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Relazione al convegno “Essere le parole che si dicono”2020-03-31T19:50:15+02:00

Relazione al convegno “Essere le parole che si dicono” – Fondazione Critica Liberale

Roma, 7 aprile 2014

Maggio 2015

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Mi dicono che un sacerdote che non conosco, ma col quale sono entrato spesso in polemica (e che tra parentesi dice di me che “non credo nemmeno nel radicchio”, una definizione che non mi offende più  che tanto e che ha solo il difetto di non essere originale) ha spiegato ai suoi parrocchiani la differenza tra credenti e non credenti in modo veramente semplice. Non si tratta – ha detto loro – del semplice fatto che qualcuno creda di essere stato creato da un essere soprannaturale e che qualcun altro invece si consideri figlio della casualità, che sarebbe ben poca cosa. In realtà ci sono ben altre diversità a distinguerli: i credenti, ad esempio, hanno costruito San Pietro, gli atei e gli agnostici razionalisti sono in affitto in un vecchio stabile di via San Petronio vecchio.

In termini di maggior concretezza, ammetto che è difficile per i 4000 iscritti all’UAAR sostenere un valido confronto con le centinaia di milioni  di individui che credono in qualche sorta di divinità, si affidano ai santi, ai martiri e alle martiresse e citano continuamente frasi celebri di Cristo (o di Maometto o di Budda). E’ vero che ci sarebbero molte cose da raccontare sulla credibilità dei libri sui quali è costruita la loro fede, a negare la sincerità dei sentimenti di molti di loro sarebbe comunque un esempio di stupida crudeltà. D’altra parte il bisogno di credere in qualche cosa che nobiliti e giustifichi la nostra sofferenza in hac lacrimarum valle l’ha descritto molto bene Bertold Brecht nel suo Galileo. Ricordate?

PERMETTETE CHE VI PARLI DI ME? SONO CRESCIUTO IN CAMPAGNA, FIGLIO DI GENITORI CONTADINI: GENTE SEMPLICE CHE SA TUTTO DELLA COLTIVAZIONE DELL’ULIVO, MA DEL RESTO BEN POCO ISTRUITA. QUANDO OSSERVO LE FASI DI VENERE, HO SEMPRE LORO DINANZI AGLI OCCHI. LI VEDO SEDUTI, INSIEME A MIA SORELLA, SULLA PIETRA DEL FOCOLARE, MENTRE CONSUMANO IL LORO MAGRO PASTO.
SOPRA LE LORO TESTE STANNO LE TRAVI DEL SOFFITTO, ANNERITE DAL FUMO DEI SECOLI, E LE LORO MANI SPOSSATE DAL LAVORO REGGONO UN COLTELLUCCIO. CERTO, NON VIVONO BENE; MA NELLA LORO MISERIA ESISTE UNA SORTA DI ORDINE RIPOSTO, UNA SERIE DI SCADENZA: IL PAVIMENTO DELLA CASA DA LAVARE, LE STAGIONI CHE VARIANO NELL’ULIVETO, LE DECIME DA PAGARE […]. LE SVENTURE PIOVONO LORO ADDOSSO CON REGOLARITÀ, QUASI SEGUENDO UN CICLO. LA SCHIENA DI MIO PADRE NON S’È INCURVATA TUTTA IN UNA VOLTA, MA UN POCO PIÙ OGNI PRIMAVERA, LAVORANDO NELL’ULIVETO: ALLO STESSO MODO CHE I PARTI SUCCEDENDOSI A INTERVALLI SEMPRE UGUALI, SEMPRE PIÙ FACEVANO DI MIA MADRE UNA CREATURA SENZA SESSO. DONDE TRAGGONO LA FORZA NECESSARIA PER LA LORO FATICOSA ESPERIENZA? PER SALIRE I SENTIERI PETROSI CON LE GERLE COLME SUL DORSO, PER FAR FIGLI, PER MANGIARE PERFINO? DAL SENSO DI CONTINUITÀ, DI NECESSITÀ, CHE INFONDE IN LORO LO SPETTACOLO DEGLI ALBERI CHE RINVERDISCONO OGNI ANNO, LA VISTA DEL CAMPICELLO E DELLA CHIESETTA, LA SPIEGAZIONE DEL VANGELO CHE ASCOLTANO LA DOMENICA. SI SON SENTITI DIRE CHE L’OCCHIO DI DIO È SU DI LORO, INDAGATORE E QUASI ANSIOSO; CHE INTORNO A LORO È STATO COSTRUITO IL GRANDE TEATRO DEL MONDO PERCHÉ VI FACCIANO BUONA PROVA RECITANDO CIASCUNO LA GRANDE O PICCOLA PARTE CHE GLI È STATA ASSEGNATA […]. COME LA PRENDEREBBERO ORA, SE ANDASSI A DIRGLI CHE VIVONO SU UN FRAMMENTO DI ROCCIA CHE ROTOLA ININTERROTTAMENTE ATTRAVERSO LO SPAZIO VUOTO E CHE GIRA INTORNO A UN ASTRO, UNO TRA TANTI, E NEPPURE MOLTO IMPORTANTE? CHE SCOPO AVREBBE TUTTA LA LORO PAZIENZA, LA LORO SOPPORTAZIONE DI TANTA INFELICITÀ? QUELLA SACRA SCRITTURA, CHE TUTTO SPIEGA E DI TUTTO MOSTRA LA NECESSITÀ: IL SUDORE, LA PAZIENZA, LA FAME, L’OPPRESSIONE, CHE POTREBBE ANCORA SERVIRE SE SCOPRISSERO CHE È PIENA DI ERRORI? NO: VEDO I LORO SGUARDI VELATI DI SGOMENTO, E IL COLTELLUCCIO CADERE SULLA PIETRA DEL FOCOLARE; VEDO COME SI SENTONO TRADITI, INGANNATI.
DUNQUE, DICONO, NON C’È NESSUN OCCHIO SOPRA DI NOI? SIAMO NOI CHE DOBBIAMO PROVVEDERE A NOI STESSI, IGNORANTI, VECCHI, LOGORI COME SIAMO? NON CI È STATA ASSEGNATA ALTRA PARTE CHE DI VIVERE COSÌ, DA MISERABILI ABITANTI DI UN MINUSCOLO ASTRO, PRIVO DI OGNI AUTONOMIA E NIENTE AFFATTO AL CENTRO DI TUTTE LE COSE? DUNQUE, LA NOSTRA MISERIA NON HA ALCUN SENSO, LA FAME NON È UNA PROVA DI FORZA, È SEMPLICEMENTE NON AVER MANGIATO! E LA FATICA È PIEGARE LA SCHIENA E TRACINAR PESI, NON UN MERITO! COSÌ DIREBBERO; ED ECCO PERCHÉ NEL DECRETO DEL SANT’UFFIZIO HO SCORTO UNA NOBILE MISERICORDIA MATERNA, UNA GRANDE BONTÀ D’ANIMO (BRECHT, VITA DI GALILEO, TRAD. IT. A CURA DI EMILIO CASTELLANI, TORINO, EINAUDI, 1963,PP. 72-73).

Dunque, ecco le religioni, almeno come appaiono a un occhio benevolo: milioni di fedeli, affascinati dall’ottimismo della promessa di una vita eterna; la disponibilità alla ubbidienza e al pentimento, la predilezione per la compassione, addirittura per il perdono, e per l’onestà. Si può chiedere qualcosa di più? Credo che si possa facilmente immaginare quello che  potrebbe fare di questo immenso patrimonio (teorico) una religione organizzata e fondata su alcune piccole e fondamentali, semplicissime virtù, su alcune parole d’ordine elementari.
Non sono un esperto di religioni, ma conosco discretamente bene quello che accade alla religione che domina nel mio Paese e se mi azzardo a considerarla criticamente non provo una benché minima sensazione di agio. Temo anzi che, da studioso di storia, l’unica setta religiosa che mi scalda il cuore di un calore gradevole è quella degli Hutteriti.
Hutteriti (seguaci di Hutter)  è la denominazione assunta dagli anabattisti in Moravia. Il nome deriva da Jakob Hutter, un predicatore itinerante nato in Tirolo(precisamente a Moos, una frazione di San Lorenzo di Sebato) e arso vivo a Innsbruck nel gennaio del 1536.

Le comunità hutterite erano organizzate in fattorie in cui abitavano circa 300 individui. Il sistema di produzione mirava alla completa autosufficienza: si coltivava (e  si coltiva ) la terra, si allevavano (e si allevano) animali e si produceva (e si produce) ogni tipo di prodotto artigianale necessario per la comunità.
Come alcune comunità anabattiste, anche quelle hutterite si basavano sul principio della comunanza dei beni. Diversamente da quanto era avvenuto a Münster, il comunismo di produzione e di consumo non era però stato imposto, ma adottato su basi volontarie da tutti i membri. Volontaria era anche la partecipazione alle comunità: chiunque poteva entrarne o uscirne a suo piacimento.

Successivamente alla repressione cattolica scatenata dalla rivolta dei contadini del 1525, gli anabattisti tirolesi cominciarono a valutare la possibilità di trasferirsi in Moravia, dove l’atteggiamento nei loro confronti era di relativa tolleranza, grazie soprattutto alla nobile famiglia dei Liechtenstein, convertita e ribattezzata dal predicatore Balthasar Hubmaier. In quel periodo molti aderenti a questa versione del cristianesimo si trasferirono ad Austerlitz, sotto la protezione del signore locale Ulrich von Kaunitz.

All’interno della comunità di Austerlitz si vennero però a sviluppare degli attriti tra il capo Jakob Wideman, detto Jakob il guercio, ed il teologo Wilhelm Reublin, che portò il gruppo dissidente che faceva capo al predicatore ad abbandonare la città e a rifugiarsi ad Auspitz, dove esisteva un’altra comunità di anabattisti. Rimasta senza teologo, la comunità di Austerlitz fece chiamare dal Tirolo Jakob Hutter, che la raggiunse nel 1531. Negli anni 1533 e 1534 egli organizzò l’esodo degli ultimi anabattisti rimasti in Tirolo, e la comunità in Moravia arrivò così a contare 4000 membri.
L’emigrazione del 1534 attirò tuttavia l’attenzione di Ferdinando d’Asburgo, profondamente avverso all’eresia anabattista, che obbligò i nobili moravi ad espellere gli hutteriti nel 1535. In seguito all’ordine di espulsione i fratelli hutteriti si frantumarono in tante piccole comunità: alcune trovarono rifugio in zone isolate della Moravia, mentre altre si spostarono in Slovacchia.

Dopo la morte di Ferdinando d’Asburgo nel 1564, gli hutteriti ricominciarono a godere di una relativa libertà: poterono così dedicarsi alla costituzione di centinaia di Bruderhof, fattorie comunitarie. Questa comunità cristiana arrivò a contare oltre 20.000 adepti. Nel 1621, circa 200 famiglie si trasferirono in Transilvania su invito del principe Gabor II Bethlen, mentre i fratelli rimasti in Moravia furono quasi completamente sterminati nel corso della Guerra dei trent’anni (16181648).

Gli hutteriti transilvani si spostarono poi in Valacchia, Ucraina e ad Odessa, da dove, nel 1874, a causa dell’introduzione della coscrizione militare obbligatoria, decisero di recarsi negli Stati Uniti e in Canada. Oggi, In America del Nord vivono circa 36.000 hutteriti, divisi in tre grandi gruppi  e che sono distribuiti tra il Canada e alcuni degli Stati americani del Nord.
Gli hutteriti non usano mai a nessun costo la violenza, non reagiscono alle offese, hanno costruito una comunità nella quale gli adulti sono genitori dei bambini, non ricorrono mai alla giustizia, non fanno niente per evitare le gravidanze e la loro società vive, molto semplicemente, in pace.  Effetto della fede in Dio o della scelta di vivere in una società comunista?
Ma se considero la setta della quale sono chiamato a parlare, quella dei cattolici romani, le mie percezioni – che cerco di filtrare attraverso tutta l’obiettività della quale sono capace – non sono certamente positive. Mi viene soprattutto in mente un grande , inspiegabile spreco, se mi consentite di dire in tutta chiarezza quello che penso.

Recentemente Corrado Augias ha scritto spesso a proposito dei temi che sto trattando, ricordando gli innumerevoli scandali, la complicità con la malavita, la pedofilia, il riciclaggio del denaro, lo IOR trasformato in un Istituto di Odore Repellente, l’assoluta incapacità di fare autocritica. Recentemente ho sentito il Cardinale Bogliasco (e sinceramente non credevo alle mie orecchie) giustificare il fatto che ai vescovi non è stato imposto di denunciare i preti pedofili per attenzione alla sensibilità delle famiglie dei bambini violentati, spero che non accada la stessa cosa per i ladri, gli assassini e i mafiosi (o è già così?). Augias avanza anche una ipotesi piuttosto azzardata: suggerisce cioè che il papa “emerito” si sia reso conto che, considerate le resistenze che avrebbe trovato nella Curia, non avrebbe mai potuto trovare le energie necessarie per mettere in cantiere le riforme e abbia scelto un particolare colpo di lotta giapponese e si sia lasciato cadere trascinando con sé un gran numero dei cardinali più infidi e facilitando così il compito del suo successore.

Certo si è che il numero di errori che il Magistero cattolico ha commesso negli ultimi decenni è veramente enorme, come se persone di provata intelligenza e sicuro buon senso fossero state colpite improvvisamente da una sorta di comune follia, un virus probabilmente. Posso osare una ipotesi? E’ possibile che abbiano creduto alle storie che essi stessi mettevano in giro. E’ possibile che sia arrivata al loro orecchio una chiacchiera, secondo la quale anche loro, come il Pontefice, sono infallibili: ebbene, non ci crederete, ma è possibile che ci abbiano creduto.

La prima cosa che mi viene in mente, cercando di mettere in fila gli innumerevoli errori compiuti da costoro, riguarda il fatto di essersi accaniti su due parti dell’esistenza che la gente considera importanti, ma non abbastanza e non come la terza, la parte negletta : si sono preoccupati solo dell’inizio e della fine della vita e mai del periodo che sta nel mezzo, che come dicevo è quello che ci interessa maggiormente.

La seconda cosa riguarda il fatto che hanno condotto una lunga battaglia nei confronti della scienza, la loro principale nemica, abbandonando gli strumenti della metafisica e del dogma e scegliendo di usare la razionalità, la  stessa arma degli scienziati, una sorta di suicidio collettivo.

Ma andiamo con ordine e ragioniamo anzitutto su una parola che ha un numero eccessivo di definizioni e che per questo è molto difficile definire, la scienza.  La scienza, scrive Claudio Bartocci, non è un sistema di conoscenze né un sistema di convinzioni o di credenze, ma piuttosto  una federazione di diversi generi di ricerca. Annotava nel 1806 Charles Sanders Peirce: La scienza non consiste tanto nel conoscere e nemmeno in una conoscenza organizzata, quanto in una diligente ricerca della verità per amore della verità stessa, non in vista di raggiungere un interesse particolare o di ricavare un piacere contemplativo, ma per impulso a penetrare la ragione delle cose. Nel suo complesso si presenta come un insieme di procedure oggettivizzanti le quali hanno come output risultati quantitativi il cui valore è indipendente dal loro autore e si distingue per essere intrinsecamente naturalistica in almeno due sensi.  Da un lato si mette da parte ogni argomentazione che ricorra a incantatori  di qualsiasi genere per investigare la varietà dei fenomeni naturali secondo un metodo sperimentale. Dall’altra è il prodotto di un animale, l’Homo sapiens, esito di lunghissimi processi biologici di evoluzione: le nostre teorie costituiscono un adattamento al mondo che ci circonda, non diversamente dal fatto che siamo bipedi implumi. Il discorso scientifico costituisce un prolungamento del senso comune e contemporaneamente si sostituisce ad esso per fornirci una nuova immagine del mondo in continuo mutamento. Per dirla con Wilfrid Sellars, per quanto riguarda la descrizione e la spiegazione del mondo la scienza è la misura di tutte le cose, di ciò che è in quanto è e di ciò che non è in quanto non è. La scienza  è per sua natura antidogmatica perché sa di procedere a tentoni.  Scriveva Victor Hugo: “ieri sbagliava  Leibniz, prima di lui Lagrange, e ancor prima Agrippa, Averroè, Plotino….Che grande meraviglia questo ammasso pullulante di sogni che genera il reale. O sacri sogni, madri lente cieche e sante della verità”. Per questo la scienza è sempre pronta a rimettere in discussione se stessa.  Nello stesso modo lo scienziato conosce la propria fallibilità e non può rifiutarsi di ascoltare una opinione diversa dalla sua perché convinto che sia falsa: questo implicherebbe la coincidenza della sua opinione con la certezza assoluta. Il problema semmai si pone nei confronti dei convincimenti che non possono in alcun modo essere giustificati su base razionale, le intuizioni, le fedi, le religioni. Si delinea il contrasto tra chi cammina su percorsi illuminati da una verità che gli sta alle spalle e chi tutte le verità le deve cercare faticosamente, sperando che dopo averle trovate scoprirà anche qualche luce, ma sapendo che è fatica improba perché la maggior parte dei suoi risultati continueranno ad essere immersi nella penombra dei consensi e delle verità statistiche, che cominceranno a rivelarsi colme di errori di lì a poco, finché qualcuno verrà e con il suo ultimo contributo riuscirà a mantenere su quelle acquisizioni la luce della verità.

Ultima premessa: Non è vero che l’emozione di fronte all’ignoto, il sentimento della bellezza, lo stupore, il senso del mistero, così profondamente radicati nella natura umana, non abbiano diritto di cittadinanza nei gelidi territori della scienza e siano appannaggio esclusivo del sentimento religioso o dell’arte. Feynman, in una intervista del 1981, dichiarava: non mi spaventa il fatto di non sapere le cose, di essere perso in un universo misterioso privo di alcuno scopo, che è poi il modo in cui stanno le cosa, per quello che so. Ha scritto recentemente Claudio Bartocci: Anche se sopraffatta dal senso del mistero, la ricerca scientifica, nel suo procedere incerto, non può rinunciare a essere laica.

Il “conflitto tra scienza e religione” ha assunto, in questi ultimi due secoli, forme, toni e intensità differenti. Alla fine dell’800, era diventato addirittura abituale parlare di un conflitto non conciliabile tra la scienza e la teologia cristiana e a questa tesi avevano molto contribuito i libri di John William Draper (History of the conflict between religion and science, 1874) e Andrew Dickson White ( History of the warfare of science with theology in Christendom, 1896). Il libro di Draper era stato scritto come una sorta di reazione ad alcuni  editti papali – in particolare a quello in cui si stabiliva l’infallibilità del pontefice – e criticava con una qualche violenza la Chiesa Cattolica Romana, che veniva paragonata, in modo certo non favorevole, all’Islam,  e alle Chiese Protestanti, delle quali veniva lodato il buon rapporto con la scienza. Scriveva Draper: la storia della scienza non è  un puro elenco di scoperte isolate, è la narrazione del conflitto tra due poteri in aperto contrasto tra loro, da una parte la capacità di espansione dell’intelletto dell’uomo, dall’altra  l’ostilità messa in campo dalla fede tradizionale e dagli interessi umani.

Dal canto suo White scrisse il suo libro  contro ogni forma di cristianesimo restrittivo e dogmatico, sottolineando di essere stato sollecitato a rendere pubblica la sua posizione  anche a seguito delle molte difficoltà incontrate nel suo sforzo di assistere Ezra Cornell ( che è, con White, il fondatore della Cornell University) nel suo tentativo di fondare una Università libera da legami e non affiliata a sette religiose.

Le opinioni di questi due scrittori furono oggetto di molte critiche negli anni seguenti e la loro idea di fondo, che cioè la religione rimandava necessariamente e inevitabilmente ad un mondo metafisico che la scienza sembrava ormai destinata a mandare in frantumi, fu considerata antistorica e superficiale e aspramente criticata.  Ha scritto  a questo proposito Gary Ferngren nella introduzione ad un recente libro su Scienza e religione : “ tutti gli studi dimostrano che il cristianesimo ha spesso nutrito e incoraggiato  la ricerca scientifica…. Che in molte occasioni scienza e religione sono state capaci di coesistere senza tensioni particolari e dimostrando talora volontà di dialogo…. Se a qualcuno viene in mente, come esempio di conflittualità, il processo a Galileo, deve capire che si tratta di una eccezione e non della regola”.

Questa interpretazione piuttosto discutibile di un rapporto che secondo l’opinione della grande maggioranza degli storici non ha mai cessato di essere conflittuale è stata certamente agevolata dalla crisi della concezione positivista della scienza e dalle difficoltà incontrate da alcune branche del sapere scientifico. La mediazione tra le critiche molto energiche di White e le recenti intemperanze degli storici cattolici ha dato vita a una diversa prospettiva, secondo la quale scienza e religione sono due ambiti distinti, e non necessariamente in conflitto tra loro  rivolti a questioni differenti: la scienza cerca di descrivere la realtà e di spiegare come funziona il mondo, mentre la religione cerca di spiegare il perché del mondo, offrendo così le ragioni necessarie a dare un senso all’esistenza. Secondo questa prospettiva, le affermazioni scientifiche non riguardano e non possono in alcun caso riguardare la religione, o le religioni, e il problema semmai è quello di  elaborare una visione religiosa del mondo capace di incorporare le verità scientifiche. Questo compito è stato reso più agevole da cambiamenti interni al pensiero religioso, che ad esempio ha abbandonato il tradizionale realismo interpretativo a favore di prospettive critiche e attente alla de-mitologicizzazione, sia da cambiamenti nel pensiero scientifico, che ha acquisito maggiore consapevolezza dei limiti dell’impresa scientifica: la religione ha aperto a nuovi modi di intendere la “metafisica” e la scienza si è resa conto che le proposizioni metafisiche non rientrano nel proprio ambito. Per la maggior parte del ’900 sono stati proposti vari tentativi di sintesi tra religione e scienza, tra cui spicca quello del gesuita e paleontologo Teilhard de Chardin. Questi tentativi apparivano attraenti anche perché da una parte venivano a garantire grande libertà a tutti i cittadini – in contrasto con quanto accadeva ove si imponeva l’ateismo di stato – e dall’altra riuscivano a prospettare una armonia sociale dal momento che le modalità fondamentali della moralità e della vita sociale erano sostanzialmente condivise: come osservava Scipio Sighele agli inizi del XX secolo, “anche ai nostri giorni gli uomini che seguono teorie diametralmente opposte possono seguire una stessa linea di condotta morale. Clericali od irreligiosi, socialisti o conservatori, la legge morale è eguale per tutti, mentre tante e tanto diverse sono per gli uni e per gli altri le leggi del pensiero. Antonio Rosmini e Carlo Darwin –se ne togliamo pel primo la materialità delle pratiche religiose—avevano un concetto fondamentalmente identico dei doveri dell’uomo e del cittadino, pur avendo del mondo e della natura un concetto assolutamente diverso”. In breve, le divergenze circa il fondamento della morale non portavano a sostanziali contrasti sul piano normativo – o comunque questi erano ristretti ad ambiti limitati e poco frequenti.

A partire dagli anni ’70 il quadro è cominciato a mutare. Le ragioni di questo cambiamento sono molte e troppo complesse per essere affrontate in questa breve relazione, così mi limito ad accennarne alcune: ricordo anzitutto il processo di secolarizzazione che ha potentemente investito ampi settori della società occidentale portando a cambiamenti nello stile di vita con l’affermazione di nuove esigenze. Questo processo è stato favorito da maggiore benessere e da migliori condizioni di vita uniti alla diffusione del pensiero scientifico che ha creato le basi di una visione del mondo più disincantata e meno disponibile ad essere influenzata dalla metafisica e dalla magia: le aree di mistero sono diminuite ed è scemato l’atteggiamento di reverenza per  il mistero.  Inoltre, si è avuta la rivoluzione bio-medica, che ha spostato l’attenzione dalla fisica al mondo vivente, con un conseguente  impatto sociale che ha direttamente coinvolto un gran numero di cittadini. Mentre la rivoluzione nelle scienze della natura inorganica (la fisica, la chimica, l’astronomia) è stata compiuta da una ristretta élite ed ha richiesto lunghi periodi prima di avere effetti sociali di rilievo, nel volgere di pochi anni la rivoluzione bio-medica ha cambiato alcuni parametri della esistenza umana che apparivano immutabili. Come conseguenza di questi progressi delle conoscenze e di  una capacità di controllo sulla vita sempre crescente  si è almeno in parte dissolto quell’ alone di mistero che sembrava circondare  la biologia e renderla impenetrabile ad ogni forma di controllo umano. Le reazioni delle religioni a questi eventi sono state molteplici e non sempre chiare, anche se il cattolicesimo aveva lasciato credere di essere in una fase di rinnovamento che avrebbe dovuto portare a nuove aperture. molte delle quali erano attese e  sollecitate dagli stessi fedeli. Attualmente sembra di essere tornati alla situazione di conflitto tra scienza e religione che aveva caratterizzato la fine del 19° secolo, tanto che la libertà di ricerca viene costantemente messa in discussione. Ritorna ad essere prevalente nel mondo cattolico l’idea di una religione totalitaria, unica portatrice di verità, e di una scienza presuntuosa e ribelle, incapace di riconoscere i propri limiti , limiti che le sono imposti direttamente da Dio e che riguardano l’elemento sacro di alcuni oggetti delle sue indagini. Vale la pena di riportare una breve parte del discorso pronunciato da Pio IX davanti alla federazione dei sindacati francesi nel 1938 che mi sembra molto attuale : “Se c’è un regime totalitario, totalitario di fatto e di diritto, è il regime della chiesa, perché l’uomo appartiene totalmente  alla Chiesa, deve appartenerle, dato che l’uomo è creatura del buon dio, egli è il prezzo della redenzione divina, è il servitore di dio, destinato a vivere per dio quaggiù, e con dio in cielo. E il rappresentante delle idee, dei pensieri e dei diritti di dio non è che la Chiesa. Allora la Chiesa ha veramente il diritto e il dovere di reclamare la totalità del suo potere sugli individui: ogni uomo, tutto intero appartiene alla Chiesa, perché tutto intero appartiene a dio. Non c’è dubbio su questo punto per chi non voglia negare tutto.”

Molti storici, nel cercare di dare una spiegazione a questo ritorno al passato della Chiesa cattolica, che ha totalmente rinnegato il Concilio Vaticano II, chiamano in causa la sconfitta dell’ideologia comunista e dei governi che imponevano una sorta di irreligione di stato. E’ molto probabile però che questa sia una delle ragioni, e non sia invece il motivo unico e fondamentale di quanto sta accadendo.

In realtà, dopo la perdita di valore sociale e filosofico di alcune delle ideologie che sono state ragione di forti conflitti nel secolo appena trascorso, l’ordine mondiale si sta ridisegnando in un modo nuovo e, almeno in parte, imprevisto. La lotta per controllare le risorse  e in particolare per controllare le fonti di energia si abbina alla necessità, per gli stati che controllano il potere, di prendere posizione a livello strategico.

Tutto ciò è stato causa dell’inizio di un nuovo ciclo di guerre, inusuali per molti rispetti, ma non meno sanguinose di quelle alle quali eravamo abituati. Come molti commentatori politici ci fanno osservare, esiste un disordine globale che ha come conseguenza l’impossibilità di “tenere il mondo sotto controllo”.

Come conseguenza, e a causa della crisi di molti stati nazionali, si stanno costituendo dei blocchi tra nazioni che si raggruppano su basi regionali, con inevitabili frantumazioni di carattere essenzialmente identitario. Esiste un diffuso timore di perdere la propria identità nazionale e di essere prevaricati, inglobati, divorati da culture considerate da secoli estranee  se non ostili. Di qui una notevole difficoltà a trovare, proporre e accettare mediazioni, non solo sul piano politico, ma anche e soprattutto su quello culturale e ideologico.
E’ possibile, i prossimi anni ce lo potranno confermare, che siamo entrati in una fase di conflitti di civiltà, una fase che ci impone di definire la nostra identità in base a fattori tradizionali : è possibile, secondo alcuni è molto probabile, che le religioni possano rappresentare un elemento di tutto rilievo nella definizione delle differenti identità.
Rispetto al passato sono divenuti meno importanti, e comunque hanno perso gran parte del loro valore storico, i conflitti determinati da controversie di confine e siamo entrati in una fase nuova che favorisce quelli che Huntington definisce i “conflitti di faglia”. E’ dunque possibile che la politica mondiale si rimodelli sulla base di schemi che si potrebbero definire politico-culturali: le antiche guerre di religione, così essenziali e semplici nelle loro motivazioni, vengono via via sostituite da conflitti combattuti in nome di differenti concetti di civiltà.

C’è ovunque uno sforzo rivolto a definire la propria identità e a far accettare dagli altri la propria idea sul ruolo che si è chiamati a interpretare nel mondo. La Chiesa, che ha sempre aspirato a un ruolo universale, e che teme di essere percepita come una variante della cultura occidentale, è sollecitata ad agire in una dimensione internazionale. Per avere successo deve risultare credibile, una credibilità minacciata dalla crescente secolarizzazione della società e dal progresso scientifico, che la minacciano seriamente. Sono a rischio il concetto di legge naturale e la famiglia tradizionale.  E inevitabilmente è a rischio la credibilità del Magistero cattolico.

Ecco cosa scriveva non molti anni or sono Carlo Viano (Rivista di Filosofia, 2, 2002).
Sembrava che il regresso delle ideologie totalitarie dovesse far svanire l’ultima minaccia sulla libertà della scienza, e invece le trasformazioni delle scienze biologiche hanno posto fine alla pace tra religione e scienza. Giovanni Paolo II è stato esplicito: finchè si tratta di mondo inorganico sta agli scienziati dirci come stanno le cose e la Bibbia può ricevere un’interpretazione figurata, ma quando si tratta del mondo della vita la Chiesa non rinuncia alla credenza che essa dipenda da un’anima, e perciò gli scienziati non possono pretendere di dire l’ultima parola in merito.
Oggi le minacce alla libertà della scienza vengono dal fronte religioso, nelle società occidentali dall’integralismo cattolico e dal fondamentalismo protestante, e da ideologie deboli, come il femminismo, il multiculturalismo e l’ambientalismo che, non più favorevoli all’idea di stato totalitario, contestano tuttavia la legittima possibilità per la scienza di porsi qualsiasi domanda, per irrispettosa che sia delle convinzioni di qualcuno, e di mettere alla prova le possibilità di alterare i processi naturali. Finora queste pretese non hanno avuto ospitalità negli ordinamenti giuridici, anche se hanno condizionato il finanziamento delle ricerche perfino in un paese liberale come gli Stati Uniti. In Italia si è profilato l’intervento diretto del braccio politico. Mentre il presidente degli Stati Uniti, personalmente favorevole ai movimenti religiosi di difesa della vita in tutte le sue forme, si è tuttavia pronunciato per la sperimentazione sulle cellule embrionali, il ministro della Sanità dell’attuale governo, che pure ha revocato il divieto indiscriminato della clonazione, ha dichiarato che nella sperimentazione sulle cellule staminali bisogna attenersi ai vincoli dettati dal riconoscimento che gli embrioni sono persone. La classe politica italiana, qualche che sia il suo colore, non sembra affatto disposta a difendere i cittadini dalle imposizioni della Chiesa cattolica e a garantire che le scelte ispirate a credenze religiose non possano essere imposte a chi non le condivide”.

Condivido appieno queste parole – e condivido quello che, sulla stessa rivista, scrive Antonello La Vergata:
E’ in atto, credo, un tentativo di costruire sulle lacerazioni del mondo cattolico e sul dramma dei cattolici non integralisti un blocco culturale antidemocratico e un blocco politico clerico-industriale, in cui gli interessi dell’impresa sono presentati come gli interessi della società tout court, e i valori della tradizione cattolica come i valori costitutivi dell’identità italiana. I liberali tacciono. E così il Papa non solo interviene contro le coppie di fatto, le unioni omosessuali, la fecondazione assistita, l’aborto, l’eutanasia e la clonazione, ma addirittura incita avvocati e giudici all’obiezione di coscienza contro il divorzio. La via italiana al liberalismo sembra passare per il finanziamento pubblico alle scuole cattoliche. Dunque meglio non disturbare i vescovi impegnati nella comune battaglia contro la “sinistra”. Meglio ancora dire che il liberismo non è antireligioso, ma anzi intrinsecamente religioso, attaccare come “ammuffito” il laicismo di Bobbio, trovare consonanze fra la tradizione liberale e “la libertà morale che Papa Woityla rivendica per la persona umana” e ricordare che “anche i laici hanno un loro Papa: Benedetto Croce”, il quale “in questo dopoguerra è continuamente ritornato sull’età dell’Anticristo nella quale stiamo entrando”. E poi si può sempre firmare con la mano sinistra una manifesto di bioetica laica e con la mano destra un “Manifesto per un nuovo ambientalismo, umanista, liberale e cristiano”, con enfasi sul concetto di persona (un concetto di cui la bioetica cattolica fa un uso militante)” .

Si portano dunque, nella discussione bioetica relativa alle nuove proposte della scienza, falsi argomenti, fingendo di derivarli da una letteratura scientifica che, o non esiste, o ha assai poco di scientifico. Al tempo stesso, si ignorano le ragioni degli altri, anche quando queste ragioni sono supportate da una letteratura seria e attendibile. Riesco a capire, pur disapprovandole, le ragioni di questa “malafede”: chi vive troppo intensamente la propria religione o, più genericamente, i propri principi morali, può arrivare al punto di dimenticare che esistono, per tutti, “limina certa” ma cercare di prevalere sulle opinioni degli altri – quando queste divengono minacciose per le proprie – anche contro l’evidenza e la verità,
non è più soltanto “malafede” , è “mala-fede”. Un altro, nuovo tipo di prevaricazione ideologica da aggiungere ai numerosi che l’analisi della storia consente di elencare.
Del resto, fare luce sui meccanismi più intimi della biologia della riproduzione non è privo di effetti sulle differenti visioni metafisiche della procreazione e soprattutto sul concetto di sacralità della vita, che si sgretola lentamente

Ma l’evoluzione della conoscenza, oggi, è così rapida che le influenze di maggior rilievo sulla morale di senso comune non possono essere affidate a morali ossificate, colme di pregiudizi, incapaci di adattarsi alle nuove proposte in tempi accettabili.
E’ necessario che il rapporto tra morale di senso comune e intuizione delle conoscenze possibili sia mantenuto vivo ed efficace da un’etica non dogmatica, laica, capace insieme di adattarsi al nuovo e di riconoscere tempestivamente gli elementi di mistificazione e di rischio, di non inchiodare la società alla croce di un concetto antistorico di natura, ma di salvaguardare al contempo alcune caratteristiche fondamentali della specie umana.

In una società complessa come la nostra, caratterizzata dalla convivenza di molte visioni differenti dell’uomo e della morale, non si può pensare che possa esistere un canone etico a vocazione universale, soprattutto su un campo come quello della bioetica, che tocca le concezioni e i sentimenti più profondi dell’uomo.

La bioetica laica non è una versione secolarizzata della bioetica religiosa e non vuole rappresentare una nuova ortodossia: tra l’altro, in molte questioni gli stessi laici sono in disaccordo tra loro. La bioetica laica non vuole imporsi a coloro che aderiscono a valori e visioni diverse, ma si limita a cercare mediazioni, evitando di trasformare i contrasti in conflitti, considerando peraltro irrinunciabili i valori sufficientemente forti da rappresentare la base per regole di comportamento giuste ed efficaci: l’equità, la libertà della ricerca, l’autonomia delle persone. In questo modo, l’etica laica si può proporre come un metodo, utile per affrontare i problemi più complessi, anche quelli apparentemente irrisolvibili, un metodo reso particolarmente utile ed efficace dalla forza dei principi su cui è fondato.

La prima conclusione che mi sembra di poter trarre da questa analisi è che sono necessarie regole: regole che riguardano le prerogative della pro­duzione di conoscenza; regole che riguardano il comportamento dei ricer­catori, ai quali non può essere consentito di utilizzare gli strumenti in loro possesso per mettere a rischio o danneggiare l’uomo e la società degli uomini.
Mi aiuta, nell’analisi di questo problema, la definizione di scienza data da Ziman: una particolare istituzione sociale che si propone di produrre conoscenza e coinvolge grandi numeri di persone che eseguono con regolarità azioni spe­cifiche coordinate consapevolmente in progetti più vasti.

Ci sono alcune cose, in questa definizione di scienza, che meritano di essere sottolineate: il fatto che si tratta di una attività sociale, nella quale tutti noi investiamo e che da noi trae legittimazione, autorità e sostegno; il fatto che l’attività di ogni singolo ricercatore ha significato scientifico solo rispet­to a un progetto ampio e condiviso.

Come tutte le attività sociali la ricerca scientifica non può sottrarsi ad alcuni condizionamenti: deve avere codici, vincoli e attributi, deve garantire una sufficiente autodisciplina e deve permettere un adeguato controllo da parte della società.
Robert Merton, nel 1942, ha elencato una serie di norme che dovrebbe­ro rappresentare insieme i limiti e gli attributi della scienza. Le riassumo, visto che mi sembrano assolutamente valide anche se sono passati più di 60 anni.
La prima norma è il comunitarismo: la scienza produce frutti che debbo­no essere considerati proprietà comune. Questa regola, con la quale la scien­za crea il proprio contesto di seria riflessione, vieta la segretezza e stabilisce le norme delle relazioni tra scienziati all’interno della ricerca accademica.

La seconda norma è quella dell’universalismo. I risultati delle ricerche vengono inclusi in un archivio comune e i criteri di iscrizione sono fonda­mentali per modellare la scienza accademica come la struttura sociale desti­nata a produrre conoscenza. Questa norma stabilisce i criteri di inclusione, vietando i preconcetti e i privilegi.
Il terzo criterio è quello del disinteresse, dal quale nasce la credibilità della scienza. È un criterio che vale solo per la scienza accademica e che non può essere considerato né assoluto né dirimente. Gli scienziati sono comun­que uomini e chiedere a loro di operare lasciando da parte ogni tipo di inte­resse personale sembra eccessivo anche a chi appartiene alla schiera dei paladini della scienza virtuosa. Dovrei aprire qui un pericoloso e complesso capitolo, quello delle prerogative della scienza post-accademica, ma non lo faccio perché mi sembra esulare dall’interesse di questo scritto.

Il successivo criterio è quello dello scetticismo organizzato, che deve imporre ai ricercatori di essere dubitosi anche nei confronti dei risultati da essi stessi prodotti: essere scettici non significa essere nichilisti, né lasciarsi sopraffare da profondi dubbi filosofici, ma solo sapere mettere un freno alla propria ricerca e considerarne con prudenza le conclusioni.

Le altre norme, (originalità, creatività, cooperazione, trasparenza) non hanno bisogno, mi sembra, di commenti.
Ci sono state circostanze nelle quali la scienza – o meglio, l’applicazione dei risultati ottenuti dalla ricerca scientifica – ha creato rischi, anche dram­matici, per la società degli uomini. Mi vengono in mente due esempi: il primo, purtroppo tristemente  noto a noi tutti, è quello dell’applicazione delle nuove conoscenze relative allo sfruttamento dell’energia atomica, che ha portato al dramma dei bombardamenti atomici su due città del Giappone. Il secondo, riguarda le vaccinazioni antipolio, eseguite coltivando i virus su cellule renali di scim­mie, che sono responsabili della presenza di un virus caratteristico delle scimmie e sinora ignoto al genere umano nel genoma di molti individui vaccinati.

Nel primo caso, mi sembra che la scienza e gli scienziati possano essere assolti, poiché non possono essere considerati responsabili dell’uso che gli uomini fanno delle loro scoperte (ma l’opinione pubblica la pensa in modo diverso).

Nel secondo caso la responsabilità è invece della scienza e degli scienzia­ti che non hanno saputo prevedere i rischi possibili e hanno applicato in modo inadeguato la norma dello scetticismo organizzato, che fa parte del principio di precauzione.
Non mi pare che sia possibile evitare che gli uomini facciano usi impropri e pericolosi delle tecniche che vengono loro consegnate dalla ricerca scientifica. Mi sembra invece necessario considerare lo scetticismo organiz­zato come insufficiente per garantirci nei confronti di una scienza che potrebbe diventare pericolosa; una norma più conveniente mi sembra quel­la che si basa sulla valutazione dei rischi potenziali e che può essere applica­ta solo mediante la prudente applicazione di controlli plurimi, interni ed esterni, obbligatoriamente estensibili a tutta la ricerca scientifica, comunque e ovunque attuata.

Un problema che la scienza deve risolvere oggi riguarda la prevalenza, sempre più evidente, della ricerca scientifica post-accademica, quella finanziata dall’industria e dalle multinazionali, dalla quale dipende una conoscenza non sempre basata sull’oggettività, non sempre fondata sul disinteresse personale, sul comunitarismo, sull’universalismo e sullo scetticismo organizzato, cioè sugli imperativi istituzionali della ricerca scientifica. Questa nuova scienza tende a sottrarre i risultati delle indagini alla proprietà del ricercatore, vietandogli di comunicarli, di analizzarli e di criticarli; stabilisce un rapporto perverso tra ricerca scientifica e mercato; tende a far tracimare le sue regole nel terreno della scienza accademica, condizionando negativamente la credibilità del ricercatore. Ne può derivare una scienza completamente imbrigliata nelle reti della prassi, in un mosaico che produce una particolare forma di conoscenza che deve essere in accordo con gli interessi finanziari, commerciali, politici e sociali degli enti che la finanziano.

Il problema è complesso. La scienza occupa un posto ben preciso nella società ed è una voce importante nel bilancio nazionale, con rapporti di grande rilievo con la medicina, la tecnologia, la legge e la politica. Difendere la scienza accademica dagli sconfinamenti della ricerca industriale non è dunque solo un problema morale: è un dovere sociale, non assolvendo il quale si consegna la società ad una pseudo-scienza priva di responsabilità, insincera e certamente non virtuosa. Ebbene, delle molte cose che si possono fare per riportare la scienza alla produzione di una conoscenza non interessata e comunque sottoposta al controllo sociale, nessun governo, a mia memoria, si è mai realmente interessato.
Si tratta adesso di stabilire le norme alle quali i ricercatori si debbono attenere: meglio ancora, si tratta di decidere chi deve stabilire queste norme.

La prima proposta è stata quella di applicare questo compito alla religione, o alle religioni, una scelta sulla quale mi dichiaro molto dubbioso.

Anzitutto, penso che Buddha, Gesù e Maometto non avessero la più pallida idea dei problemi che dobbiamo affrontare oggi, e non credo che esista persona al mondo che possa immaginare che tipo di risposte avrebbero dato se si trovassero al nostro posto. In più, le morali religiose sono generalmen­te lente, ossificate, inadeguate a rispondere ai quesiti che sempre più spesso la ricerca scientifica ci propone. Si tratta di posizioni morali che non sono condivise da tutti, e che nei paesi laici dovrebbero avere lo stesso peso di tutte le altre posizioni con le quali sono costrette a confrontarsi. Se penso a questo Paese, non posso poi ignorare quanto spesso la morale religiosa dominante, quella cattolica, sia dogmatica, confusa, prepotente, intolleran­te, inadatta a qualsiasi forma di mediazioni.

Per fortuna, il nostro è un Paese laico, basato su una concezione secolare del potere politico, che colloca tutte le confessioni religiose su uno stesso piano di uguale libertà senza istituire, nei loro confronti, né un sistema di privilegi, né un sistema di controlli. E in paese laico deve essere privilegiata la cultura laica, della quale mi limito a dare due definizioni. La prima è di Guido Calogero e afferma che la laicità non è né una filosofia né una ideo­logia, ma il metodo di convivenza di tutte le filosofie e di tutte le ideologie possibili. La seconda è di Nicola Abbagnano che interpreta la laicità come autonomia reciproca tra tutte le attività umane, che non possono essere subordinate le une alle altre, ma debbono automaticamente svolgersi secon­do le proprie finalità e le proprie regole interne, un’accezione nella quale la laicità corrisponde, nei rapporti tra le attività umane, alla libertà nei rappor­ti tra gli individui. Per fare più diretto riferimento al problema della scienza, secondo questo principio ad ogni studioso dovrebbe essere lasciata la più ampia sfera di decisioni autonome compatibili con l’interesse della colletti­vità.

Per ragionare in termini più concreti, si può immaginare che a conside­rare le scelte della ricerca scientifica e a limitare la libertà di ricerca scienti­fica di ogni singolo operatore possa essere chiamata una generale disposi­zione della coscienza collettiva dell’uomo che definirò, per semplicità, morale di senso comune. Questa morale, che si forma per molteplici influenze dentro ognuno di noi, ha sempre avuto un dialogo fondamental­mente utile con la scienza e, malgrado i suoi dubbi e i suoi timori, pur essen­do molto restia ad accettare persino le più elementari proposte di cambia­mento, ha generalmente ceduto di fronte a quelle che vengono definite “le intuizioni delle conoscenze possibili” purché riesca a trovare, in esse, indi­cazioni precise sui vantaggi impliciti e garanzie nei confronti di rischi possi­bili.

Un’etica laica, dunque, alla quale spetterà, in avvenire, prendere importanti decisioni che riguarderanno non più tanto cosa dobbiamo fare, ma cosa vogliamo fare. Decisioni che ci riguardano tutti, ma alle quali non siamo preparati. È, natu­ralmente, un problema di democrazia: tutti i cittadini debbono conoscere le conseguenze possibili degli scenari immaginabili. Un Paese che non tenga conto di questa necessità è condannato a vivere in una condizione di demo­crazia incompiuta.

Nella definizione di medicina manca in genere qualsiasi riferimento alla scienza, e quando esiste si scopre ben presto che qualcuno ha già provveduto a limitarne o a contenerne il significato, affermando ad esempio che si tratta di una scienza inesatta e caratterizzata da molte incertezze, (Susan Goold, 2002).

Potremmo definirla una scienza empirica, priva di verità assolute, che vive di consensi, elaborati da persone sagge e competenti che sanno che il consenso che sono in grado di raggiungere comincerà a morire appena perfezionato, ma che qual consenso, finché sarà in vita, sarà la verità per tutti i medici onesti. Purtroppo è ormai entrato nella prassi considerare i medici come degli scienziati, e molti di loro amano farsi definire così. Di qui la necessità di trovare una definizione di scienza che abbia toni poco magniloquenti. Ad esempio: “sapere, dottrina, insieme di conoscenze ordinate e coerenti organizzate logicamente a partire da principi fissati in modo univoco e ottenute con metodologie rigorose , secondo criteri propri delle diverse epoche storiche.” Temo che in questo modo appaia un riferimento a un tempo della vita dell’uomo nel quale mancava qualsiasi attenzione alla razionalità e dominavano idee magiche e religiose della vita e dell’uomo. Dovrebbe essere comunque sufficiente dare rilievo all’aggettivo, rigoroso, un richiamo al metodo scientifico che dovrebbe essere valido elle scienze naturali come in quelle sociali. Uno scienziato non parte mai dal nulla, deve tenere nel massimo conto i fenomeni constatabili, deve sapere formulare una ipotesi sulla base delle teorie note e dell’optimum di conoscenza particolareggiata, deve sapere prendere atto di tutti i nuovi dati che possono contraddire le sue ipotesi secondo il principio dello scetticismo organizzato, deve essere sempre obiettivo e controllare la propria creatività e la propria immaginazione: tutte cose sacrosante, che per la maggior parte non figurano nella cosiddetta scienza medica.

Molte discipline considerate scientifiche non godono del privilegio di possedere verità incontrovertibili, le acquisizioni destinate a resistere alla critica e allo sviluppo delle conoscenze sono ben poche e riguardano soprattutto alcune discipline, la matematica, la fisica, alcune parti della chimica. Molte scienze procedono a zig zag, hanno vita tormentata, ostacolata da critiche e litigi, da contestazioni e da delusioni; altre, la medicina tra queste, hanno più modestamente deciso di sostituire la verità con i consensi, la più temporanea e fallace forma di verità e hanno stabilito regole ferree che debbono essere seguite alla lettera se si vuole essere creduti: ad esempio, nulla è vero in medicina se non viene confermato.

Ne deriva, ad esempio, che la definizione dei termini, l’interpretazione degli eventi biologici, la materia da sottoporre all’analisi della deontologia e dell’etica debbono provenire da coloro che sono chiamati a elaborare i consensi, non possono essere il frutto di persone incompetenti che si impegnano a trasformare definizioni e contenuti per poterli più facilmente sottoporre a precise (e personali) critiche morali. Chiamare “eterologhe” le donazioni di gameti, affermare che la gravidanza inizia con il concepimento, stabilire che alimentazione e idratazione artificiali fanno parte del riconoscimento dell’altro come persona e sono espressione dei sentimenti di compassione per chi soffre e non sono cure, fa parte di questa scelta. Stabilire che l’aborto volontario è un crimine efferato ma contemporaneamente elaborare una teoria secondo la quale la contraccezione non è prevenzione delle gravidanze non desiderate ma un altro crimine, forse un po’ meno efferato, ma comunque sempre mortale, appartiene alla stessa categoria di scelte. Considerare “creontea” una legge che è stata approvata dalla stragrande maggioranza degli italiani, come la legge 194, e cercare di comprarsi la coscienza dei medici con lo scopo ultimo di convincere il legislatore che ha imposto al paese una legge che la gente rifiuta e che è ora di tornare sui propri passi, è anche una sciocchezza, oltretutto piuttosto grande.

Ho detto che i teologi non dovevano affrontare gli scienziati sul loro terreno, e ne do un esempio.  Nella definizione dell’inizio della vita, scritta nel Donum vitae, la scelta è caduta sullo zigote, definito come la struttura che risulta dalla fusione dei due pronuclei. Peccato che i pronuclei nella nostra specie non si fondano, ma semplicemente scompaiono, e che la fusione riguardi invece il riccio di mare. Ma non basta. Il maggiore scienziato cattolico, Adriano Bompiani, aveva descritto in modo esemplare lo zigote, ma a questo punto ai teologi quella struttura non andava più bene: avrebbero potuto dire  qualcosa come “scusate ma abbiamo cambiato idea”; invece hanno deciso di rinnegare la definizione di Bompiani ( e di tutti gli embriologi del mondo). Ma c’è di più. Ci sono stati casi nei quali il problema dell’inizio della vita è stato affidato al filo sottile della convenienza economica: se andate a leggere la storia del referendum che fu tenuto in Irlanda nei primi anni di questo secolo, scoprirete che tutto il clero di quel Paese era pronto a far votare ai fedeli una modifica della costituzione che stabiliva che l’embrione non era più protetto dal momento del concepimento ( come è logico che sia per chi crede che l’embrione sia uno di noi) ma solo al momento del suo impianto in utero, e questo solo per la promessa del governo di pagare i grossi debiti contratti dal clero cattolico con le famiglie dei molti bambini violentati. Con altrettanta superficialità si è passati da una concezione della verità che si affidava completamente alla filosofia ad una che guardava con occhio ammiccante alla biologia, cosa che ha moltiplicato le ipotesi accettate o proposte dai teologi  e confermate da biologi compiacenti.   Senza pensare ai molti pasticci fatti in materia di procreazione medicalmente assistita, il più grave dei quali è stato quello di imporre al paese una legge che il paese stesso ha poi  rapidamente massacrato.

Tutto ciò è stato fatto, tra le altre cose, ignorando quello che Pietro Prini chiamava lo scisma sommerso, una sorta di sorda ribellione che si è fatta sempre più evidente, sino a diventare concreta proprio ai giorni nostri: leggete le ricerche eseguite in Italia e nel mondo su quello che i cattolici pensano su una lunga lista di temi, tra i quali quello dell’ammissibilità dell’interruzione volontaria della gravidanza, scoprirete che lo scisma non è più sommerso, è diventato palese.

Recentemente qualcuno ha scritto o detto che in realtà tutto quello che il Pontefice dice e fa dimostra chiaramente che abbiamo per la prima volta un papa comunista. Il Pontefice ha naturalmente negato, dicendo che non bisogna confondere tra fede cristiana e visione marxista del mondo, per carità. Qualcuno ha esaminato le due posizioni, riassumendole in questo modo: nella visione marxista la povertà va cancellata, i poveri debbono molto semplicemente scomparire e la società deve adoperarsi per evitare le diseguaglianze. Il cristianesimo constata molto pragmaticamente che i poveri esistono e si adopera per aiutarli, eventualmente avvicinando i propri comportamenti quotidiani ai loro utilizzando allo scopo la rinuncia e la sobrietà. La posizione cristiana è realistica, quella marxista utopistica. Qualcuno ha considerato offensivo il riferimento, considerati i misfatti del marxismo, ma poi è stato zittito, non è che tra vittime dell’Inquisizione e kulaki ci siano differenze significative.

Im realtà non bisogna dimenticare che Marx era ebreo e che nelle sue teorie un certo messianismo doveva inevitabilmente far capolino da qualche parte. E’ però vero che a lui delle persone interessava poco, non erano i poveri ma gli sfruttati il soggetto delle sue preoccupazioni, voleva solo che le masse si rendessero conto della propria situazione e si sollevassero diventando creatrici di storia.  Cristo pensava ai singoli, voleva tutti, ricchi e poveri, sani e malati, alla stessa mensa, a spezzare lo stesso pane. Una ulteriore possibile somiglianza sta proprio nel fatto che chi spezza e mangia il pane con te è un compagno. Più che una trasformazione sociale Cristo predicava una sorta di trasformazione interna, basata sulla rinascita degli individui alla luce dello spirito. Per Marx si trattava di attendere la rivoluzione, una rivoluzione del tutto particolare perché fatta dai giusti e dagli oppressi in nome della giustizia e della equità; per Cristo si trattava di risanare gli uomini in attesa dell’imminente avvento del Regno. Dovevano avere entrambi una strana idea del tempo.

Colpisce comunque il fatto che gran parte delle critiche rivolte all’attuale pontefice gli giungono dal cattolicesimo più ortodosso e retrivo. Il Pontefice viene accusato di separare la fede dalla carità, di contrapporre la purezza della dottrina alla impurità del perdono e della misericordia. Ha suscitato scandalo l’aver dichiarato che la dottrina è suscettibile di sviluppo e gli è stato chiesto (ma sinora non ha risposto) cosa mai può modificarla.

Una risposta possibile è che la dottrina si modifichi per effetto dello spirito del tempo, ma per i tradizionalisti questo è alito del demonio.  Allora bisogna guardare da qualche altra parte. L’epistola di Giacomo contiene una affermazione di grande rilievo: dice che anche Satana crede in Dio e lo teme, ma che il problema di Satana è quello di essere incapace di amore. Potrebbe essere questo lo spiraglio, l’amore, la forza misteriosa che può far modificare la dottrina.

In realtà non è concepibile una fede senza carità, una comunità che non è capace di perdono.  In ultima analisi la novità di Francesco consiste soprattutto in una lettura del Vangelo senza mediazioni e glosse, nel richiamo dei cristiani alla loro origine oltre che nella rinuncia a molte mediazioni del passato.

Al momento ci sono molte domande che non trovano risposta. E’ possibile che l’azione pastorale del papa sia destinata a influenzare la dottrina, ma ci dobbiamo chiedere cosa ne deriverà: convincerà i fedeli? Convincerà i laici? Intanto si sono spaventati i cattolici più intransigenti e dogmatici, che hanno la sensazione che il clima sia  cambiato e che certi privilegi dei quali godevano siano improvvisamente meno garantiti; nello stesso modo si sono spaventati i  cattolici delle comunità di base, che temono per la incolumità di questo nuovo pontefice e si affannano a raccomandargli di assumere un assaggiatore di cibi. E poi ci sono segnali importanti che giungono dagli studi di chi si preoccupa di valutare i mutamenti ai quali va incontro l’atteggiamento dei fedeli nei confronti di una serie di temi delicati, come l’aborto volontario e la presenza delle donne nel clero, studi che dimostrano come l’ipotesi di uno “scisma sommerso” sia in effetti molto più di una teoria.

Questa fragilità della chiesa cattolica è chiaramente sotto gli occhi di tutti, tutti se ne sono accorti e qualcuno addirittura ne approfitta. Una commissione dell’ONU che si occupa dei minori ha rimproverato il Magistero per aver protetto i preti pedofili, e ne ha approfittato per aggiungere qualche caustica osservazione sulle prese di posizione del Vaticano su altri temi etici. Il Vaticano, con inconsueta timidezza, ha protestato per questa invasione di campo, ma forse si è anche ricordato che di intromissione ferisce di intromissione perisce.

Tutti siamo in qualche modo consapevoli che c’è in atto un cambiamento, un tema sul cui significato però tendiamo a dividerci. Personalmente sono ancora perplesso. L’attuale Pontefice mi sembra una brava persona, ma mi irrita non poco quando definisce il matrimonio tra omosessuali come “alito del demonio” e quando cita Leon Bloy (“chi non prega Dio prega il diavolo). Mi piace il fatto che stia rivolgendo la sua attenzione ai poveri, e stia tralasciando il fine vita e l’inizio dell’esistenza, ma poi si dimentica di chiedere scusa agli eretici bruciati sul rogo perché erano dei pauperisti, che poi sono i veri martiri della nostra storia comune. Mi dispiace che pensi che gli atei sono privi di dignità (il cardinale Ravasi ha detto che siamo folkloristici, ma se ne deve essere pentito quando in molti gli hanno fatto osservare che quello che va in giro vestito da donna e con abiti color violaciocca è lui) e spero anche che non pensi che tutto si giochi su questo, la dignità, per scegliere se si va in paradiso o all’inferno, sulla dignità dei cattolici avrei molto da dire.

E’ comunque ora – e qui arrivo alle mie conclusioni – che il pontefice cominci a prendere in esame  se è giusto e dignitoso che una religione si comporti come una sanguisuga ingorda e se ne stia ben attaccata alle vene varicose di questa povera Italia che ha già i guai suoi per nutrire mafia e politica, altre due sanguisughe di non poco conto. Non c’è solo il concordato: ci sono i redditi di molti edifici che con un po’ più di onestà da parte di tutti dovrebbero pagare le tasse, ci sono i cappellani militari ci sono i consolatori dei malati ricoverati negli ospedali, gli insegnanti di religione…

Il 18 febbraio 1984, l’allora presidente del consiglio Bettino Craxi e il cardinale Agostino Casaroli, segretario di stato vaticano, firmarono gli accordi di Villa Madama. Il nuovo Concordato, che aggiornava quello stipulato l’11 febbraio del 1929 con il regime fascista, non considerava più il cattolicesimo quale religione di Stato e rendeva opzionale l‘ora di religione nelle scuole, introduceva però il meccanismo dell’otto per mille. E di fatto lasciava intatta l’enorme capacità di condizionamento che la Chiesa cattolica ha sulla politica italiana.

Recentemente dopo una campagna durata mesi, il segretario dell’Uaar ha consegnato più di ventimila firme per chiedere a deputati e senatori l’abolizione del Concordato con la Santa Sede. La consegna è avvenuta a Montecitorio e della petizione si dovrebbe discutere in sede di commissioni parlamentari. Esiste dunque un’opinione pubblica laica spesso bistrattata e il vecchio sistema del Concordato è divenuto inattuale per una società sempre più secolarizzata nella quale continuano a crescere di numero fedeli di altre confessioni e non credenti.

L’Italia sta cambiando, ma la Chiesa cattolica mantiene gli enormi privilegi di sempre e conserva il generale ossequio da parte delle istituzioni, il che significa discriminazioni verso chi non è cattolico e danno per gli elementari principi di laicità. Non si tratta solo di tasse non pagate e di sovvenzioni ricevute in modo indebito ma di problemi come l‘assistenza spirituale a carico dello stato, il matrimonio religioso che tende a mortificare quello civile, nonché le diffuse prebende, esenzioni e finanziamenti a favore della Chiesa che sottraggono denaro dalle tasche di tutti i cittadini.

Per un paese veramente laico e moderno, la petizione ha chiesto la sostituzione degli articoli 7 e 8 della Costituzione. Al posto del multiconfessionalismo (che ripropone in piccolo lo schema concordatario anche con altre confessioni, discriminando atei e agnostici), invita le istituzioni ad approvare una legge sulla libertà di credere e di non credere tale da superare la normativa fascista sui “culti ammessi”.
L’abolizione del Concordato è però ancora un argomento tabù e il mondo politico continua a stare ben attento a non scontentare il Vaticano e preferisce la celebrazione del (nuovo) Concordato (garanzia di vera laicità, secondo l’Avvenire). Ma la soluzione concordataria, sebbene sia descritta come ancora attuale da chi ne raccoglie i frutti e dal mondo della politica in bilico tra formalismo e arrendevolezza, non è più al passo con i tempi. La società italiana, nonostante il clericalismo, diviene sempre più laica.

E c’è persino qualcuno che si è inventato una sorta di ”parabola” per dar maggior chiarezza alle sue perplessità. La “parabola”  racconta di una signora non più giovanissima ( il nome, naturalmente, non può essere che Italia) che denuncia la sua età per via di molte rughe, molti capelli bianchi e certe brutte varici nelle gambe; il suo guaio maggiore è che alle varici sono attaccate (e succhiano vivacemente sangue) tre sanguisughe, anche loro dotate di nomi che ci sono noti: Politica, Mafia e Religione. La storia racconta poi che una di questi Anellidi, colta da una sorta di raptus, smettesse di colpo di nutrisse e, ricolta alle altre due, imprecasse contro la loro malvagità e arroganza, rimproverasse il loro comportamento malvagio e parassita e le minacciasse di non so quale pena una volta che avessero raggiunto l’al di là delle sanguisughe.  A questa esplosione di rabbia seguì un lungo silenzio. Poi, una delle due – non si è mai saputo quale – smise anche lei di nutrirsi e le rispose pacatamente: “ Pensa che inizialmente ti avevamo creduto. Poi, quando abbiamo visto che ti eri rimessa a succhiare….. “