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La sterilità: disagio o malattia?2018-12-15T13:47:01+02:00

La sterilità: disagio o malattia?

Giugno 2018

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Secondo un’idea della vita che la considera essenzialmente un dono di Dio, è impossibile (almeno in teoria) considerare malattia la incapacità di avere figli. Se immaginiamo che un figlio debba essere considerato un dono del creatore ( l’uomo procrea, cioè collabora con il suo Signore) è difficile inserire la sterilità tra le forme di patologia, non ci lamenta per non aver ricevuto un dono, non ci si interroga sulle motivazioni che hanno indotto un Dio a fare certe scelte.

Questa polemica, che sembra oggi molto meno virulenta di quanto parve agli esordi della PMA , si associò per un lungo periodo di tempo a una discussione altrettanto aspra sulla natura delle tecniche di fecondazione assistita, che secondo alcuni cattolici non potevano essere considerate terapeutiche, in quanto non risolvono il problema della sterilità.

Non prenderò in esame questo secondo punto (che mette in discussione anche la natura terapeutica della insulina e del taglio cesareo) ma tratterò del primo secondo il principio laico secondo il quale dobbiamo essere noi , con la nostra morale di senso comune, a dare le definizioni delle cose che riguardano la nostra vita e non le dottrine religiose.

D’ altra parte il dibattito sui problemi morali proposti dalle PMA si è notevolmente modificato in questi ultimi tempi. In effetti alcuni temi (come quello relativo alla dignità della procreazione) non sono più presenti, altri vengono discussi su differenti basi. Particolarmente interessante è la tracimazione degli interessi: i biologi affrontano molto spesso ( e con risultati non proprio brillanti) i problemi filosofici e teologici e i teologi tendono (con risultati ancora peggiori) a discutere di biologia, un problema che è stato definito da alcuni come “la sindrome di Margite”, l’antieroe che “sapeva molte cose ma le sapeva tutte male”. Una discussione molto interessante si sta svolgendo intorno a una dichiarazione della CEDU (sentenza del 2011 sulla proibizione austriaca di eseguire donazioni di oociti) che afferma che su questi temi è necessario legiferare con grande prudenza, tenendo conto del fatto che il diritto è in costante evoluzione e che ciò richiede un esame sistematico dei mutamenti della morale di senso comune, per adeguare a queste modificazioni le nuove normative. In altri termine la CEDU ha chiesto ai legislatori di riconoscere l’origine della regola etica nella morale collettiva e non nelle dottrine.

In ultima analisi, i nuovi problemi posti dalla fecondazione assistita possono richiedere a molti di noi un cambiamento delle opinioni ereditate dall’etica tradizionale. Sembra necessario riconoscere che una trasformazione così profonda come quella che si profila circa la funzione riproduttiva della famiglia può comportare una nuova etica, con parametri diversi da quelli tramandati dalla tradizione.

Se è vero che la Rivoluzione biomedica, come continuazione della Rivoluzione industriale, comporta «la più fondamentale trasformazione

dell’umanità di cui si hanno documenti scritti», allora è ragionevole pensare che la scienza stia aprendo una fase storica nuova e che gli antichi paradigmi debbano essere messi in discussione.

Dunque prenderò in esame le definizioni di salute e di malattia, ignorando di necessità il passato e cominciando da quella che ha rappresentato il manifesto della medina moderna e che l’OMS enunciò subito dopo la fine della seconda guerra mondiale.

L’Oms ha elaborato una definizione di salute diventata rapidamente famosa in tutto il mondo: ” benessere psico-fisico e sociale ed equilibrio tra parti in interazione reciproca”. Non si tratta dunque più della semplice assenza della malattia, ma di un diritto che si pone alla base di tutti i diritti fondamentali che spettano alle persone, una risorsa di vita quotidiana che consente alle persone di condurre una vita produttiva a livello individuale e sociale e che contempla, oltre alla importante conferma relativa alla definitivamente acquisita pari dignità del versante biologico e del versante psicologico nella condizione di salute, anche la nozione di equilibrio, decisamente più personale e quindi più complessa da attuare. La definizione della OMS contiene anche al suo interno molte delle idee che cominciavano a diffondersi nei riguardi delle politiche sanitarie di tipo pubblico e rappresenta una vera e propria rivoluzione per la medicina.

Se si pensa ai molti modi in cui, nelle diverse epoche storiche, sono state considerate la salute e la malattia, appare chiaro che la condizione morbosa, nata come fenomeno magico e religioso, con la nascita della medicina scientifica è stata definita secondo un modello bio-medico che la metteva al centro dell’ attenzione senza preoccuparsi della salute e delle condizioni di vita dei cittadini (e soprattutto dei lavoratori).

Nel XX secolo, con la frammentazione delle conoscenze biomediche e con la specializzazione professionale che ne è derivata, si è fatta strada anche una tendenza esasperata alla specializzazione che si spinge fino a considerare l’individuo il supporto occasionale di un organo malato, atteggiamento che può condurre fino alla negazione dell’individuo come persona.

Il nuovo concetto di salute “globale” considera invece la persona come una unità psico-fisica che interagisce con il mondo che la circonda e presuppone così la necessità di una vera e propria “educazione alla salute” e di una “medicina della persona”. Questa definizione tiene conto dell’esistenza, attorno al medico, di condizioni importanti, di tipo ambientale, psicologico e sociale, un fatto del quale tutti sono ormai consapevoli: è vero infatti che alcune malattie sociali, come l’aterosclerosi e il cancro, sono le principali cause di morte per la popolazione, mentre diminuiscono le malattie infettive e aumentano quelle degenerative. Come spesso accade, si tratta di una circostanza che è sotto gli occhi di tutti, ma che nessuno riesce a vedere con chiarezza: accade così che la medicina viene messa di fronte a un concetto di salute e di malattia che è figlio di un particolare momento storico, sociale e culturale e che non può essere ignorato.

La medicina, ora, non può che organizzarsi e prepararsi per assolvere ai nuovi compiti che la società le assegna: deve occuparsi dei nuovi stili di vita e di come i cambiamenti che essi producono siano responsabili di nuovi rischi sanitari; deve registrare un significativo cambiamento delle entità morbose, nella cui genesi non si trova più un solo fattore responsabile, ma è evidente la presenza di più fattori di rischio che collaborano per indurre la patologia.

E’ un’epoca di grandi cambiamenti, e alcuni di questi prendono la loro origine da eventi che non sono in prima approssimazione collegati con la malattia, ma che costringono le società a ridefinire l’elenco delle circostanze che possono interferire con la salute: una delle più importanti tra esse è certamente la struttura demografica della popolazione, che tra il 1970 e il 2010 ha visto aumentare la propria attesa di vita di dieci anni, senza peraltro che l’attesa di salute sia migliorata in modo corrispondente. Si viene così a determinare una popolazione di “longevi e sopravviventi” che presenta specifici bisogni individuali e sociali, che chiedono alla società nuovi progetti e grandi cambiamenti in campo di economia e di politica sanitaria e alla medicina più tecnica e più umanità. Ancora una volta il concetto di salute e di malattia ha bisogno di essere definito, per motivi ai quali nessuno avrebbe mai pensato in precedenza, il che dimostra quanto fragili siano, in questa materia, le convinzioni e i consensi.

In realtà, la società con la quale la medicina si deve confrontare è sempre più complessa e, soprattutto, comincia ad avere coscienza dei propri diritti. I primi di questi diritti che i cittadini chiedono sono quello dell’autonomia e dell’autodeterminazione, principi che comportano un aspro conflitto con le religioni perché hanno a che fare soprattutto con scelte che riguardano l’inizio e la fine della vita, la vita sessuale e riproduttiva, la scelta di rinunciare alle cure quando non sono più utili per migliorare la qualità dell’esistenza, il concetto di inizio e di fine della vita personale. La medicina viene colta impreparata, ha sempre considerato questi temi con una certa sufficienza e si è sempre tenuta lontana dalla discussione dei filosofi, che di questi argomenti hanno invece discusso per secoli. Nasce, negli anni Settanta, la bioetica, che Uberto Scarpelli così definisce: “l’etica in quanto particolarmente relativa ai fenomeni della vita organica, del corpo, della generazione, dello sviluppo, maturità e vecchiaia, della salute, della malattia e della morte. Non è una disciplina autonoma e indipendente: ricomprende problematiche legate al progresso della conoscenza e delle tecniche biologiche, ma un adeguato approfondimento riporta alle questioni e agli atteggiamenti etici fondamentali concernenti l’uomo in quanto anima e corpo, spirito e materia, organismo capace di azioni e interazioni significanti e simboliche eccedenti il campo d’indagine della biologia”(La bioetica. Alla ricerca dei principi. In: Bioetica laica, a cura di Maurizio Mori, Baldini e Castoldi editori, Milano, 1998) ; un ulteriore carattere della bioetica è la sua multidisciplinarità, perchè coinvolge, oltre ai filosofi, esperti di molti e diversi rami delle scienze. E la prima richiesta della Bioetica è quella di poter interloquire con la medicina.

All’interno di questa “etichetta” vengono ormai collocate un’ ampia serie di tematiche che derivano prevalentemente dallo sviluppo delle conoscenze e delle tecnologie ad esse applicate, nell’incontro – scontro con l’ambiente sociale e culturale nel quale esse si realizzano. Si può quindi dire che stiamo parlando , da un punto di vista sociologico, di un processo ultra millenario che coinvolge la specie umana, dell’impatto sociale della scienza, della conoscenza scientifica, dalla scoperta del fuoco in avanti.

L’agenda bioetica è progressivamente cresciuta ed è, oggi, piuttosto ampia: i nuovi temi sono quelli delle tecnologie riproduttive e dei limiti che debbono essere posti alla scienza, oltre a quelli già citati dell’aborto, della genetica, del fine vita, del testamento biologico, dell’eutanasia, fino alle questioni che riguardano la professione medica, i modelli di medicina, la tutela dell’ambiente, la gestione della scarse risorse del pianeta. Non è certo un caso che di questa nuova disciplina si sia cominciato a parlare in relazione alla gestione di interrogativi complessi che il medico, da solo, non si sentiva più in grado di affrontare con gli strumenti offerti dalla deontologia. La medicina è così costretta ad affrontare una nuova crisi del suo statuto professionale, ancora una volta i concetti di salute e di malattia le scivolano dalle mani.

Se si considera il problema della salute secondo questo assunto, e quale che sia la definizione che decidiamo di dare della genitorialità – che si tratti cioè di istinto o di sentimento – dobbiamo ammettere che la consapevolezza di vedersi negata dalla natura o dal fato la possibilità di avere un figlio rappresenta motivo di sofferenza e che la medicina considera oggi le sofferenze come motivo necessario e sufficiente per un suo intervento, risolutivo o palliativo che sia: in molti testi di medicina i segnali della sofferenza vengono considerati come richieste (grida?) di aiuto.

Restano naturalmente fuori da questa definizione i problemi relativi alla legittimità sociale di questa sofferenza (se viene da una donna anziana? Da una donna che ha deciso di vivere da sola? Di una coppia omosessuale?) e di quelli che riguardano l’ obiezione di coscienza di coloro che mettono i propri principi morali al di sopra della utilità sociale del servizio che prestano

Come si vede siamo all’interno della relazione di cura, in quella parte del rapporto che mescola la salute con la vita sociale e culturale delle persone, ed è in questo nodo complesso che vanno cercati i punti di riferimento utili per disegnare i percorsi più vantaggiosi per la soluzione del conflitto.

E’ chiaro, da quanto ho detto, che se ci si pone in un’ottica minimalista di quel che si deve intendere per relazione di cura, da questa visione dovrà derivare un rapporto che ha come base principale la difesa degli interessi delle parti in causa. I sanitari da un lato, con la loro medicina di difesa, fondata su linee guida, articolata attorno a protocolli attuativi, sancita dalla firma sui documenti di consenso informato, dalle obiezioni, più di convenienza che di coscienza; dall’altra parte della barricata i pazienti – e il termine bellico non ci sembra essere fuori luogo – con i loro diritti di cittadinanza, con l’autodeterminazione, anch’essi costretti a difendersi e a trasformare ogni tipo di errore medico in un possibile litigio giudiziario.

In un’ ottica minimalista il conflitto tra il diritto dello stato a promulgare leggi e il diritto dei cittadini all’ espressione della propria libertà di coscienza si risolve, come è stato fatto con l’ottima legge 194 e con la pessima legge 40, con clausole compromissorie che appoggiano la loro precaria validità sul presupposto che nessuna delle parti abusi delle sue prerogative. Se si difendono gli obiettori di comodo non si fa che alimentare l’immoralità diffusa, cosa della quale non abbiamo certamente bisogno. Quando questi equilibri sono messi in discussione ,e il caso dell’obiezione di coscienza ne è un esempio, il conflitto tra i diversi diritti degenera in guerra dichiarata. Nelle guerre tutti perdono, ma i più deboli perdono di più.

Se, invece, si considera la relazione medica in modo diverso, come costruzione di una alleanza e di un progetto per la cura, si deve accettare il fatto che la medicina si è trasformata in un vero e proprio servizio per i cittadini e che non può in alcun caso prescindere dalla loro volontà di autodeterminazione . Ne deriva che l’obiezione di coscienza non può essere esercitata contro i cittadini e contro i loro diritti e che non si può ignorare il principio secondo il quale tra due diritti diversamente fondati costituzionalmente, deve prevalere quello del paziente, non soltanto perché si basa su principi protetti direttamente dalla Costituzione, ma perché sono diversi i piani rispetto ai quali il conflitto va analizzato.

Lo strumento per gestire il conflitto è, quindi, la separazione dei livelli degli operatori sanitari, un conto è il riconoscimento del diritto di coscienza sul piano privato, un conto è il riconoscimento di questo diritto sul piano professionale: in questo secondo caso si tratta di una pretesa che opera nell’ambito di funzioni o servizi e, come dice Piergiorgio Donatelli (L’Italia dell’obiezione di coscienza. Giornate della Laicità, Reggio Emilia, 21 aprile 2013. Radio Radicale.it.) si tratta di una pretesa, certamente di una pretesa legittima, non di un diritto.

Come si debba gestire il dissenso su valori fondamentali nelle democrazie liberali è un tema classico della filosofia. Se l’obiezione di coscienza (o meglio, le clausole di coscienza) rappresenta uno strumento adatto a garantire lo spazio delle libertà di pensiero e dei diritti individuali, non è detto che essa sia anche lo strumento migliore per gestire i conflitti e i dissensi che si possono creare all’interno delle professioni. Con molte probabilità, sarebbe meglio individuare altri strumenti, meno conflittuali, che possano realizzare accordi e mediazioni che non tengano conto, o che tengano conto solo in parte, dei diritti costituzionali. Come l’avvocato si impegna nella difesa di un cliente che non gli piace – un mafioso, tanto per fare un esempio, o un pedofilo – così il medico si deve prendere cura di pazienti che hanno opinioni diverse dalle sue e valori nei quali non si riconosce . Nelle democrazie liberali, si deve anche saper valorizzare chi sa gestire i conflitti e i dissensi che si possono determinare nell’esercizio della sua pro-fessione e dimostra in questo faticoso impegno di possedere doti di serietà esemplare e grandi capacità di dialogare con la propria coscienza.

Quale che sia lo strumento scelto per dirimere questi conflitti (e la separazione dei livelli appare comunque più convincente delle clausole di coscienza, inevitabilmente portate a radicalizzare i dissensi), le regole da applicare dovrebbero essere centrate su una relazione di cura fondata sull’ autodeterminazione dei cittadini, una relazione capace di ascolto e di fiducia. Un modello di medicina capace di coniugare tecnica e formazione umanistica, potrebbe persino rivelarsi più “remunerativo” per i sanitari di quanto essi non si attendano. L’eccesso di difesa è un meccanismo che si autogenera e si autoriproduce, un meccanismo oltretutto molto costoso per entrambe le parti, quindi anche per il sistema sanitario e sociale di riferimento.

La definizione di salute dell’OMS è stata criticata – e da alcuni anche osteggiata – in campo sia medico che filosofico. Daniel Callahan ( The WHO definition of health, in Hastings Center Sudies, 1973) criticando l’eccessiva ampiezza della definizione e il suo carattere utopistico, scriveva: ” Si può ammette che la definizione della WHO abbia in sé più di un elemento di verità, di quel tipo di verità che è insieme altrettanto frustrante quanto colmo di attrattive. Il minimo che si possa dire di essa è che si tratta di una definizione che dà per scontato che esista una relazione intrinseca tra quanto è bene per il corpo e quanto è bene per la persona. Quanto sia attraente pensare che una tale relazione esista è più che ovvio: si oppone ad ogni tentativo di dualismo tra corpo e persona, un dualismo che in ogni caso tende a eliminarsi da solo se appena ci schiacciamo un dito con un martello; costringe poi lo studioso a lavorare a un concetto di salute che alla fine possa essere in grado di resistere a categorie chiare e distinte che siano più prossime all’esperienza percepita. Avverto tutto ciò come qualcosa di molto frustrante”. In realtà le critiche di Callahan vanno oltre a questo primo giudizio e iniziano col giudicare “foolish” il tentativo di definire parole vaghe come “la salute”, una sciocchezza simile a quella di chi vuol definire “giustizia”, “pace” e ” felicità”. Il rischio è quello di includere nella sfera dei problemi di salute ogni tipo di problema sociale, con le inevitabili difficoltà che ne conseguono nel delimitare i compiti della medicina, senza pensare ai pericoli legati a una definizione così palesemente utopistici, non potendo alcun individuo affermare di trovarsi in uno stato di “completo benessere, fisico, psichico e sociale”.

Le critiche di Callahan – e di altri sociologi – sono state per lo meno molto ridimensionate, soprattutto sulla base della convinzione diffusa che il fatto di accettare una idea ampia di salute come quella proposta dalla WHO non sembra avere come conseguenze una medicalizzazione di ogni aspetto – incluso quello sociale – della vita delle persone, ma fa solo comprendere come la salute sia molto di più di quanto siamo indotti a pensare se la consideriamo competenza assoluta della medicina, e non ci rendiamo conto del fatto che essa deve invece essere oggetto dell’attenzione di altre competenze scientifiche e deve coinvolgere le politiche sociali. Entrano infatti in campo, a fianco della medicina, la sociologia, la psicologia, le politiche ambientali e quelle a sostegno del reddito, del lavoro, del tempo libero, della genitorialità e così via.

Fatto si è che la definizione della WHO, accettata da alcuni, rifiutata da altri, ha sollecitato in vario modo la fantasia di molti che della salute hanno dato interpretazioni personali, spesso simili tra loro, ma ognuna caratterizzata da un po’ di fantasia

I dizionari e le enciclopedie non sfuggono a questa voglia di originalità, anche se le loro definizioni sono chiaramente influenzate dal momento storico in cui sono state scritte. Ci limitiamo a due esempi, che riguardano epoche lontane tra loro. Nel nostro “Lexicon Vallardi”, una enciclopedia illustrata pubblicata tra il 1893 e il 1899, la voce “salute” si limita a rimandare alla voce “sanità”, e la definizione conclusiva è “esercizio libero e facile delle funzioni”. Nel Vocabolario Treccani Conciso (Prima edizione, 1998) la definizione è prudente e fondamentalmente organicista : “stato di benessere fisico e psichico dell’organismo, in quanto esente da malattie, da imperfezioni e disturbi organici o funzionali”.

Aldo Masullo (in: Il medico tra corpo ed anima, a cura di Angela Giustino e Mario Coltorti, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, Ed.La Città del Sole, Napoli, 2005) scrive, a proposito di questa definizione, che se si intende la storia come l’insieme delle vicende delle quali ciascun uomo fa esperienza attraverso i cambiamenti che lo coinvolgono dalla nascita alla morte, la malattia e la salute hanno una loro intrinseca storicità, per cui fanno parte integrante della storia. Esse sono – continua Masullo – pertinenze dell’individuo, inteso con il suo rapporto con l’umanità, perché non esiste individuo che non sia diventato essere umano attraverso il rapporto e la comunicazione con l’altro. Si cita in genere una frase di Aristotele secondo il quale l’uomo è un animale politico, dimenticando che in effetti il filosofo aveva scritto che l’uomo è ζῶον πολιτικόν κάι κοινωνικόν, dove κοινωνικόν aggiunge alla definizione di animale politico quella di animale sociale: per questo possiamo parlare dell’attività medica in termini di cura, per indicare la sollecitudine che un essere umano ha per un altro essere umano, l’interesse (nell’accezione di “aver a cuore”) che prova per i suoi simili. Di qui il problema del rapporto tra la medicina come attività di cura e la medicina come scienza e ricerca, perché è chiaro che anche in questa seconda accezione la medicina deve pretendere da se stessa il massimo della neutralità. Il medico ricercatore non può lasciarsi suggestionare da ciò che vorrebbe trovare e da ciò che non vorrebbe trovare: la sua è una situazione ambivalente tra la polarità della neutralità e dell’indifferenza e quella della cura, dell’aver a cuore e dell’essere sensibile alle sofferenze dell’altro. La conclusione è che mentre la malattia può essere oggetto di ricerca e di scienza, il malato può essere oggetto solamente di cura, perché la scienza studia il fenomeno biologico nella sua manifestazione patologica, mentre il medico si prende cura dei suoi simili che soffrono, esercitando la propria capacità di compassione e di solidarietà.

Quelle che abbiamo riportato sono solo alcune delle definizioni di malattia che possono essere trovate nella letteratura medica, psicologica e sociologica e alla fin fine ci siamo limitati a un piccolo numero di esempi, che a nostro avviso dovrebbero essere sufficienti a dimostrare che sino ad oggi nessuno è riuscito a riscrivere, con uguale efficacia e sintesi, la definizione dell’ Organizzazione Mondiale della Sanità, che si avvia a compiere 70 anni e che, pur nei limiti di una visione in certo modo utopistica, legata all’epoca in cui è stata coniata, ci sembra avere avuto una funzione sociale importante e avere fatto da catalizzatore di un vasto pensiero critico su una materia quanto mai cruciale.

In effetti, per gli storici, per i sociologi e per gli antropologi , il modo in cui le società umane hanno elaborato il concetto di salute e di malattia e hanno scelto le parole necessarie per definirlo è stato oggetto di grande attenzione e di profondo interesse, anche perché da queste elaborazioni sono derivate le successive proposte del concetto di cura, dei suoi contenuti e del suo significato morale: inevitabilmente la letteratura che si è accumulata su questo argomento è diventata vastissima. E poiché le chiavi di lettura di questi concetti sono numerose, la letteratura che le riguarda non è soltanto di pertinenza biologica, ma è stata prodotta anche da altre discipline.

La malattia, quindi, e di conseguenza la salute, sono state considerate in modi molto diversi a cominciare dalle concezioni magico-religiose che riconoscevano in essa la manifestazione di una punizione divina, il furto dell’anima, l’esito di possessione e di malocchio, tipiche di società semplici sprovviste di conoscenze scientifiche e tecnologiche, per passare attraverso una serie di definizioni direttamente dettate dal progredire continuo delle conoscenze, lo stesso che ha accompagnato lo sviluppo della medicina nella storia. La malattia è stata successivamente intesa come conseguenza di anomalie anatomiche, strutturali, funzionali, molecolari e genetiche. Da ogni nuova ipotesi suggerita dalla ricerca applicata, è nato un nuovo concetto di salute e di malattia e la medicina si è dichiarata preternaturale, funzionalista, meccanicista, molecolare.

Scrive Antony Storr nell’introduzione a Filosofia della Medicina (H.R.Wulff, S.A. Pedersen e R. Rosenberg. Cortina ed. 1995) che i concetti di salute e di malattia derivano dalle teorie della conoscenza elaborate dalla filosofia e dall’idea che si ha della natura umana. Dal concetto di malattia come semplice disfunzione biologica, un concetto figlio dell’empirismo e del positivismo, si è passati alla malattia come oggetto di interpretazione, figlia della fenomenologia, dell’esistenzialismo e dell’ermeneutica, e poi ai modelli misti che hanno cercato di mettere insieme il meglio dei due approcci, con lo scopo di superare e ampliare il concetto biologico di malattia. Come ricorda Gilberto Corbellini (Breve storia delle idee di salute e malattia, Carocci editore ,Roma, 2004 )”il concetto di salute e malattia è un derivato dalla teoria elaborata in un certo momento storico su come procede la conoscenza scientifica”, senza naturalmente dimenticare il ruolo della filosofia, che alla medicina è sempre stata legata da un rapporto del tutto particolare.

La filosofia e la medicina non sono soltanto le due facce della medaglia della professione medica: la prima, che è anche storia delle idee, ha influenzato la stessa impostazione dei problemi, suggerendo da quale punto doveva iniziare il ragionamento su questi temi. In Grecia, ad esempio, le idee sul significato della malattia, le ipotesi sulle relazioni tra ciò che si può osservare e chi osserva, le teorie relative all’osservazione, sono state certamente dettate dalla filosofia. Molto tempo dopo, un filosofo tedesco, Hans-Georg Gadamer, ha cercato di elaborare un concetto molto importante anche in medicina, quello dell’interpretazione, concetto che è anch’esso relativo al progresso delle conoscenze: chi osserva è dentro a ciò che osserva e non è un semplice osservatore esterno, un fatto che produce conseguenze rilevanti se ci si pone il problema di come si può arrivare a sostenere se esista o meno l’obiettività. In altri termini, in questa ottica l’obiettività non esiste e il medico che osserva, che analizza, che stabilisce connessioni e che trae conclusioni da ciò che vede, sta mettendo dentro al piatto anche se stesso, la sua formazione e la sua esperienza, rendendo in qualche modo non riproducibile e unica l’ azione che sta svolgendo. Ciascuno di noi, sosteneva Gadamer, quando esprime un giudizio è influenzato dalla propria visione del mondo, il che non costituisce un inconveniente, ma solo una condizione del processo cognitivo. L’interprete non può proporsi di prescindere da se stesso e dalla concreta situazione ermeneutica nella quale si trova.

Qui, in questa unicità, reale o presunta, dell’azione sanitaria, sta, ad esempio, non solo una qualità positiva della cura, ma anche uno dei numerosi problemi che la medicina contemporanea (quella che si realizza nelle grandi organizzazioni sanitarie) è chiamata a risolvere, perché in essa si riconosce un ostacolo alla sistematizzazione delle azioni sanitarie nelle strutture che si occupano della salute di centinaia e migliaia di cittadini. I cittadini hanno diritto alla uguaglianza negli accessi, alla trasparenza nelle procedure, alla appropriatezza delle cure, alla ri-producibilità dei risultati, ma la tutela di questo diritto potrebbe essere ostacolata dall’ impossibilità di organizzare per loro cure omogenee ugualmente appropriate.

Per rispondere a questa e ad altre domande e per trovare una soluzione ai problemi che esse propongono bisogna mettere sul tavolo una idea comune di cosa sia la salute, proporre un modello di medicina e un tipo di relazione terapeutica accettati da tutti, un’ idea condivisa di cosa ci possiamo aspettare dal sapere medico e dai professionisti della medicina, senza evitare di affrontarne i limiti.

E’ facile così finire nella storia delle idee, nella filosofia, come spesso accade quando ragioniamo sui nostri traguardi (su quello che vogliamo raggiungere, sugli obiettivi che intendiamo porci, sul progetto di mondo che ci sembra eticamente giusto) aggiungendo altre parole dense di significati e di implicazioni che ci vengono suggerite dalla filosofia. La verità è che dovremmo porci una domanda molto semplice e altrettanto importante: quale mondo vogliamo consegnare alle generazioni che verranno dopo di noi? Sarà comunque un mondo che non potrà fare a meno dei nuovi diritti di cittadinanza che il progresso della scienza rende possibili. Non è un caso che si parli ormai apertamente di vera e propria cittadinanza scientifica quando si discute di nuove procedure o di nuove tecnologie che, come nel caso delle tecniche di Fecondazione Assistita, allargano gli spazi per l’autodeterminazione.

Ma torniamo al concetto di salute e di malattia.

L’ idea dell’OMS di intendere la salute come uno stato di completo benessere psicologico, fisico e sociale e come ricerca di equilibrio tra le sue componenti, era ambiziosa e indicava un campo di riferimento essenziale per la salute, ovvero quello dei diritti individuali, un obiettivo straordinario per le azioni tese al ripristino della salute, valido sia dal punto di vista dei singoli che da quello dei governi. Il suo limite più evidente si poteva forse riconoscere nel concetto di equilibrio, perché si trattava di un elemento troppo esposto alla valutazione soggettiva. La Carta di Ottawa, approvata nel 1986 alla prima Conferenza Internazionale sulla Promozione della Salute, ha tracciato successivamente le linee guida per una azione globale e concertata che ha come obiettivo il benessere psicofisico della persona. La carta pone al centro dell’attenzione l’uomo e parte da una concezione olistica dell’essere umano e della società, entrambi considerati come un insieme unitario e non come una somma di parti separate. Secondo questa visione i cittadini debbono essere messi nelle condizioni migliori per raggiungere il proprio pieno potenziale di salute, un’ equità che può essere ottenuta soltanto grazie all’intervento di tutti i soggetti chiamati in causa, i governi, la sanità (pubblica e privata), le organizzazioni non governative e i media. Considerando la salute come un diritto fondamentale dell’uomo, la Carta di Ottawa ne sottolinea alcuni requisiti fondamentali, come la disponibilità di adeguate risorse economiche, una alimentazione sufficiente e corretta, la disponibilità di una casa, un ecosistema stabile e un uso sostenibile delle risorse. Diversi fattori (politici, economici, culturali e ambientali) possono dunque favorire o danneggiare la nostra salute e l’obiettivo prioritario della promozione della salute diventa inevitabilmente quello di rendere questi fattori positivi per l’uomo. Si tratta dunque di un processo socio-politico globale che investe non solo le azioni finalizzate al rafforzamento delle capacità e delle competenze degli individui, ma anche quelle svolte per modificare le condizioni sociali, ambientali ed economiche in modo tale da mitigare l’impatto che esse hanno sulla salute del sin-golo e della collettività. Questo è dunque il significato della promozione della salute: consenti-re alle persone di acquisire un maggior controllo dei fattori determinanti del proprio benessere. A questo scopo la Carta di Ottawa individua alcune strategie: perorare la causa della salute per creare le condizioni essenziali citate in precedenza; permettere a tutte le persone di sviluppare al massimo le proprie potenzialità in questo campo; rafforzare l’azione collettiva a favore della salute; mediare tra i diversi interessi esistenti nella società. I campi d’azione suggeriti dalla Carta sono invece i seguenti: impostare sane politiche pubbliche; creare ambienti favorevoli; riorientare i servizi sociali; sviluppare le capacità individuali. La Carta di Ottawa promuove, in altri termini, una teoria socio-ecologica della salute rivolta alle nazioni industrializzate (e non solo a loro) che mira a creare le migliori condizioni possibili per un sano sviluppo dell’uomo in tutte le condizioni (lavoro, tempo libero) e in tutti i momenti della sua vita.

In questo contesto, dunque, la salute viene considerata non tanto una condizione astratta, quanto un mezzo finalizzato ad un obiettivo che, in termini operativi, si può esprimere come una risorsa che permette alle persone di condure una vita produttiva sotto il profilo personale, sociale ed economico. La salute è quindi una risorsa per la vita quotidiana e non lo scopo dell’ esistenza: un concetto positivo che mette in evidenza non solo aspetti individuali e sociali, ma anche le capacità fisiche e che viene rappresentata come un progetto con due diversi obiettivi, il controllo su di se’ e il miglioramento della salute in senso collettivo.

Anche questa volta una parte considerevole degli amministratori e degli operatori della sanità si sono resi conto della forte componente utopistica del progetto e hanno obiettato che indicare obiettivi così complessi avrebbe di fatto costituito una ulteriore spinta nella direzione della medicalizzazione della vita, una prospettiva che alcuni sociologi (ad esempio Illich, nel suo saggio intitolato Nemesi medica. L’espropriazione della salute. Bruno Mondadori Editore, 2004 ) avevano segnalato. La medicalizzazione della vita è una strada molto lontana dall’autodeterminazione, implica la realizzazione di un processo di deresponsabilizzazione dei cittadini, che si affidano in misura sempre maggiore ai sistemi sanitari, in ambiti sempre più ampi della vita, delegando ad altri ampie parti della propria personale sfera di azione, con il rischio evidente di stimolare la crescita di un antistorico paternalismo di stato, sempre più invadente e prepotente e capace di creare resistenze e disagi insopportabili. Anche questa definizione, che cercava di conciliare il controllo di sé e l’autodeterminazione con la tutela della salite, è risultata alla resa dei conti indeterminata e ambiziosa, probabilmente inapplicabile.

Dovrebbe ormai essere chiaro che i concetti di salute e di malattia si articolano in relazione al contesto sociale e culturale, alle teorie e alle pratiche sociali e che per questa ragione sono oggetto di studio da parte di numerose discipline, la Storia della Medicina, la Sociologia, la Filosofia e l’Antropologia.

Di recente il British Medical Journal ha proposto, all’interno di un ampio dibattito pubblico relativo a queste tematiche, di sottoporre a revisione due concetti, quello di Autonomia e quello di Benessere. Alla luce di alcuni nuovi parametri e, in particolare, dell’aumento dell’attesa di vita (fenomeno che ovviamente riguarda soltanto i paesi più sviluppati sul piano economico) nonché dell’aumento delle malattie croniche destinate a farci compagnia nel corso di questo frammento di vita supplementare, i nuovi punti di ancoraggio della salute dovrebbero essere cercati non tanto nella definizione di benessere, quanto piuttosto nella “capacità di adattamento e di autogestione di fronte alle sfide sociali, fisiche ed emotive”.

A complicare ulteriormente questa idea non proprio semplice di salute c’è stato l’inserimento, all’interno dei diritti dei cittadini, del principio della dignità dell’uomo e della importanza che questa dignità venga rispettata. Dignità è una parola che deriva dal latino dignitas, che aveva il significato di compostezza e di decoro e che a sua volta derivava da dignus, termine il cui significato ricalca quello della parola greca axios, dalla quale deriva assioma: asserzione, verità esplicita. Si può quindi immaginare che per dignità si intenda una verità evidente, che prescinde da dimostrazioni. In modo più generico la dignità indica una condizione di nobiltà morale nella quale l’uomo si trova soprattutto in ragione della sua natura umana e insieme fa riferimento al rispetto che per tale condizione gli è dovuto dagli altri e che egli deve a se stesso. Una altra definizione considera la dignità come diritto di essere rispettato come persona, un diritto implicito nell’esistenza e pertanto oggettivo. Ma si può pensare alla dignità anche come una sorta di cenestesi dello spirito, una condizione di benessere – o forse solo di assenza di sofferenza – della quale ci rendiamo conto e della quale percepiamo il valore e il significato solo qualcuno la ferisce e la minaccia. La nostra dignità deve essere rispettata in ogni momento della nostra vita e le cure che la medicina ci offre e che la offendono non ci sono generalmente gradite tanto che tendiamo a rifiutarle. Questo è un problema che si pone soprattutto nei casi in cui le cure sono utili solo a mantenerci in vita, ma non ci concedono alcuna speranza di migliorare la qualità della nostra esistenza, costringendoci anzi a offrire una immagine degradata di noi stessi alle persone che amiamo. Questo problema è attualmente al centro della discussione sulle cure terminali e sulla eutanasia.

Esistono altri modi ancora di affrontare questo argomento: la cura, ad esempio, è stata de-scritta come un sistema complesso il cui obiettivo non è né il benessere né l’equilibrio, ma piuttosto la ricerca di un nuovo stato di salute, necessariamente diverso, che evolve senza mai più poter tornare allo stato precedente, perché niente, dopo la malattia, può tornare ad essere come prima (Pino Donghi e Lorena Preta. In principio era la cura, Laterza, Roma Bari, 1995). Diversa è la prospettiva di chi segue il cosiddetto “approccio evoluzionistico”, quello che ha preso origine dal progresso delle conoscenze biologiche e mediche e in particolare delle neuroscienze, un punto di vista secondo il quale, essendo il concetto di malattia basato su pre-supposti biologici e culturali, tutte le analisi che lo riguardano dovrebbero basarsi su concetti storici e funzionali. Lo stesso G Corbellini (EBM. Medicina basata sull’evoluzione, Laterza Roma Bari 2007) scrive che gli “avanzamenti delle conoscenze biologiche sul funzionamento del cervello individuale possono contribuire a migliorare le strategie di concettualizzazione della salute e malattia”, il che significa che le nuove conoscenze in tema di fisiologia del sistema nervoso centrale dovrebbero poter migliorare le nostre definizioni di salute e di malattia. Se questo è vero allora dobbiamo ritenere che il nostro concetto di salute, basato com’è sul buon funzionamento di un organismo, deriva dalla storia evolutiva della specie e dal modo in cui evolvono i sistemi innati di risposta alle condizioni di salute e malattia, dal meccanismo di immunizzazione alla plasticità dell’encefalo. Le novità che, sempre secondo Corbellini,” emergono dagli studi che combinano dati antropologici, psicologici e neurobiologici in un quadro evoluti-vo, per identificare le predisposizioni comportamentali umane a fronte di situazioni conflittuali o controverse, possono e dovranno essere acquisite come bagaglio di informazioni per impostare anche una migliore comunicazione con il paziente e politiche sanitarie più efficaci”

Ma torniamo alle moderne definizioni di salute, quelle alle quali ha contribuito l’OMS e sulle quali ha lavorato, dibattuto e discusso anche la bioetica: salute come benessere, equilibrio, adattamento, autonomia, evoluzione e autodeterminazione. E’ apparso chiaro a molti, fin dall’inizio, che si tratta di un tema al cui interno si nascondono urticanti questioni di diritti civili, argomenti trattati apertamente e diffusamente da alcune Costituzioni e soltanto richiamati indirettamente da altre. E tra tutti gli argomenti presi in esame ci sembra che quello che ha destato il maggior interesse riguardi il concetto di autodeterminazione dei cittadini, un tema che abbiamo già incontrato più volte in queste pagine. Si tratta certamente di una materia facilmente comprensibile, che oltretutto riguarda una situazione che è fondamentale per le vite di tutti noi, la possibilità di conciliare libertà di azione e libertà di espressione. Almeno nei sistemi democratici, poi, il concetto di autodeterminazione “confina “con quello di responsabilità, e anche in questo caso si tratta di formule certamente dotate di una certa efficacia, con-cetti che diventano cruciali nel momento in cui proviamo a ridisegnare il perimetro all’interno del quale si situa il binomio salute/malattia, alla luce delle condizioni di sistema in cui viviamo, in società destinate a godere di sempre minori risorse pubbliche per la gestione, la manutenzione e la tutela della salute collettiva.

Penso che si possano trarre da quanto ho detto conclusioni relativamente semplici. Non c’è dubbio , mi pare, sul fatto che la sterilità possa essere causa di sofferenza e che di conseguenza possa essere trattata dalla medicina come una malattia. Possa, ripeto, non debba. Ci sono persone che non richiedono figli; ci sono persone che chiedono cose che la società non può concedere loro, perché non se lo può permettere o perché deve tener conto delle possibili conseguenze ( che possono anche riguardare il destino del figlio che potrebbe nascere se il desiderio venisse accontentato. E’ su questi temi che la società si deve interrogare ed è su questi temi che deve fare chiarezza.