a Zabdiel Boylston, un medico di Boston, che vaccinò contro il vaiolo – usando pus prelevato da una pustola – 248 cittadini di Boston, ma che aveva cominciato con le persone più vicine a lui, i suoi due figli e i suoi due schiavi. Lo stesso Benjamin Waterhouse, che ebbe un  ruolo fondamentale nell’introduzione delle vaccinazioni negli Stati Uniti, scelse come primo paziente il suo figlio maggiore e Thomas C. James, ostetrico di un ospizio di Philadelphia, usò le prime dosi di vaccino arrivate in città su 48 bambini che erano affidati alle sue cure.

Molti bambini furono coinvolti anche nelle ricerche intese a preparare un vaccino contro il morbillo, ricerche che alla fine non portarono a risultati concreti. Il primo a tentare questa strada fu un medico che lavorava nel Rhode Island del quale si sa solo che inoculò materiale infetto, nel 1799, a tre “young persons” scelte nella cerchia delle sue conoscenze. Pochi anni dopo un altro medico, Nathaniel Chapman, che era venuto a conoscenza di tentativi analoghi eseguiti in Europa, fece gli stessi tentativi su un numero indeterminato di bambini che erano ospiti di un brefotrofio di Philadelphia: dopo una serie di fallimenti, il medico concluse che in realtà il morbillo non era contagioso. Quasi mezzo secolo dopo un medico di Chicago, John M’Geer, ci riprovò, usando anche lui come cavie i bambini di un ricovero per mendicanti ai quali iniettò sottocute sangue prelevato da bambini infetti. In qualche circostanza le sue cavie si ammalarono di una forma molto attenuata della malattia, cosa che lo convinse della bontà delle sue ipotesi. M’Geer lavorava in entrambi gli orfanotrofi che la città di Chicago aveva aperto a partire dal 1839, una scelta alla quale gli amministratori erano stati costretti a causa della elevata mortalità dei bambini che trovavano una modesta assistenza solo nei ricoveri di mendicità, insieme a individui adulti, persone ammalate di ogni possibile forma di patologia. La mortalità di questi bambini superava in alcuni anni l’80% e fu soprattutto questo a convincere riformatori sociali e filantropi a costruire case di accoglienza e ospedali che potessero prendersi cura sia delle madri che dei loro bambini. Gli orfanotrofi divennero poi sempre di più il luogo di raccolta dei bambini più fragili e di quelli portatori di malattie croniche, generalmente considerati inadatti alle adozioni, mentre i bambini più robusti venivano mandati a lavorare come garzoni nelle fattorie del Middle West. Fu il periodo in cui cominciarono a comparire, soprattutto nel nord-est degli Stati Uniti, gli Ospedali per bambini, luoghi di cura che, nelle intenzioni dei finanziatori, avrebbero dovuto impegnarsi anche a dare una educazione morale ai piccoli ricoverati. I medici ci lavoravano volentieri, sia perché davano loro l’opportunità di fare esperienza in campo pediatrico, sia  perché ne ricavavano qualche lustro e potevano scrivere sulle loro targhe la qualifica di “medico ospedaliero”, un titolo che rappresentava per molte persone una garanzia di serietà.

Alla maggior parte delle persone e anche a molti dei benefattori che finanziavano questi luoghi di cura era evidente che i bambini ricoverati dovevano trovare il modo di dimostrare la loro gratitudine a che aveva dimostrato tanta compassione per loro e che il modo più semplice e più diretto per farlo sarebbe stato quello di prestarsi a servire come “materiale clinico” per i medici e come “materiale didattico” per gli studenti. Le scuole di medicina consideravano la possibilità di accedere a questo materiale come una fonte di attrazione per gli studenti e davano ampia pubblicità alle loro relazioni con Ospedali e orfanotrofi. Gli amministratori degli ospedali, sempre alla ricerca di fondi, cercavano di attrarre nuovi benefattori sottolineando i vantaggi che derivavano ai figli della buona borghesia dal fatto che ci fossero bambini della loro età disposti a offrirsi come materiale di studio per sperimentare nuove cure per malattie pericolose e molto diffuse tra bambini e adolescenti.

Quanti bambini furono sottoposti a trattamenti sperimentali nel corso di tutti quegli anni non è dato saperlo. Gli amministratori degli ospedali si rendevano conto della difficoltà di controllare l’operato dei medici e la disinvoltura degli studenti, ma si limitavano a dichiarazioni molto generiche nelle quali cercavano di convincere le persone che cominciavano a preoccuparsi che, sì, qualche abuso era possibile, ma che si trattava di ben poca cosa in confronto di quanto accadeva in Germania. Che si trattasse di qualche cosa di più di “occasionali abusi” risulta comunque da molti segnali indiretti. Nel 1886 un medico di Boston, C.F.Withington ( The relation of Hospitals in Medical Edcation, Boston: Cupples, Upham, 1886) identificò alcuni  problemi e suggerì altrettante soluzioni per quanto riguardava l’uso degli ospedali a scopo di insegnamento e di ricerca sperimentale. I pazienti, scriveva, dovevano naturalmente accettare di essere utilizzati nella ricerca clinica nella quale venivano saggiati nuovi medicinali, tenendo soprattutto conto delle molte incertezze della cultura medica: gli stessi pazienti, però, avevano il diritto di essere esclusi dalle sperimentazioni non terapeutiche, quelle che non prevedevano per loro vantaggi di sorta. Da quanto è possibile capire oggi, a distanza di tanto tempo, quella di Withington fu una reazione a uno scandalo che riguardava due medici inglesi, Sydney Ringer e William Murrel, che avevano fatto alcuni esperimenti di farmacologia su alcuni pazienti di un Ospedale dimenticandosi di informarli. In termini molto semplici, Withington chiedeva a tutti i medici di saper distinguere tra gli esperimenti che non avevano conseguenze negative e non causavano disagi, per i quali considerava superfluo un consenso preliminare, e quelli che potevano causare qualche danno, e definì questi due  tipi di ricerca, all’interno delle sperimentazioni non terapeutiche, come “accettabili” e “ non accettabili”. Se lo studio escludeva potenziali vantaggi per il malato, diventava importante il livello di rischio implicito, prevalente. Diverso era il caso delle sperimentazioni terapeutiche: se, ad esempio, un farmaco mai sperimentato in precedenza, dava buoni risultati e risultava in definitiva utile e privo (o quasi privo) di effetti collaterali, questo era sufficiente ad assolvere il medico da ogni accusa da parte degli anti-vivisezionisti. Questi principi furono genericamente accettati, ma interpretati in modo molto diverso nei differenti contesti. Le maggiori polemiche furono provocate dalla sperimentazione dei bambini, sulla quale era più difficile trovare un accordo. Quella che segue è la descrizione di un esperimento clinico sui bambini che testimonia dell’ambiguità delle “norme non scritte” relativo al loro impiego nella ricerca clinica.

Nel 1895, nell’Ospedale Pediatrico di Boston, il dottor Arthur Wentworth si trovò a confrontarsi con un caso difficile, una piccola paziente (due anni e mezzo) che mostrava segni contraddittori di meningite e che avrebbe potuto essere affetta da meningite tubercolare. Wentworth la sottopose ad un accertamento diagnostico che né lui né altri avevano mai tentato prima, le fece una puntura lombare e poté così aspirare alcuni ml di liquido cefalo-rachidiano che, oltre tutto, si rivelarono sterili. Wentworth ha descritto la sua esperienza che, a quanto si riesce a capire, deve essere stata sconvolgente. Dopo l’estrazione dell’ago, infatti, la bambina divenne molto agitata, cominciò a rotolarsi nel letto lamentandosi e strappandosi i capelli; la frequenza del polso superò i 200 battiti al minuto, la respirazione divenne superficiale e la cute fredda e livida. Né l’applicazione di panni caldi, né l’iniezione sottocutanea di alcool migliorarono questi sintomi che cominciarono a regredire solo dopo tre quarti d’ora. E commenta alla fine Wentworth: “Durante l’intero attacco mi sono sentito in estremo disagio, non ero preparato a una siffatta reazione e non sapevo quale ne sarebbe stato l’esito. Oggi penso che in realtà la bambina non sia mai stata in pericolo di vita e che tutto fosse determinato da un terribile mal di testa conseguente alla sottrazione di liquido”.

 

Dopo uno stress di questo genere, si dovrebbe immaginare che il dottor Wentworth tendesse a scegliere un basso profilo, ma in realtà non andò così. Nel 1896, nello stesso ospedale, il medico sottopose allo stesso prelievo di liquido cefalo rachidiano 29 bambini, questa volta senza neppure la giustificazione di una finalità diagnostica, ma solo per capire meglio quali fossero i rischi reali e quale la concreta utilità diagnostica dell’esame. Intervenne naturalmente la lega antivivisezionista americana, che sottolineò il fatto che si trattava di un accertamento doloroso, sgradevole e privo di reale utilità per chi lo subiva e accusò Wentworth di eseguire esperimenti di vivisezione in campo umano e, oltretutto, “di aver usato bambini ricoverati in ospedale senza aver informato le madri dei suoi progetti e senza aver ottenuto da loro il consenso necessario”.

Nel 1899 vari Stati americani si predisponevano a discutere nuove leggi che regolassero la vivisezione e la sperimentazione sugli animali; fu in quell’anno che cominciò a circolare un pamphlet che concerneva la  sperimentazione sull’uomo e nel quale venivano attaccati lo stesso Wenthworth, Sanarelli e un notevole numero di medici che avevano eseguito esperimenti di vario tipo nelle isole Hawai, in Inghilterra, in Austria, in Germania e in Svezia. Il medico più maltrattato era un tale dottor Jensen di Stoccolma il quale, dopo aver fatto una serie di esperimenti inoculando il vaiolo nei vitelli, dichiarò pubblicamene che quegli animali costavano troppo e che era più semplice, più comodo e meno costoso proseguire i suoi studi sui bambini degli orfanotrofi.

Per quasi 20 anni le maggiori società anti-vivisezioniste americane se la presero con insistenza e con grande aggressività sia con Wentworth che con l’intera classe medica, responsabile di non aver pronunciato, nei suoi confronti, una esplicita condanna. Quei lunghi anni però servirono anche alla causa di Wentworth: la sua tecnica di prelievo di liquidi cefalo rachidiano si rivelò priva di complicazioni e utili sul piano diagnostico, e malgrado non appartenesse alla categoria più tollerata delle esperienze terapeutiche gli tolse molti botoli dalle caviglie; inoltre il medico si comportò in modo molto civile, si rifiutò di portare in giudizio i suoi diffamatori anche quando questi esageravano nelle accuse (scrissero più volte che erano morti dei suoi piccoli pazienti a causa delle punture lombari, cosa che non fu mai dimostrata) e così si guadagnò molte simpatie. Si riaprì così la discussione sulla diversità morale tra indagine terapeutiche e non terapeutiche e molti medici cominciarono a parlare in favore anche sulle seconde, di cui si cominciava ad apprezzare l’utilità diagnostica: e finalmente qualcuno cominciò a far notare che migliorare le possibilità diagnostiche era fondamentale per poter contare su terapie mirate.

Ma gli inizi del ventesimo secolo furono soprattutto caratterizzati da una riaccensione delle dispute relative alla moralità delle indagini eseguite sui bambini allo scopo di mettere a punto nuovi vaccini e di scoprire nuove tecniche di diagnosi per le malattie infettive. Oggetto principale della nuova discussione furono alcune ricerche condotte da medici di Filadelfia per mettere a confronto differenti test validi per la diagnosi di tubercolosi e i test eseguiti alla Rockefeller Foundation per la diagnosi della sifilide.

Nel 1908 tre medici pubblicarono i loro risultati relativi ad altrettanti test per la tbc, che prevedevano la somministrazione di tubercolina per via trans congiuntivale, muscolare e cutanea. Oggetto degli esperimenti erano bambini di età inferiore agli otto anni, quasi tutti ospiti della St.Vincent Home, un istituto di ricovero che accoglieva orfani e trovatelli. Quello che irritò in modo particolare gli anti-vivisezionisti fu il fatto che i medici attesero sempre i risultati dei test prima di considerare le condizioni di salute dei bambini, confermando così il sospetto di averli sempre ritenuti dei semplici oggetti di sperimentazione, né più né meno di cavie. I medici avevano le loro ragioni da opporre, ma non furono ascoltati.  I loro critici se la presero soprattutto con le somministrazioni trans oculari della tubercolina che, a loro avviso, “frequentemente determinavano serie lesioni degli occhi” e che comunque avrebbero dovuto essere evitate, tenendo soprattutto conto del fatto che “esistevano altri test diagnostici di pari valore o di valore superiore”. In realtà questi test finirono col rivelare un elevato numero di lesioni tubercolari che altrimenti sarebbe stato diagnosticato con grande ritardo, ma la cosa non ebbe rilevanza. Fece molta impressione la pubblicazione di pamphlet antivivisezionisti nei quali comparivano le foto di tre bambini con gli occhi praticamente chiusi a causa di severe congiuntiviti e si sparse la voce, che per quanto so non trovò mai conferma, che alcuni di loro avevano perso la vista. A gettare benzina sul fuoco arrivarono, all’inizio del 1909, le dichiarazioni di un medico di New York, L.Emmett Holt, insegnante di malattie infantili al Columbia University College of Physicians and Surgeons, che aveva ripetuto gli stessi esperimenti su bambini ricoverati al New York Babies’Hospital. Anche in questa occasione i vivisezionisti si sentirono provocati e questa volta a farlo furono le espressioni fredde e distaccate – inumane, dissero loro – che Bolt usò per descrivere i risultati dei test alla tubercolina in “bambini morenti”.

 

Proprio agli inizi del Novecento, Alfred H.Ness, direttore medico dell’orfanotrofio per bambini ebrei di New York, condusse una serie di sperimentazioni sui piccoli ospiti dell’Istituto per valutare l’efficacia di alcuni vaccini contro la pertosse e per studiare l’anatomia e la fisiologia dell’apparato digestivo. Fu lo stesso Hess a dichiarare che “le condizioni del brefotrofio erano molto simili a quelle ideali nelle quali è opportuno studiare le infezioni sperimentali negli animali di laboratorio, condizioni che solo molto raramente sono riproducibili in campo umano”. Molte persone, in quel tempo, trovavano encomiabile l’impegno del dottor Ness, ma le sue successive ricerche sulla etio-patogenesi del rachitismo e dello scorbuto, eseguite sottraendo vitamine e minerali dalla dieta dei bambini fino alla comparsa di lesioni specifiche, trovò meno sostenitori. Eppure, nel corso di una discussione pubblica che  affrontava il problema morale posto dalle sperimentazioni non-terapeutiche sui bambini, gli editori di un giornale medico americano, pur convenendo sulla necessità di ottenere un consenso dai genitori (che nella fattispecie non esistevano), dichiararono che in ogni caso per i bambini arruolati nelle diverse sperimentazioni era soprattutto in gioco la possibilità di pagare un grande debito contratto con la società.

Sarebbe comunque strano che a nessun pediatra fosse venuto in mente di utilizzare i bambini per qualche studio sulla sifilide. Ci pensò in effetti il Dottor Hideyo Noguchi, medico del Rockefeller Institute for Medical researche, che pubblicò nel 1911 i risultati di una ricerca eseguita su 146 pazienti ospedalieri, tra i quali erano inclusi molti bambini sani. Noguki cercava di mettere a punto un test cutaneo per la diagnosi della malattia e a questo scopo iniettò una preparazione di spirochete inattivate sotto la cute delle sue cavie. Il fatto che Noguchi avesse utilizzato ospedali pubblici e bambini di età compresa tra i due e gli otto anni per diagnosticare una malattia il cui nome era ancora impronunciabile nelle case della borghesia americana irritò particolarmente gli antivivisezionisti che scelsero di prendersela soprattutto con gli amministratori ospedalieri e con i medici che avevano consentito a Noguchi di fare le sue sperimentazioni. Fu invece il Presidente della Società per la prevenzione di atti di crudeltà sui bambini che accusò formalmente Noguchi di “vivisezione umana continuata”. Questa volta molti medici si levarono per difendere il loro collega dalle accuse: la somministrazione era innocua, il materiale usato era inattivato e non poteva causare infezioni ed esisteva, soprattutto, una finalità terapeutica, diagnosticare precocemente la malattia consentiva di iniziare tempestivamente cure appropriate e certamente più utili di quanto sarebbe stato possibile attendersi da trattamenti più tardivi.

 Due anni dopo un certo numero di genitori dei bambini che avevano partecipato alla sperimentazione fecero causa al dottor Noguchi accusandolo di aver “presumibilmente” infettato i loro figli. Non ho trovato traccia alcuna del processo, e mi auguro che quel “presumibilmente” sia in effetti di per sé assolutorio.

Il conflitto tra medici e associazioni antivivisezioniste che si svolse in quegli anni fu molto violento ma anche, per certi versi, poco aderente alla realtà dei fatti. E’ del resto possibile che il vero dissidio fosse quello relativo alla sperimentazione sugli animali che rappresentavano, per molti, il vero scandalo e che molti volevano far vietare da leggi specifiche. Le associazioni di animalisti consideravano più facile ottenere restrizioni sulle ricerche eseguite in campo umano, ottenute le quali avrebbero cercato di sottolineare il legame tra la vivisezione sull’uomo e quella sugli animali da esperimento. Poiché il loro principale obiettivo era quello di risparmiare le sofferenze agli animali e le polemiche che continuamente aprivano sulla vivisezione umana erano funzionali a questo, si possono spiegare i molti errori e le altrettanto numerose disattenzioni commesse. Erano probabilmente convinti che le ricerche sui bambini fossero poco frequenti e si ritenevano soddisfatti dall’aver scoperto almeno due casi emblematici, quelli di Wentworth e di Holt; d’altra parte il loro metodo per identificare discutibili comportamenti medici era molto ingenuo, poiché si basava esclusivamente sulle notizie che comparivano sui giornali relativamente alle nuove acquisizioni della medicina. E’ quasi certo che nessuna delle loro associazioni abbia mai eseguito una indagine sistematica sui giornali scientifici, che già venivano pubblicati in gran numero e sui quali, prima o poi, dovevano comparire i risultati di tutte le ricerche sperimentali: se lo avessero fatto avrebbero ben presto scoperto che le ricerche sperimentali sui bambini erano molto più numerose di quanto credevano. C’è anche una ulteriore ipotesi, piuttosto maligna, secondo la quale in realtà gli anti-vivisezionisti si preoccupavano molto di più per gli animali che per i bambini.

Per avere un’idea di quanto praticata fosse la sperimentazione sui bambini basta in effetti esaminare un giornale pediatrico (l’American Journal of Diseases of Children, che aveva cominciatole pubblicazioni nel 1911): nei fascicoli dei primi cinque si trovano descritte 68 ricerche sperimentali che avevano come oggetto i bambini e che erano state eseguite prevalentemente in Ospedali pediatrici e in orfanotrofi. Commentando questi dati, Susan Lederer scrive che è molto probabile che la maggior parte delle sperimentazioni, in realtà, non sia mai stata pubblicata, perché i medici, allora come oggi, tendono a descrivere ai colleghi solo i propri successi.

A testimoniare questa frequente utilizzazione dei bambini come cavie esistono molte evidenze indirette. Nel 1914, ad esempio, poco prima dell’apertura delle scuole, molti genitori ricevettero un volantino  che faceva pubblicità al “Vaccino Antivirale Lederle”, prodotto “attivo e potente” (non è chiaro nei confronti di quale malattia) che viene descritto come “physiologically tested on children”. La stessa propaganda compariva in quei giorni  nell’American Journal of Public Health. Un secondo indice di quello che i medici pensavano a quei tempi delle sperimentazioni sui bambini emerge dalle parole usate nei testi pubblicati: ad esempio non si trova mai un riferimento alla loro età o alla loro condizione, il termine privilegiato è sempre lo stesso, “materiale”, e spesso si capisce che si tratta di bambini perché viene indicato il luogo nel quale si eseguono le esperienze, “orfanotrofi”, “Ospedali pediatrici” e simili. Che questo lessico fosse usato perché parte del gergo medico e scientifico o che invece indicasse, più semplicemente, l’enorme distanza sociale esistente tra bravi medici borghesi e piccoli pazienti indigenti è difficile dirlo.

I rischi corsi da questo “materiale” e le complicazioni rese possibili dalle sperimentazioni erano naturalmente molto difficili da valutare in assoluto e molto spesso non calcolabili a priori, anche perché le sperimentazioni variavano dal modo migliore di registrare la temperatura del corpo agli effetti terapeutici di farmaci mai saggiati precedentemente sull’uomo. Accadeva però spesso che indagini apparentemente prive (o quasi) di rischi presentavano difficoltà tecniche cui conseguivano possibilità di complicazioni molto più alte di quelle dovute alla ricerca in sé. I prelievi di sangue, nei bambini molto piccoli, erano naturalmente indaginosi; alcuni studi richiedevano una collaborazione che in molte occasioni i piccoli pazienti non erano disposti a offrire. Ad esempio in una  ricerca relativa alla risposta elettrica alla corrente galvanica gli investigatori accennano alle resistenze opposte dai bambini e alla necessità di ricorrere ad una anestesia con cloroformio in un certo numero di casi e vari articoli relativi allo studio radiologico della anatomia e della fisiologia dell’apparato digerente riferiscono della presenza tra il materiale arruolato di molti soggetti ribelli e indisciplinati e della necessità di utilizzare qualche forma di anestesia (immagino si trattasse in tutti i casi del cloroformio, i farmaci a disposizione degli anestesisti non erano poi così numerosi). Alcune descrizioni dei modelli sperimentali colpiscono in modo particolare: in alcune ricerche sul metabolismo, i bambini venivano costretti a una prolungata immobilità ( talora per più di una settimana) e l’unica ragione per sospendere questa ricerca era una significativa perdita di peso.

Fare esperimenti sui bambini, in ultima analisi, comportava qualche rischio per i medici (soprattutto l’esposizione alla critica non solo degli antivivisezionisti, ma anche di un certo numero di giornalisti) e qualche difficoltà obiettiva:  perché dunque queste ricerche erano tanto diffuse? In realtà le ragioni erano molte: come ho già scritto, i bambini erano i migliori soggetti per ricerche sui vaccini; spesso gli studiosi cercavano di capire, nei bambini, fenomeni apparentemente inspiegabili osservati negli adulti; i fisiologi erano interessati alla diversità funzionali degli organi e degli apparati nell’infanzia e nella vita adulta; molti medici cercavano metodi di prevenzione per malattie molto diffuse e poco sensibili ai trattamenti e, ancora una volta, i bambini sembravano più adatti degli adulti.  E’ anche possibile che qualche sperimentatore fosse alla ricerca di una promozione in campo professionale, le scoperte e le nuove proposte in campo medico giovavano alla carriera. E comunque, per molte ragioni, sperimentare sui bambini era come fare ricerca in uno stabulario su animali di laboratorio, con l’unica differenza che i bambini erano “futuri uomini”.

Nelle pubblicazioni di quegli anni non c’è quasi mai un riferimento al consenso dei genitori, il che potrebbe anche dipendere dal fatto che la maggior parte dei bambini erano orfani o trovatelli.  Ma i bambini non possono autorizzare alcuna ricerca sperimentale su se stessi, lo dicono le leggi, lo afferma l’etica medica. Il fatto che spetti ai genitori fornire queste autorizzazioni  prende origine dalla convinzione che i bambini fossero proprietà di chi li aveva generati, e che pertanto spettasse a costoro decidere il loro destino. Ancor oggi si parla di diritti genitoriali, anche se questi diritti non sono giustificati da principi basati sulla “proprietà” ma piuttosto su valori che possono essere attribuiti alla famiglia e ai suoi valori. Attualmente non sarebbe neppur immaginabile che un bambino potesse essere sottoposto a ricerche sperimentali senza il consenso dei genitori, una legittimazione che diventerebbe molto discutibile se apparisse chiaramente la mancanza di qualsiasi possibilità di un vantaggio derivante dalla ricerca. Ciò significa che l’autorità dei genitori non è assoluta ma prevede dei precisi limiti. Le leggi riconoscono numerose eccezioni stabilite soprattutto per proteggere i bambini da quelli che la società considera rischi impropri e inaccettabili. Esistono, a dimostrazione di quanto ho detto, norme che proibiscono e puniscono le punizioni corporali, una precisa limitazione dell’autorità genitoriale. Per quanto riguarda la ricerca scientifica, il vero problema riguarda il diritto dei genitori  di consentire che i loro figli vengano arruolati in ricerche che mettano a rischio la loro salute senza che essi ne possano trarre vantaggi e benefici, utilizzandoli a beneficio di altre persone. Ma c’è qualcuno che possiede l’autorità di dare questo consenso?

All’inizio del XX secolo gli Stati Uniti erano certamente il Paese che, nel mondo moderno, si proponeva come “testimone del progresso scientifico” e che più di ogni altro sembrava ansioso di sperimentare le nuove tecnologie. Questo significava, inevitabilmente, sperimentare in campo umano e per molte ragioni e per molti anni la valutazione della eticità delle sperimentazione venne affidata alle stesse persone che le proponevano. Era inevitabile che ciò fosse causa, a intervalli regolari, di scandalo e di proteste e che a queste proteste facesse seguito qualche tentativo di mettere gli studi sperimentali, e soprattutto quelli eseguiti sui bambini, sotto il controllo di nuove normative. Così, quando un medico di nome Isaac Abt indusse “preoccupanti sintomi di prostrazione e di collasso” in tre bambini (uno dei quali aveva 4 anni e soffriva di disturbi cognitivi) ai quali aveva iniettato una gelatina sperimentale  non furono sufficienti le sue pubbliche scuse e il fatto di aver abbandonato il protocollo umano per passare ad analoghe ricerche sui conigli, le proteste che si levarono furono tali da indurre molti senatori a cercare di far approvare una legge in grado di proteggere bambini, persone deboli di mente e donne gravide dall’aggressività degli sperimentatori. Nel 1900 e nel 1892 furono così fatti due tentativi di regolamentare la ricerca scientifica sull’uomo, tentativi che non approdarono a nulla. Proposte analoghe furono fatte negli stati dell’Illinois (1905 e 1907) e di New York ( 1914 e 1923), sempre senza successo.

A partire dal 1930 migliaia di bambini americani furono arruolati nelle ricerche cliniche intese a trovare un valido vaccino contro la poliomielite, e ciò nonostante il fatto che fosse opinione generale che i tempi non erano ancora maturi per questo genere di studi. Il dibattiti e le polemiche su questi esperimenti continuarono per quasi 20 anni e dimostrarono che su questo tema c’era una forte irritazione dell’opinione pubblica e un altrettanto grande imbarazzo tra i medici. Ma, come spesso accade, l’attenzione della gente fu attirata più dai casi singoli che dai problemi collettivi. Nel 1941 un chirurgo plastico, Robert Moran, fu portato in giudizio dai genitori di una bambino di 15 anni per aver eseguito, senza il loro consenso, un intervento molto complesso di trapianto cutaneo, intervento eseguito in favore di una bambina che era portatrice degli esiti di vaste bruciature cutanee. L’intervento non aveva avuto buon esito, lo stesso donatore ne era uscito con qualche brutta cicatrice e non c’era stato alcun vantaggio per la bambina. Moran fu condannato dalla corte sia per la mancanza di un consenso dei genitori, sia per aver eseguito un intervento dal quale il ragazzo operato non avrebbe in alcun caso potuto trarre il benché minimo beneficio. I medici furono molto impressionati da questa decisione della Corte e per qualche tempo le sperimentazioni sui bambini si  fecero meno frequenti.

La ricerca scientifica in campo pediatrico ebbe un nuovo e importante risveglio dopo la fine della seconda guerra mondiale. Tecnicamente, sul piano dei controlli e dei regolamenti, non era cambiato molto. E’ vero che fino alla stesura del Codice di Norimberga non era esistito alcun tipo di regola che mettesse ordine sui problemi etici relativi alla ricerca scientifica sui bambini, ma non c’è ragione di pensare che i giudici di Norimberga intendessero alludere anche ai minori scrivendo che “ tutte le persone oggetto di sperimentazione debbono avere la capacità legale di dare il proprio consenso”.

In ogni casi i processi ai criminali di guerra nazisti e la scoperta che nei campi di concentramento i medici avevano sperimentato senza alcuna cautela né compassione, compiendo esperimenti atroci, odiosi e prevalentemente del tutto inutili, fece cambiare qualcosa nel modo in cui i medici americani consideravano le ricerche mediche sui bambini. Se ne trovano tracce negli scritti di Irving Latimer, un avvocato che si era laureato presentando una tesi intitolata “Legal and etical implications of medical research on human beings”.  Latimer era particolarmente preoccupato per l’uso sconsiderato che i medici facevano dei bambini affidati agli orfanotrofi e di quelli ricoverati in Ospedali pediatrici e molto critico nei confronti di quelle ricerche che non portavano alcun beneficio ai piccoli pazienti coinvolti. Lasciava però qualche modesta possibilità alle ricerche non terapeutiche eseguite  su soggetti “legalmente non competenti” ricordando però ai medici che i nazisti, per giustificare alcuni dei loro esperimenti più illeciti, si erano spesso nascosti dietro qualche tipo di razionalizzazione, affermando ad esempio che la disponibilità di certi individui in certi contesti e in determinati momenti può rappresentare una importante risorsa strategica che l’importanza della posta scientifica in palio può indurre a utilizzare. Questa giustificazione, concludeva Latimer, non può mai essere invocata, tranne che in particolarissime circostanze.

I medici che hanno lavorato negli Ospedali pediatrici negli anni immediatamente successivi alla fine della seconda guerra mondiale erano sol diventati un po’ più prudenti, ma erano ancora convinti che non fosse necessario ottenere il permesso dei genitori per eseguire sperimentazioni sui loro figli, nemmeno nei casi di ricerche non terapeutiche.

Questo problema è stato affrontato come “questione di pubblico interesse” negli Stati Uniti solo a partire dal 1970, un ritardo difficile da giustificare. Il primo ente istituito per dettare le regole fu la “Commission for the Protection of Human Subjects of Biomedical and Behavioral Research; le sue raccomandazioni costituirono la base delle norme federali stabilite, nel 1983, per regolamentare la ricerca scientifica terapeutica sui bambini. Queste norme stabiliscono che la partecipazione di bambini a indagini scientifiche che comportino qualche tipo di rischio sono consentite solo se una commissione ad hoc stabilisce che gli elementi potenzialmente negativi della ricerca siano giustificati da potenziali vantaggi per i soggetti arruolati per l’indagine. Inoltre il rapporto tra “benefici anticipati” e rischi deve essere favorevole per i bambini almeno quanto lo sono le alternative disponibili e deve essere adeguatamente sollecitato l’assenso dei bambini e il permesso dei loro genitori o di chi per essi. La scelta dei termini non è casuale, l’assenso dei minori e il permesso parentale sono chiaramente cosa diversa dal consenso legalmente valido di un adulto competente.

Per quanto riguarda la ricerca non terapeutica sui bambini i regolamenti federali la consentono solo se la commissione delegata al controllo riconosce che il  rischio implicito è “no greater than minimal”, senza peraltro definire il concetto di “minimo rischio”. Restano le stesse indicazioni relative al permesso dei genitori e all’assenso dei bambini considerati capaci di intendere e volere. Esistono poi regole molto puntuali per consentire le sperimentazioni nel caso che l’entità del rischio venga considerata “più che minima” ed esiste anche la possibilità di approvare ricerche che non rientrano nelle regole previste, ma solo in circostanze eccezionali.